Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3617 del 16/02/2010

Cassazione civile sez. I, 16/02/2010, (ud. 29/09/2009, dep. 16/02/2010), n.3617

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26934/2008 proposto da:

DE.PI. COSTRUZIONI S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), in persona

dell’Amministratore unico pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA XX SETTEMBRE 3, presso l’avvocato SANDULLI Michele, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANTONIO NARDONE, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI SOMMA VESUVIANA, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CALCUTTA 45, presso l’avvocato

D’AURIA ALBERTO, rappresentato e difeso dall’avvocato D’AVINO

Arcangelo, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI – DIPARTIMENTO DELLA PROTEZIONE

CIVILE, MINISTERO DEGLI INTERNI;

– intimati –

e

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del

Consiglio pro tempore, MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del

Ministro pro tempore, domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

COMUNE DI SOMMA VESUVIANA, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CALCUTTA 45, presso l’avvocato

D’AURIA ALBERTO, rappresentato e difeso dall’avvocato D’AVINO

ARCANGELO, giusta procura a margine del controricorso al ricorso

incidentale;

– controricorrente al ricorso incidentale –

contro

DEPI COSTRUZIONI S.P.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2282/2008 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 10/06/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

29/09/2009 dal Consigliere Dott. SALVATORE SALVAGO;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato M. SANDULLI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato M. D’AVINO che ha chiesto

il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Napoli con sentenza del 29 ottobre 2001, condannò in solido il Ministero dell’Interno e quello della Protezione Civile al risarcimento del danno in favore del Fallimento della DEPI Costruzioni s.p.a. per l’illegittima requisizione di alcuni appartamenti di proprietà di quest’ultima, a seguito dei noti eventi sismici del (OMISSIS), che liquidò in complessive L. 44.969.689.902 oltre accessori. Dichiarò il difetto di legittimazione passiva del comune di Somma Vesuviana con cui la DEPI aveva stipulato in data (OMISSIS) una transazione per l’importo di L. 12 miliardi comprensivo di tutti i danni lamentati,rimasta tuttavia ineseguita per lo stato di dissesto di detta amministrazione.

In parziale accoglimento delle impugnazioni dei Ministeri, la Corte di appello di Napoli, con sentenza del 18 giugno 2008, ha respinto le domande della DEPI nei confronti del Ministero dell’Interno, e ridotto la somma dovutale dall’altro Ministero all’importo di Euro 4.069.630,38, oltre accessori osservando: a) che la transazione in questione non aveva carattere novativo e non era perciò incompatibile con l’azione di risarcimento del danno intrapresa dalla GEPI; b) Che l’attività di requisizione era imputabile al Ministero della Protezione civile, avendo il Sindaco agito n.q. di ufficiale di governo, per cui soltanto detta amministrazione doveva considerarsi responsabile dei danni cagionati ai terzi per qualsiasi pretesa connessa al suo esercizio; c) che i canoni o indennizzi per l’illegittima occupazione andavano calcolati fino al (OMISSIS), data del rilascio dell’ultimo appartamento per l’oggettiva difficoltà che la DEPI avrebbe incontrato ove avesse proceduto alla loro ristrutturazione man mano che le venivano consegnati; mentre non potevano comprendere box ed accessori perchè estranei al provvedimento di requisizione; d) che gli interessi corrisposti dalla DEPI per il mutuo contratto con l’Istituto di S. Paolo dovevano essere rimborsati con riferimento ai soli 3 fabbricati comprendenti i 29 appartamenti oggetto di requisizione;mentre il lasso di tempo necessario per il loro ripristino doveva ritenersi compensato con la normale usura edilizia dei manufatti a seguito dell’occupazione decennale; d) che i costi di costruzione, indispensabili per la determinazione dei canoni, dovevano essere calcolati con riferimento all’anno 1979 (e non all’anno 1980), in cui gli immobili erano stati completati, come risultava dai decreti adottati dal sindaco del comune ed era stato confermato dall’UTE con specifiche note di conguità; e) che alla DEPI non spettava alcun’altra voce di danno oltre al pagamento di detti canoni, con gli accessori comprensivi degli interessi corrisposti all’Istituto di credito, ed al ristoro dei danni cagionati agli appartamenti dagli occupanti, con le somme necessarie per il loro ripristino.

