Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 364 del 13/01/2010

Cassazione civile sez. lav., 13/01/2010, (ud. 01/12/2009, dep. 13/01/2010), n.364

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. LA TERZA Maura – rel. Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20344/2008 proposto da:

ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA(PIAZZA GIUSEPPE VERDI N. 10, presso lo studio dell’Avvocato

TURCO CHIARA, (c/o l’Ufficio della Funzione Affari Legali e

Societari), che lo rappresenta e difende giusta delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

C.R.;

– intimata –

Nonchè da:

C.R., elettivamente domiciliata in ROMA, Via Casetta

Mattei 239, presso lo studio dell’avvocato TROPEA SERGIO, e F.

Primavera, rappresentata e difesa dall’avvocato LEONE SERENA, giusta

delega in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA

PIAZZA GIUSEPPE VERDI N. 10, presso lo studio dell’Avvocato CHIARA

TURCO, (c/o l’Ufficio della Funzione Affari Legali e Societari), che

lo rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 1337/2007 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 25/07/2007 R.G.N. 3043/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2009 dal Consigliere Dott. MAURA LA TERZA;

udito l’Avvocato TURCO CHIARA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso principale, rigetto dell’incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza non definitiva in epigrafe indicata del 27 luglio 2006 la Corte d’appello di Roma accoglieva la domanda proposta da C.R. nei confronti del Istituto Poligrafico, dichiarando il suo diritto alla inclusione dei compensi percepiti per lavoro straordinario nella base di calcolo sia dell’indennità di anzianità e del TFR, in relazione a quest’ultimo limitatamente al periodo anteriore all’entrata in vigore del CCNL del 1992, sia delle mensilità aggiuntive e delle ferie in relazione al periodo non prescritto, avendo accolto la relativa eccezione del 27 marzo 1900, e fino all’entrata in vigore del CCNL del 1992; indi, con la sentenza non definitiva condannava l’Istituto Poligrafico al pagamento, per la riliquidazione del TFR, della somma di Euro 422,55, comprensiva di rivalutazione fino al 31 dicembre 1992, nonchè di Euro 2.505,89 per la riliquidazione delle mensilità aggiuntive e delle ferie, oltre interessi e rivalutazione monetaria. La Corte territoriale, per quanto ancora interessa in questa sede, affermava che il compenso per lavoro straordinario, reso come nella specie con periodicità ed abitualità, deve essere computato nella indennità di anzianità maturata fino al 31 maggio 1982, mentre, quanto al TFR, il medesimo compenso doveva essere incluso solo fino all’entrata in vigore del CCNL del 1992, giacchè in esso era previsto, nella disposizione sulla “nomenclatura”, che la “retribuzione” a cui la norma sul TFR faceva riferimento, era quella corrisposta in relazione all’orario normale.

Il medesimo compenso per lavoro straordinario andava anche computato nelle mensilità aggiuntive e nella retribuzione feriale, tacendo le relative voci richiamo alla nozione di “retribuzione”, da intendersi in senso onnicomprensivo, perchè l’art. 21 del CCNL del 1989, definiva la retribuzione come ” quanto complessivamente percepito dal dipendente per la sua prestazione lavorativa”, ciò però solo fino all’entrata in vigore del CCNL del 1992, in cui la nozione di retribuzione era stata appunto innovata, in senso restrittivo.

Avverso entrambe le sentenze propone ricorso l’Istituto Poligrafico, con un motivo, mentre resiste con controricorso e ricorso incidentale con un motivo la lavoratrice.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi ex art. 335 c.p.c.. Con l’unico motivo del ricorso principale si denunzia violazione dell’art. 1322 c.c., in correlazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere la Corte territoriale accolto la domanda tendente al ricalcolo degli istituti indiretti per il periodo dal marzo 1990 al 1992, con l’inclusione del compenso per lavoro straordinario, che invece non sarebbe dovuto.

Con il ricorso incidentale ci si duole della mancata inclusione dello straordinario nel TFR dopo il CCNL del 1992.

1. Entrambi i ricorsi sono improcedibili a causa del mancato deposito dei CCNL in forma integrale, avendo entrambe le parti depositato solo stralci, seppure ampi, delle normative contrattuali succedutesi nel tempo.

