Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3627 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. lav., 13/02/2020, (ud. 31/01/2019, dep. 13/02/2020), n.3627

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10916-2017 proposto da:

F.D., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato ELDO PALANCA;

– ricorrente –

contro

I.R., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato PATRIZIA ANTONELLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 225/2016 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 08/11/2016 r.g.n. 34/16.

Fatto

RILEVATO

che la Corte di Appello di Ancona, con sentenza pubblicata in data 8.11.2016, ha respinto il gravame interposto da F.D., nei confronti di I.R., avverso la sentenza n. 282/2015 del Tribunale di Ascoli Piceno, depositata il 7.8.2015, che aveva rigettato la domanda della lavoratrice, diretta ad ottenere l’accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno ed indeterminato tra le parti, con decorrenza dall’1.4.2012 al 28.2.2013, con mansioni di badante, prima categoria B, in luogo della C super, secondo il CCNL del settore badanti e colf; l’accertamento della illegittimità del licenziamento alla stessa intimato il 7.2.2013, con condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità pari a sei mensilità della retribuzione globale di fatto commisurata a mille Euro mensili, nonchè la condanna della parte datoriale alla corresponsione della somma di Euro 16.496,00, a titolo di differenze retributive inerenti all’attività lavorativa prestata e della somma di Euro 15.576,00 per il lavoro straordinario, festivo e notturno, oltre al TFR ed agli accessori, come per legge;

che per la cassazione della sentenza ricorre F.D. sulla base di due motivi contenenti più censure, cui resiste con controricorso I.R.;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1321,2096,2099,2697 c.c., nonchè, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la “omessa e/o contraddittoria motivazione circa il punto decisivo della controversia” e si lamenta che la Corte di merito abbia ritenuto infondate le domande, “perchè non si è formata la prova (testimoniale) del fatto costitutivo del diritto oggetto di tali domande” e che “non” avrebbe “valutato l’attendibilità dei testimoni di parte ricorrente, preferendo le dichiarazioni rese da quelli di controparte che, al contrario, erano assolutamente inattendibili stante il rapporto di parentela con il resistente”; ed altresì che, “sul punto”, i giudici di seconda istanza non avrebbero fornito alcuna motivazione a supporto della decisione, omettendo di esaminare compiutamente le prove testimoniali; dalla qual cosa, sarebbe derivato, appunto, il vizio di motivazione sotto il profilo della insufficienza e contraddittorietà della medesima; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione dell’art. 2702 c.c., in relazione agli artt. 214 e 216 c.p.c., nonchè, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per “contraddittoria motivazione circa il punto decisivo della controversia”, perchè i giudici di secondo grado non avrebbero tenuto nel debito conto la circostanza che la lavoratrice, “in occasione della prima udienza di comparizione, disconosceva la sottoscrizione a lei imputata e presente nelle buste paga depositate in atti dal resistente, con riserva di esaminare gli originali” e, “senza disporre la procedura di verificazione, ritualmente richiesta dalla ricorrente”, avrebbero erroneamente ritenuto probanti le buste paga sottoscritte dalla stessa, ed in parte disconosciute, sulla base delle dichiarazioni testimoniali assunte;

che il primo motivo – che, nella sostanza, tende ad ottenere una nuova valutazione del merito, in questa sede non consentito – è inammissibile sotto diversi e concorrenti profili: relativamente alla censura che attiene alla “violazione di legge”, perchè la parte ricorrente non ha indicato sotto quale profilo le norme menzionate sarebbero state violate, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3 codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); pertanto, le doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza si risolvono in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);

che, inoltre, nel corso dello stesso motivo, si fa riferimento alle buste paga, in parte disconosciute, che non sono state prodotte e neppure indicate nell’elenco dei documenti offerti in comunicazione elencati nel ricorso per cassazione, in violazione (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Pertanto, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità della doglianza svolta dalla ricorrente;

che il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al giudice di merito; per la qual cosa, “la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove” (come, nella sostanza, è avvenuto nella fattispecie: v., in particolare pag. 6 del ricorso, laddove si lamenta il “vizio di motivazione, sotto il profilo dell’omissione, insufficienza e contraddittorietà della medesima” in ordine alla valutazione delle risultanze probatorie) “non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito” (cfr., ex multis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014 citt.; Cass. n. 2056/2011); e, nella fattispecie, la Corte distrettuale è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un percorso motivazionale condivisibile e scevro da vizi logico-giuridici circa la valutazione degli elementi delibatori posti a base della stessa, mentre le censure sollevate, al riguardo, dalla lavoratrice appaiono, all’evidenza, finalizzate ad una nuova valutazione degli elementi di fatto, attraverso la mera contestazione della valutazione dei predetti elementi;

che, infine, per quanto, più in particolare, attiene alla seconda censura, ne va rilevata la inammissibilità per la formulazione non più consona con le modifiche introdotte all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile, ratione temporis, al caso di specie poichè la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, in data 8.11.2016;

che le considerazioni da ultimo svolte circa la seconda censura del primo motivo valgono anche per la seconda censura del secondo motivo, il quale, peraltro, è infondato quanto alla prima censura, avendo i giudici di secondo grado deciso conformemente all’indirizzo giurisprudenziale di questa Suprema Corte, condiviso dal Collegio che non ha ravvisato ragioni per discostarsene. Ed invero (cfr., tra le altre, Cass. n. 15686/2015), “Nel procedimento di verificazione della scrittura privata, il giudice di merito, ancorchè abbia disposto una consulenza grafica, ha il potere-dovere di formare il proprio convincimento sulla base di ogni elemento istruttorio obiettivamente conferente, comprese le risultanze della prova testimoniale e la valutazione del complessivo comportamento tenuto dalla parte cui la sottoscrizione sia attribuita, senza essere vincolato ad alcuna graduatoria fra le varie fonti di accertamento della verità. Invero, la consulenza tecnica sull’autografia di una scrittura privata disconosciuta, da un lato, non costituisce un mezzo imprescindibile per la verifica dell’autenticità della sottoscrizione, come si desume dalla formulazione dell’art. 217 c.p.c., mentre, dall’altro, non è suscettibile di conclusioni obiettivamente certe, tenuto conto del carattere irripetibile della forma della scrittura umana”. Ed al riguardo, i giudici di seconda istanza hanno condivisibilmente ritenuto, tenuto conto del quadro probatorio formatosi all’esito dell’istruttoria espletata, che le sottoscrizioni delle buste paga da parte della lavoratrice avessero il valore sostanziale di quietanze del pagamento degli importi indicati nelle stesse (cfr., in particolare, pag. 7 della sentenza impugnata);

che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va respinto;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che non sussistono, allo stato, i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza, allo stato, dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 31 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020

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