Per la cassazione della sentenza, il Fallimento ha proposto ricorso per 8 motivi; cui resistono il comune di Somma Vesuviana, nonchè la Presidenza del Consiglio-Dipartimento della Protezione civile, la quale ha formulato a sua volta ricorso incidentale per 3 motivi, corredati dai quesiti ex art. 366 cod. proc. civ.. La Curatela ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. I ricorsi vanno,anzitutto,riuniti ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., perchè proposti contro la medesima sentenza.

Con il terzo motivo di quello incidentale che ha carattere pregiudiziale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, deducendo violazione della L. n. 874 del 1980, art. 3, torna a sostenere la propria estraneità nella illegittima requisizione degli appartamenti,per mancanza di un provvedimento imputabile allo Stato (nel caso annullato dal giudice amministrativo), come confermato da altra decisione di questa Corte che in un caso similare di occupazione abusiva di immobili aveva dichiarato la legittimazione passiva del comune.

Il motivo è infondato.

La giurisprudenza di legittimità, resa anche a sezioni unite, è fermissima nel ritenere che il potere di requisizione, esercitato dal Sindaco per dare alloggio a nuclei familiari senza tetto, non può essere inquadrato nella funzione istituzionale del Comune di assicurare il diritto all’abitazione agli appartenenti a quella determinata comunità territoriale, ma è unicamente riconducibile all’attività del Sindaco, quale ufficiale di governo; e che l’attività di requisizione degli immobili, posta in essere dal sindaco su delega del commissario straordinario di governo per le zone colpite dal terremoto del (OMISSIS), ai sensi del D.L. 26 novembre 1980, n. 776, art. 3, convertito con modificazioni nella L. 22 dicembre 1980, n. 874, è riferibile non già all’ente territoriale bensì all’Amministrazione dello Stato delegante. La quale è perciò passivamente legittimata sia nel giudizio rivolto ad ottenere le relative indennità (fino alla data della restituzione), che in quello per danni cagionati a terzi dall’omessa manutenzione dell’immobile requisito.

Principio analogo, evidentemente, vale anche nel caso in cui i danni siano stati cagionati ai proprietari dell’immobile requisito e/o per il fatto che la requisizione sia illegittima, dal momento che il principio medesimo riposa, appunto, sulla riferibilità dell’atto di requisizione – legittimo o illegittimo che sia – allo Stato e non all’ente territoriale; mentre la responsabilità del comune è configurabile soltanto nell’ipotesi, non ricorrente nella fattispecie, in cui il termine di efficacia della requisizione venga a scadere, e ciò malgrado l’immobile continui ad essere detenuto senza titolo da quest’ultima amministrazione (Cass. 8557/2004;

5462/2003; 4416/1996).

3. Con il primo motivo dello stesso ricorso, la Presidenza del Consiglio, deducendo violazione dell’art. 1976 cod. civ., censura la sentenza impugnata per non aver considerato l’esistenza della transazione stipulata dalla DEPI nel (OMISSIS) con il comune di Somma Vesuviana che aveva assunto l’obbligo di corrispondere per i danni subiti dalla società la somma di L. 12 miliardi, con facoltà per quest’ultima, in caso di inadempimento,di agire per il conseguimento di quanto convenuto nell’accordo; per cui contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale si trattava di transazione c.d.

novativa che aveva estinto il precedente rapporto,così come confermava l’art. 4 che prevedeva la cancellazione della causa dal ruolo,e non era perciò soggetta ex art. 1976 cod. civ., a risoluzione per inadempimento. Con la conseguenza che la non risolvibilità del contratto comportava l’obbligo della società di abbandonare la causa originariamente proposta sia nei confronti del comune, che di essa amministrazione.

Con il secondo motivo,deducendo insufficiente e contraddittoria motivazione in merito al contenuto del contratto suddetto, si duole che la decisione abbia erroneamente interpretato il termine “facoltà” di agire come se lo stesso avesse attribuito alla DEPI anche il diritto di richiedere la risoluzione del contratto piuttosto che quello di pretendere il solo adempimento della transazione; e non considerato che la prima opzione doveva essere convenuta in maniera chiara ed espressa, altrimenti dovendosi pervenire alla conclusione della natura novativa dell’accordo.

Anche questi motivi sono infondati.

La stessa Presidenza del Consiglio ha riportato il contenuto della transazione rivolta esclusivamente a definire i rapporti relativi alla illegittima requisizione in oggetto,nascenti tra il comune e la DEPI ed al giudizio tra dette parti allora pendente:senza alcuna menzione nè alle obbligazioni gravanti sulla Presidenza del Consiglio, rimasta estranea al negozio e neppure menzionata in alcuna clausola di questo.