Invero, dopo alcune perplessità (Cass. n. 21080 del 04/08/2008, per cui l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda va riferito sia alle norme collettive della cui violazione il ricorrente si duole attraverso le censure mosse alla sentenza impugnata, sia ad ogni altra norma collettiva utile per l’interpretazione delle prime, sempre però che essa appartenga alla causa per essere stata dedotta e prodotta nei precedenti gradi di merito) la giurisprudenza maggioritaria di questa Corte (Cass. 11 febbraio 2008 n. 6432, n.15495 del 02/07/2009, n. 2855 del 2009) si è orientata nel senso che è necessario il deposito del testo integrale del contratto. Ciò in primo luogo in forza del dettato letterale dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), il quale prevede che gli atti processuali, i documenti e i contratti o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda devono essere depositati insieme al ricorso a pena di improcedibilità, norma che non sembra prevedere deroghe, consentendo il deposito solo di stralci del contratto collettivo da interpretare.

2. Le modifiche apportate al codice di rito, per cui il ricorso ex art. 360 c.p.c., n. 3, è consentito anche per violazione di accordi e contratti collettivi, si giustificano con l’esigenza di rafforzamento della funzione nomofilattica della Cassazione sul versante dalle contrattazione collettiva di diritto privato al fine, se non di eliminare, quanto meno di ridimensionare quelle zone di incertezza che hanno – in ragione sul piano istituzionale della mancata attuazione del disposto dell’art. 39 Cost. – caratterizzato non di rado le opzioni ermeneutiche della giurisprudenza di merito e di legittimità. E’ sufficiente rammentare l’orientamento pregresso secondo cui “è fisiologico che due opposte interpretazioni dei giudici di merito di una medesima disposizione collettiva siano entrambe convalidate o censurate dalla Suprema Corte, a seconda del superamento o meno del controllo limitato alla verifica della correttezza della motivazione e del rispetto dei criteri ermeneutica di cui all’art. 1362 c.c. e segg.” (tra le tante Cass. 12 maggio 2006 n. 11037; Cass. 5 giugno 2003 n. 9024; Cass. 23 maggio 2001 n. 7039).

3. E’ altresì principio che trova concorde la giurisprudenza di legittimità, ed anche la dottrina, quello per cui i canoni ermeneutici da utilizzare non sono quelli incentrati sull’art. 12 preleggi, ma sui generali criteri codicistici di cui all’art. 1362 c.c. e segg., applicabili a tutti gli atti espressione dell’autonomia privata.

Conviene però precisare quale sia l’ambito della interpretazione a cui la Corte di legittimità può e deve procedere, giacchè, sul piano sistematico, questa questione è connessa con quella che ne occupa nella specie, in cui si tratta di dimostrare che la legge impone il deposito del contratto collettivo nella forma integrale.

Alcuni commentatori hanno rilevato che, quando la domanda sia stata fondata su una o più specifiche disposizioni collettive, e solo su quelle si sia svolto il contraddittorio, alle medesime dovrebbe restringersi anche l’esame della cassazione, la quale, altrimenti, verrebbe indebitamente a conoscere di materiali non introdotti e non valutati nel giudizio di merito.

Se così fosse, sarebbe inutilmente oneroso esigere dal ricorrente il deposito integrale del ricorso, giacchè la interpretazione dovrebbe essere ristretta nei limiti che hanno contrassegnato il giudizio di merito e quindi non vi sarebbe necessità di esame di clausole ulteriori.

4. Al riguardo conviene in primo luogo richiamare i rilievi già svolti sul punto nei giudizi ex art. 420 bis c.p.c., per decidere se essi possano valere anche quando non si tratta di questa speciale procedura, ma del normale ricorso per cassazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, in cui si assume che la sentenza impugnata abbia violato o falsamente i contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.

E’ stato precisato (Cass. n. 19560 del 2007) che, in sede di art. 420 bis c.p.c., la Corte di legittimità – nell’enunciare in funzione nomofilattica un principio – è tenuta ad operare come se l’oggetto del suo esame fosse una norma giuridica e non, invece, un negozio di natura privatistica.

Si è aggiunto, nella sentenza citata, per quanto attiene specificamente ai poteri della Corte di Cassazione, che nell’interpretazione del contratto, essa non è condizionata dalle domande delle parti e dal loro comportamento, potendo ricercare liberamente all’interno del contratto collettivo (da depositarsi ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) ciascuna clausola – anche se non oggetto dell’esame delle parti e del primo giudice – comunque ritenuta utile alla interpretazione.

Di conseguenza non si dubita che in quei procedimenti sia necessario depositare il contratto collettivo nella sua interezza (Cass. Sez. L, Sentenza n. 16619 del 16/07/2009).