Ne ha implicitamente tratto la conclusione, giustificata dall’art. 1372 c.c., che il contratto in questione avesse effetti esclusivamente tra le parti che lo avevano stipulato, e che esso in particolare, non essendo stata adempiuta la transazione, non aveva comportato l’abbandono delle domande già proposte dal Fallimento nei confronti dell’amministrazione comunale;

nè a maggior ragione aveva inciso sul rapporto obbligatorio intercorrente tra la DEPI e l’amministrazione statale, cui soltanto erano imputabili le conseguenze dell’illegittima requisizione (pag.

9).

D’altra parte, neppure la Presidenza ha dedotto che nel caso ricorresse la fattispecie disciplinata dall’art. 1411 cod. civ., e segg., di contratto a favore di terzo;e non è configurabile, per mancanza di tutti i presupposti costitutivi neanche quella di cui all’art. 1304 cod. civ., in cui intervenga una transazione tra uno dei condebitori solidali ed il creditore, ed il debitore rimasto estraneo dichiari ai sensi del comma 1 di detta norma di volerne profittare (Cass. 26909/2008, 7548/2003; 884/1998). Per cui una volta accertato che la transazione in questione non riguardava l’amministrazione statale e che la stessa era rimasta inadempiuta dal comune di Somma Vesuviana, diveniva del tutto irrilevante stabilire se la stessa avesse o meno carattere novativo: perchè anche nel caso affermativo – correttamente escluso dalla sentenza impugnata per avere accertato che le parti contraenti, nel comporre l’originario rapporto litigioso, non avevano inteso addivenire alla conclusione di un nuovo rapporto, diretto a costituire, in sostituzione di quello precedente, nuove ed autonome situazioni- la sola conseguenza era che la DEPI più non potesse agire nei confronti dell’amministrazione comunale per far valere l’originaria obbligazione contrattale assunta da quest’ultima; ma non anche l’estinzione di altra obbligazione derivante da fatto illecito (abusiva occupazione degli immobili) e gravante ex lege su altro soggetto estraneo all’accordo suddetto.

4. Con il primo motivo del ricorso, il Fallimento, deducendo violazione della L. n. 392 del 1978, artt. 12, 14 e 22, nonchè D.P.R. n. 262 del 1980, art. 2, D.P.R. n. 279 del 1982, art. 2, censura la sentenza impugnata per aver determinato l’ammontare dei canoni di locazione dovuti alla DEPI utilizzando anche il criterio del costo base di costruzione per gli immobili ultimati nel 1979, mentre gli stessi erano stati ultimati l’anno successivo,con conseguente applicazione di un parametro maggiore. Rileva al riguardo che detto costo in base alla L. n. 392 del 1978, art. 14, non poteva essere fissato in L. 395.000 mq. con riferimento all’anno 1979, poichè questo anno costituiva soltanto la data del loro accatastamento, e non anche della loro ultimazione richiesta invece dalla norma: ciò in quanto diversi elementi acquisiti nel corso degli accessi presso il comune di Somma Vesuviana imponevano di spostare la data al 1980, in cui il costo era elevato all’importo di L. 460.000 mq.; il certificato di collaudo recava la data del (OMISSIS); ed ancora nel corso di tale anno il Sindaco disponeva di provvedere ai loro allacciamenti per le varie utenze di energia elettrica, acqua, gas e telefono.

Con il secondo motivo, deducendo insufficiente e contraddittoria motivazione sul parametro di calcolo in questione, lamenta che la Corte di appello abbia omesso di determinare in modo convincente il periodo di ultimazione dei lavori degli appartamenti, per gli effetti di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 14, pur oggetto di specifica impugnazione, e certamente decisivo per la risoluzione di tale punto, posto che la scelta dell’anno 1979, erroneamente privilegiata dalla decisione ha indotto alla scelta di un costo base di produzione inferiore (L. 395.000) a quello effettivo interessante l’anno successivo (L. 460.000); con riferimento al quale il calcolo doveva essere eseguito.

Le censure, sostanzialmente illustrate dai quesiti richiesti dall’art. 366 bis cod. proc. civ., sono in parte inammissibili ed in parte infondate.

Entrambi i giudici di merito hanno calcolato il canone dovuto dal Ministero per l’illegittima requisizione dei 29 appartamenti utilizzando (anche) il parametro del costo base fissato dalla legge in relazione alla data di ultimazione dei lavori di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 14, per il quale la data suddetta “è quella risultante dal certificato di abitabilità o, in mancanza, dal certificato di ultimazione dei lavori presentato agli uffici delle imposte, oppure quella comunque accertata”.

La sentenza impugnata si è in particolare attenuta ai principi giurisprudenziali del tutto consolidati, che quest’ultima norma ha carattere generale ed è applicabile pure in relazione agli immobili costruiti dopo il (OMISSIS); e che il giudice di merito,in mancanza delle certificazioni previste dalla stessa può e deve accertare la data in questione con ogni mezzo a sua disposizione ed in qualunque maniera purchè congrua (Cass. 13086/2004; 12233/2001;

10327/1993).

Non è poi esatto che abbia individuato la data del completamento degli appartamenti nell’anno (OMISSIS), per il fatto che trattavasi dell’anno del loro accatastamento,avendo invece fondato il relativo accertamento: a) sulle indagini in tali sensi eseguite dal secondo c.t.u.,che si è avvalso di tutta la documentazione fornita dalle parti al riguardo (anche relativa alle anticipazioni corrisposte dal comune per ciascuna unità immobiliare); b) sui decreti di determinazione dei relativi canoni adottati dal Sindaco del comune di Somma Vesuviana; c) sulle note di congruità redatte dall’UTE, che riportano la medesima data; d) sulle schede di accatastamento degli immobili (allegati alla prima c.t.u.) e sottoscritte per accettazione e condivisione anche dal c.t. di parte ricorrente.

D’altra parte, il Fallimento, che ha denunciato la violazione (tra l’altro) di quest’ultima norma, non ha neppure prospettato la sussistenza di un certificato di abitabilità o (in mancanza) di quello di ultimazione dei lavori, nè ha saputo indicare la diversa data risultante dall’una o dall’altra certificazione; e non ha contestato, infine, taluna di dette risultanze indicate dalla Corte di appello, ma vi ha semplicemente contrapposto la data del 1980, ricavandola per presunzione da altri elementi, di alcuni dei quali non è stata indicata la fonte. Mentre per quella di altri è stato fatto generico quanto inammissibile rinvio “alle emergenze documentali acquisite nel corso degli accessi presso il comune di Somma vesuviana” non conoscibili dal giudice di legittimità; ed altri ancora quali la data del certificato di collaudo o le osservazioni del proprio c.t. risultano del tutto prive di alcuna valenza probatoria.

Per cui la stessa ricorrente ha finito,da un lato, per riconoscere già nel giudizio di appello che detti elementi, pur sinergicamente considerati, forniscono una data soltanto probabile di ultimazione dei lavori, perciò inidonea a smentire quella diversa, accertata dalla Corte territoriale; e dall’altro per escludere anche la sussistenza dei vizi di motivazione addebitati alla sentenza impugnata: in quanto quelli di motivazione omessa, insufficiente o contraddittoria sussistono solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o l’insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalla parte o rilevabili d’ufficio, ovvero l’insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione. Detti vizi non possono in alcun modo consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello prospettato e preteso dalla parte, perchè spetta soltanto al giudice del merito di individuare, le fonti del proprio convincimento e all’uopo valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute più idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvi i casi tassativamente previsti per la legge.

5. Con il terzo motivo, il Fallimento, deducendo contraddittoria motivazione su di un fatto controverso, censura la sentenza impugnata per non aver esteso il computo del danno subito a causa del reddito non percepito,alle autorimesse ed ai locali commerciali compresi nei fabbricati ove erano ubicati gli appartamenti requisiti, assumendo che detti accessori non erano stati oggetto di requisizione.

Con il quarto, deducendo altro vizio di contraddittorietà di motivazione, addebita alla sentenza impugnata di non aver incluso nel pregiudizio subito il computo del mancato reddito nel periodo successivo al rilascio degli immobili (anno 1990), occorrente per effettuare i lavori di ripristino degli immobili e delle parti condominiali devastati dagli occupanti abusivi.

Questi motivi sono inammissibili.

Nessuno di essi è stato, infatti, illustrato con la formulazione di un quesito di diritto quale richiesto dall’art. 366 bis cod. proc. civ. “a pena di inammissibilità del ricorso” (Cass. 27130/2006; sez. un. 7258/2007; 20360/2007): malgrado il D.Lgs. n. 40 del 2006, che ha introdotto il relativo onere è applicabile nei confronti delle sentenze di appello pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006; e la decisione impugnata sia stata pubblicata in data 10 giugno 2008,successivamente all’entrata in vigore di detta disposizione legislativa.