5 Fermo restando che i canoni ermeneutici da applicare sono sempre gli stessi, e cioè quelli indicati dal codice civile, ci si chiede se la metodica da seguire si differenzi davvero a seconda che l’interpretazione delle pattuizioni sindacali avvenga ad opera dei giudici di legittimità nel corso di un ordinario giudizio ovvero attraverso l’iter procedurale disegnato dall’art. 420 bis c.p.c., (e con gli effetti determinati datale norma e dall’art. 146 bis disp. att. c.p.c.).

La differenza tra i due procedimenti è indubbia, dal momento che quest’ultimo caso è funzionalizzato a provocare una pronunzia capace, seppure in via tendenziale, a fare stato in una pluralità di controversie c.d. seriali, perchè interessanti la collettività dei lavoratori destinatari della contrattazione collettiva di cui viene definito l’ambito applicativo. Tutto ciò spiega – come si è già avuto modo di osservare con la già citata sentenza n. 19560 del 2007 – perchè la Corte di Cassazione nella procedura ex art. 420 bis c.p.c., non risulti vincolata alla opzione ermeneutica del giudice di merito, pur fondata su una motivazione congrua e corretta sul piano logico, potendo la stessa Corte, a seguito di propria ed autonoma scelta, pervenire ad una diversa decisione di quella del primo giudice, non solo per quanto attiene alla validità ed efficacia del contratto, ma anche in relazione alla sua interpretazione, attraverso una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già vagliati dal giudice di merito, atteso che presupposto indispensabile della funzione nomofilattica (al cui rafforzamento è volta la suddetta disposizione di rito) è la certezza e la stabilità delle statuizioni giurisprudenziali, che rendono inammissibile che possano darsi, di una identica disposizione contrattuale, interpretazioni corrette – quanto a motivazioni e quanto ad applicazione dei criteri di cui all’art. 1362 c.c. – ed al tempo stesso tra esse contrastanti.

6. Sembra al Collegio che alla stessa conclusione si debba pervenire in relazione all’ambito dell’interpretazione che compete alla Corte nel caso in cui venga proposto ordinario ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 3.

In primo luogo è stato osservato da alcuni commentatori che l’art. 420 bis c.p.c., non indica il tipo di controllo cui la Corte deve procedere quando è investita del ricorso per saltum sulla questione pregiudiziale, dandolo per presupposto proprio in base al precedente art. 360 c.p.c., n. 3, senza il quale l’art. 420 bis c.p.c., non potrebbe operare; a tal fine le due disposizioni sono state introdotte contestualmente dal D.Lgs. n. 40 del 2006. In altri termini, il procedimento ex art. 420 bis c.p.c., trova necessario fondamento nella nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e nulla autorizza ritenere che, nell’un caso, l’analisi della contrattazione collettiva debba essere più limitato rispetto a quanto previsto per l’altro. E’ poi innegabile che la interpretazione resa ex art. 420 bis c.p.c., oltre avere effetto anticipatorio, abbia una maggiore forza cogente, stante il disposto dell’art. 146 bis disp. att. c.p.c., in cui richiamando il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64, comma 7, si sancisce l’influenza della decisione della Corte in altri processi in cui si controverta sulla medesima questione.

La statuizione ha quindi effetti diversi, tuttavia nessuna disposizione diversifica il processo interpretativo da applicare in caso di ricorso normale ed in caso del ricorso per saltum. Invero, la nomofilachia, cui le nuove norme sono finalizzate, sarebbe pregiudicata ove si ritenesse che, nell’un caso, l’interpretazione debba essere astretta alle clausole contrattuali esaminate nei gradi di merito, mentre, nell’altro, la interpretazione si possa svolgere a tutto campo, reperendo nel contratto altre clausole, non esaminate, che però potrebbero risolvere ogni margine di incertezza. Il rischio starebbe nella emanazione di sentenze contrastanti, recanti cioè interpretazioni diverse sulla medesima questione e sulla base della medesima contrattazione collettiva, stante il diverso grado di affidabilità delle une rispetto alle altre, a causa della completezza o meno dell’indagine che la Corte ha svolto.