E’, poi noto il fondamento di tale disposizione di legge, che è quello di rafforzare la c.d. funzione nomofilattica del giudizio di cassazione nonchè di garantire l’aderenza dei motivi del ricorso (per violazione di legge o per vizi del procedimento) allo schema legale al quale tali motivi debbono essere adattati; sicchè detti quesiti devono costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una “regala iuris” che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. A nulla rileva infine che il motivo abbia per oggetto un vizio di motivazione,piuttosto che la denuncia di una violazione di norme giuridiche,poichè l’art. 366 bis cod. proc. civ., stabilisce, che l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nell’ipotesi prevista dal n. 5 del medesimo comma, il motivo deve enunciare, in modo sintetico ma completo, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Sicchè questa Corte ha ripetutamente affermato per le censure che attengono alla motivazione della sentenza impugnata occorre comunque che l’illustrazione di ciascun motivo contenga, a pena di inammissibilità, la chiara i indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione; e che la relativa censura si concreti in un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Nessuno di questi principi è stato osservato dal ricorrente,che per quanto riguarda il 3^ e 4^ motivo di ricorso non ha formulato alcun quesito di diritto; così come non li ha dedotti in relazione al 7^ motivo con il quale ha lamentato asseriti errori commessi dalla sentenza impugnata nell’applicazione del parametro per il calcolo della svalutazione monetaria,non consentendo la motivazione di individuarlo; e comunque risultando lo stesso erroneo ed inferiore a quello stabilito dall’ISTAT per l’aumento del costo della vita ove i giudici di appello avevano inteso avvalersi di quest’ultimo parametro.

6. Nel quinto motivo,invece detto quesito è stato formulato con riguardo al mancato riconoscimento, a titolo risarcitorio, del pregiudizio conseguente all’effetto della capitalizzazione trimestrale degli oneri finanziari, dovuto sopportare dalla DEPI. Con la relativa doglianza, infatti, il Fallimento, deducendo violazione degli artt. 1223, 2043 e 2056 cod. civ., lamenta che la Corte di appello, così come il c.t. non abbiano considerato che all’epoca dei fatti gli interessi bancari venivano ordinariamente capitalizzati trimestralmente e che hanno in tal modo gravato sull’impresa danneggiata;per cui il danno dalla stessa subito non poteva essere limitato al calcolo degli interessi maturati alla scadenza delle rate semestrali di ammortamento pagate fino al rilascio degli appartamenti, ma doveva comprendere anche il costo della capitalizzazione suddetta.

Con il sesto, deducendo altra violazione della medesima normativa, censura la sentenza impugnata per aver determinato il pregiudizio recato agli immobili nonchè il costo necessario per i relativi ripristini, con la prospettiva di rimetterli nel normale stato locativo, e non nello stato in cui si trovavano all’epoca della illegittima requisizione: e cioè nuovi. La stima compiuta dal c.t.u.

avrebbe, infatti potuto essere condivisa solo se gli appartamenti fossero stati oggetto di una normale locazione o requisizione e si fosse dovuto perciò ricondurli ad un normale stato locativo; laddove nel caso la natura illecita dell’occupazione comportava il ripristino del patrimonio del danneggiato nella consistenza sussistente al momento dell’illecito, e quindi la necessità che i consulenti calcolassero anche i costi necessari per una ristrutturazione radicale degli immobili, tale da riportarli completamente a nuovo.

Anche questi motivi sono infondati.

La stessa curatela ha trascritto parte della relazione di consulenza ove l’ausiliare osservava di non aver rinvenuto documentazione efficace relativa al costo di costruzione dei 29 appartamenti, ad eccezione di quella relativa ad un mutuo fondiario ventennale stipulato dalla DEPI con l’istituto bancario S. Paolo di (OMISSIS) per la costruzione di 8 fabbricati fra i quali erano compresi i 3 oggetto della controversia,che ospitavano detti immobili poi requisiti.

Poichè, tuttavia, la aliquota di mutuo relativa ai suddetti 3 fabbricati (così come d’altra parte quello complessivo) non era sufficiente alla loro integrale realizzazione, e poichè per converso gli stessi erano stati interamente costruiti con approntamento di ulteriore capitale da parte dell’impresa, che non aveva potuto tempestivamente recuperarlo attraverso la vendita degli appartamenti o la percezione tempestiva dei canoni in caso di locazione, il c.t.

ha ipotizzato che il residuo importo (che costituiva peraltro la somma più notevole), perciò inerente al loro costo di costruzione,potesse essere individuato attraverso un mutuo virtuale che la DE.PI. avrebbe potuto richiedere allo stesso Istituto di credito ed alle medesime condizioni di quello (minore) effettivamente concluso; ed il costo aggiuntivo di detto mutuo una volta che la società non avrebbe corrisposto le rate semestrali per tutto il periodo della illegittima occupazione, a causa della mancata corresponsione dei canoni da parte del Ministero.

Entrambi i giudici di merito hanno accolto la suddetta (ri)costruzione (condivisa dalla DEPI), proprio sul presupposto che nel caso non si trattava di determinare l’importo dei canoni o dell’indennizzo dovuto versare da detta amministrazione per la locazione o requisizione (legittima) dei 29 appartamenti (in relazione al quale non era ipotizzabile l’aggiunta di ulteriori somme per il recupero del costo del capitale dovuto investire onde realizzare la costruzione), ma di reintegrare il patrimonio dell’impresa dell’intero pregiudizio sofferto per l’abusiva occupazione degli immobili: perciò comprendente anche il danno per non avere potuto ripianare tempestivamente – e come previsto nel piano di ammortamento – sia il mutuo effettivo ottenuto, che quello ipotetico a causa del mancato versamento degli importi che dovevano compensare la società per l’illecita situazione sofferta; e per l’intero periodo durante il quale si era protratta. Per cui alla Curatela è stato liquidato non soltanto il danno per la svalutazione sofferta dall’indennizzo suddetto, alla stessa non versato fino alla data della sentenza di appello, ma anche (ed in aggiunta) l’importo degli interessi che l’impresa avrebbe dovuto corrispondere all’istituto di credito per il mancato pagamento delle rate semestrali onde estinguere entrambi i mutui – effettivo, e virtuale:

calcolati dal c.t. come si legge nello stesso ricorso (pag. 51-52 ric.) in base alle informazioni richieste proprio alle banche indicate dalla De.P.i. ed in particolare all’Istituto S. Paolo, che aveva concesso il mutuo di cui si è detto per la costruzione degli 8 fabbricati.

Pertanto a fronte di detti accertamenti recepiti dai giudici di appello, non bastava alla Curatela dedurre che all’epoca dei fatti gli interessi bancari andavano ordinariamente capitalizzati trimestralmente e che la circostanza costituisce fatto notorio, occorrendo invece che la stessa prospettasse di aver documentato che la Banca in questione tale capitalizzazione aveva effettivamente preteso nel contratto di mutuo e poi applicato quanto meno in relazione al prestito realmente erogato; e tale prova – inammissibilmente offerta con un generico rinvio alla “documentazione bancaria già prodotta in primo grado” (pag. 56 ric.) – doveva nel caso essere particolarmente rigorosa anzitutto perchè la somma più consistente derivava proprio dal mutuo virtuale, per il quale dunque la DE.PI non aveva in effetti corrisposto interessi, – e quindi perchè la stessa ricorrente ha dato atto che detta documentazione era stata esaminata da entrambi i c.t. nessuno dei quali aveva rilevato la capitalizzazione suddetta. Laddove la Curatela neppure con riguardo agli ulteriori “scoperti” esistenti presso lo stesso Istituto (di cui pure i consulenti hanno escluso collegamenti di alcun genere con la realizzazione degli edifici in questione) ha prospettato di aver mai dovuto ripianarli attraverso tale più oneroso meccanismo di calcolo degli interessi dovuti.

Il Collegio deve aggiungere che questa Corte ha ripetutamente affermato che la clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, ove effettivamente inserita in un contratto bancario: a) si fonda su un uso negoziale, anzichè su un uso normativo,mancando di quest’ultimo il necessario requisito soggettivo, consistente nella consapevolezza di prestare osservanza,mantenendo un determinato comportamento; b) è perciò da considerare affetta da nullità radicale ed assoluta in quanto apposta in violazione dell’art. 1283 cod. civ., che è norma inderogabile (Cass. 21141/2007, – 4853/2007;

sez. un. 21095/2004); per cui maggiori somme derivanti dalla capitalizzazione in questione, pur se richieste o pretese dall’Istituto S. Paolo, non gli erano dovute dalla DE.PI, e non potevano conseguentemente esserle risarcite dal Ministero.