7. Peraltro, come si è già avuto modo di osservare con la citata sentenza n. 19560 del 2007, nella giurisprudenza di legittimità è ormai costante – nell’interpretazione della disciplina contrattuale collettiva dei rapporti di lavoro, censurabile in sede di giudizio di cassazione solo per vizi di motivazione e violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale – l’affermazione che, sebbene la ricerca della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio dell’interpretazione letterale, assume valore preminente il criterio logico – sistematico di cui all’art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà dei contraenti come manifestata nella globalità delle clausole afferenti il contratto collettivo ed aventi immediata attinenza alla materia in contesa (cfr. in tali termini tra le altre: Cass. 22 giugno 2006 n. 14461; Cass. 9 maggio 2006 n. 10636; Cass. 21 marzo 2006 n. 6264, cui adde, in epoca più risalente, Cass. 24 luglio 1998 n. 7296). Ossia, stanti gli innegabili limiti sul versante istruttorio che la Corte di Cassazione incontra nell’ambito della procedura interpretativa, assume un rilievo particolare il criterio logico sistematico della interpretazione complessiva delle clausole stesse.

Orbene, se fosse precluso alla Corte, anche in sede di ricorso ordinario, di applicare il criterio sistematico, interpretando le clausole le une per mezzo delle altre, la decisione che ne sortirebbe sarebbe sicuramente meno affidabile e meno “resìstente” rispetto ad altri interventi, sentenze rese ex art. 420 bis c.p.c., che, si possono invece giovare di questo fondamentale criterio ermeneutico.

8. Si è obiettato da alcuni commentatori che la presa in considerazione, da parte della Corte, di clausole non valutate dai giudici di merito, potrebbe pregiudicare il contraddittorio, dal momento che i contratti collettivi non sono stati interamente equiparati alla legge.

Si può rispondere che – data per scontata la non equiparazione del contratto collettivo alla legge (prova ne sia la diversa tipologia dei canoni ermeneutici, cui già si è fatto cenno) – tuttavia il legislatore ha investito la Corte in relazione alla indubbia efficacia precettiva della fonte contrattuale, in funzione della sua “proiezione” diretta a disciplinare una serie di contratti individuali di lavoro.

Ed allora, per consentire alle parti di interloquire su clausole non considerate in sede di merito, si potrebbe ricorrere all’art. 384 c.p.c., penultimo comma, (cfr. disposizione analoga per il giudizio di merito introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11) provocando il contraddittorio sulla questione, come non si dubiterebbe di dover fare nel caso si trattasse di norme; di legge, in forza del principio, più volte enuncialo, per cui il giudice ha l’obbligo di rilevare j d’ufficio l’esistenza di una norma di legge idonea ad escludere o a fondare, alla stregua delle circostante di fatto allegate ed acquisite agli atti, il diritto vantato dalla parte, senza che su tale obbligo possa esplicare rilievo la circostanza che nei gradi di merito le questioni controverse abbiano investito altri e diversi profili (Sez. un. n. 10933 del 7 novembre 1997).

9. In ogni caso, è necessario il deposito del contratto collettivo nazionale in forma integrale, pena la improcedibilità del ricorso, come la norma di legge prevede, per cui, solo all’esito di questa produzione ed al suo esame complessivo, sarà possibile aprire il contraddittorio sulle parti del contratto non esaminate in sede di merito.

Quanto alle modalità del deposito, la disposizione (art. 369 c.p.c., n. 4) impone di farlo unitamente al ricorso, ma è ben possibile che nel ricorso medesimo si indichi che la copia del contratto collettivo è già inserita nel fascicolo dei gradi di merito in atti, indicazione necessaria affinchè la Corte lo reperisca agevolmente, nell’ambito di quel sistema di collaborazione tra le parti ed il giudice, funzionale alla speditezza ed alla chiarezza del procedimento, introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006.

Ancora in relazione alle modalità di deposito, si è già affermato (Ordinanza n. 2855 del 5 febbraio 2009) che “L’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda – imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella nuova formulazione di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 – non può dirsi soddisfatto con il deposito, oltre il termine di cui all’art. 369 c.p.c., comma 1, dei fascicoli di parte di primo e secondo grado, contenenti il contratto, per estratto, in allegato al ricorso di primo grado, a nulla rilevando che il contratto sia stato depositato, a sua volta, dal ricorrente incidentale, atteso che, ove venisse ammessa tale equipollenza nella produzione, verrebbe disattesa la lettera del citato art. 369 c.p.c., che sancisce l’improcedibilità, senza eccezioni”.

10. Conclusivamente entrambi i ricorsi vanno dichiarati improcedibili, dovendosi affermare il principi – di diritto per cui la produzione di meri stralci del contratto collettivo nazionale di lavoro non corrisponde alla prescrizione di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

La reciproca soccombenza consiglia la compensazione delle spese.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li dichiara improcedibili. Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2010

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