7. Ancor meno condivisibili sono le censure rivolte contro la compensazione compiuta dal consulente (e recepita dalla sentenza impugnata) tra il danno arrecato all’Impresa nel periodo occorrente al ripristino degli immobili danneggiati, in cui gli stessi non potevano essere locati o altrimenti utilizzati, e la diminuzione di valore che avevano subito in conseguenza del loro uso abitativo decennale.

Proprio perchè si trattava di reintegrare il patrimonio della DE.PI per l’illegittima sottrazione degli appartamenti, quest’ultima poteva pretendere il pregiudizio sofferto per le occasioni di vendita mancate in cui gli immobili sarebbero stati peraltro collocati sul mercato come nuovi, con i prezzi adeguati a tale qualità; ovvero – in alternativa, se la società avesse preferito conservarne la titolarità – per la loro mancata utilizzazione nel tempo ,e quindi per la perdita del reddito che la ricorrente non aveva potuto ricavare.

Quest’ultima via è stata percorsa dalla Curatela, la quale anche in questa fase di legittimità ha ribadito che una voce certa dell’indennizzo dovutole era identificabile “con la mancata percezione del reddito che l’impresa avrebbe potuto trarre dalla locazione degli immobili occupati”: da calcolare “secondo i criteri fissati dalla L. n. 392 del 1978, in materia di determinazione dell’equo canone” (pag. 16 ric.). E d’altra parte, la sentenza impugnata ha aderito alla pretesa confermando che alla stessa andavano risarciti (tra l’altro, ed in aggiunta alle voci avanti esaminate): a) il mancato reddito degli immobili occupati; b) i danni arrecati agli stessi dagli illegittimi occupanti; c) il tempo necessario per i lavori di ripristino, durante il quale non era possibile utilizzarli proficuamente.

Quanto alla prima posta, poi, la Corte di merito ha aggiunto che il risarcimento non era stato calcolato fino alle effettive date di rilascio di ciascun appartamento, bensì fino a quella (necessariamente successiva) in cui era stato riconsegnato l’ultimo di essi, nel 1990; e, con riguardo alla seconda, che i danni erano stati determinati tenendo conto di tutte le somme necessarie per il completo “ripristino dei locali senza eventuali indici di devalutazione”.

Anche questa seconda posta si risolveva in un indebito arricchimento dell’impresa che avendo scelto di ancorare la pretesa risarcitoria alla conservazione della proprietà degli appartamenti ed alla loro proficua utilizzazione durante gli anni della illegittima requisizione, piuttosto che alla loro vendita dopo la costruzione, aveva perciò percepito l’equivalente della loro utilizzazione nel tempo fino al 1990, (non invocabile ove fosse stata prescelta l’altra tipologia di risarcimento); con le conseguenze collegate a tale scelta: che cioè al termine della invocata utilizzazione gli appartamenti non erano più nuovi, ma avevano subito (oltre ai danni provocati dagli occupanti) la normale usura edilizia legata all’uso ed al trascorrere del tempo, e si venivano a trovare nello stato di fatto provocato dai suddetti fattori, tuttavia compensato dal reddito che il decennio in questione aveva prodotto. E tale situazione è comune sia all’ipotesi di locazione o requisizione regolare, sia a quella verificatasi nella fattispecie di occupazione abusiva, in cui muta soltanto l’entità del corrispettivo spettante al proprietario:

nel primo caso limitata al solo canone pattuito (o all’indennizzo dovuto per legge), e nel secondo comprendente, invece, tutte le utilità che la società avrebbe potuto trarre nel periodo in esame.

Ciò che quindi non le era consentito era di pretendere le utilità suddette “che avrebbe potuto trarre dalla locazione degli immobili”, senza subire l’usura e la devalutazione che proprio il loro conseguimento aveva arrecato ad essi nel decennio in considerazione:

come sarebbe invece avvenuto se gli appartamenti, appena realizzati fossero stati immessi sul mercato immobiliare senza perciò consentire alla società di trame alcun reddito dalla loro successiva utilizzazione. E quindi, in definitiva, di cumulare i vantaggi di ciascuna delle due tipologie di risarcimento, senza sottostare alle condizioni ed ai limiti che per ognuna l’ordinamento predispone.

Proprio per queste ragioni, la Corte territoriale ha del resto respintola richiesta della Curatela di ottenere il lucro cessante per impossibilità di investimenti produttivi, identificati nei mancati ricavi derivanti dalla commercializzazione degli immobili dopo la loro ultimazione e quantificati in Euro 744.697: osservando che la DE.PI aveva mantenuto la proprietà degli immobili e percepito tutti i redditi collegati alla loro utilizzazione nel decennio in esame, per di più beneficiando del notevole aumento del loro valore venale per l’incremento dei prezzi di mercato raggiunto nel suddetto decennio (pag. 19 sent.); e tale statuizione non contestata da alcuna delle parti è passata in giudicato.

Pertanto appare corretta la decisione impugnata anche laddove ha ritenuto, in conseguenza di detta statuizione, che a seguito dell’attribuzione all’impresa del reddito per il mancato godimento degli appartamenti, i lavori di ripristino dovevano tener conto dello stato in cui gli stessi avrebbero dovuto trovarsi nel 1990,in seguito alla loro normale utilizzazione (che aveva nel caso prodotto i redditi liquidati alla DE.Pi); sicchè, non avendo i consulenti tenuto conto nè degli esborsi che la proprietaria avrebbe dovuto sostenere per la loro manutenzione nel decennio in questione (necessaria per trame il reddito richiesto e per garantirne la conservazione), nè della devalutazione fino a tale data,e per converso calcolato anche le somme dovute dal Ministero per riportarli allo stato originario, questi ultimi importi, non spettanti alla società, ben potevano essere compensati con quelli cui invece aveva diritto per il reddito non potuto percepire durante il periodo necessario al ripristino: compensazione tanto più legittima ove si consideri che la ricorrente per la quasi totalità degli appartamenti ha avuto attribuito dai giudici di merito il reddito per il mancato godimento, pur nel periodo successivo alla loro effettiva riconsegna, perciò per altro verso compensando quello non percepito durante il tempo necessario ad eliminare i danni provocati dagli occupanti.

D’altra parte, la società non ha contestato che le due poste sostanzialmente coincidessero, nè ha mai dedotto che le somme che avrebbero dovuto esserle liquidate per quest’ultimo periodo, superassero quelle erroneamente calcolate a suo favore, senza tener conto della devalutazione degli immobili, ma si è limitata a difendere la scelta dei consulenti di determinare le somme occorrenti per riportare gli appartamenti allo stato conservativo del momento della requisizione; e sostenuto che semmai la devalutazione che essi avevano necessariamente subito fino al 1990, doveva costituire altra ragione di danno risarcibile. Per cui, rilevata l’erroneità di una tale impostazione, e non essendovi contestazione sulla sostanziale equivalenza delle poste contrapposte, anche questo profilo della doglianza deve essere respinto.

8. Inammissibile è infine l’ultimo motivo con cui la Curatela censura la liquidazione del danno da svalutazione monetaria compiuta dalla sentenza impugnata per mancanza assoluta di motivazione in merito al parametro di calcolo utilizzato,per difetto di autosufficienza ex art. 366 cod proc. civ.: in quanto la ricorrente da un lato non ha indicato neppure di quale (più esatto) criterio chiede l’applicazione (se gli indici ISTAT o altro parametro ancor più favorevole); e dall’altro non ha documentato che con utilizzazione del meccanismo di calcolo invocato otterrebbe una liquidazione più elevata di quella determinata dalla Corte di appello; per cui senza la specificazione di questi elementi, difetta perfino l’interesse del Fallimento a rilevare i vizi di motivazione attraverso cui la sentenza è pervenuta alla determinazione di detta posta di danno.

La sostanziale soccombenza della Curatela nei confronti della P.C.M. ne comporta la condanna al pagamento delle spese processuali in ragione di 2/3 come da dispositivo, il rigetto del ricorso incidentale della Presidenza nella parte rivolta contro la Curatela, induce il Collegio a dichiarare compensato tra dette parti il restante terzo. Mentre la P.C.M. va condannata a rifondere quelle sostenute dal Comune di Somma Vesuviana,come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte,riunisce i ricorsi e li rigetta. Condanna la Curatela del fallimento al pagamento delle spese processuali in favore della P.C.M. in ragione di 2/3 che liquida nell’intero in complessivi Euro 18.000,00 oltre alle spese prenotate a debito. Dichiara interamente compensato tra dette parti il restante terzo e condanna la P.C.M. a rifonderle al Comune di somma Vesuviana liquidandole in complessivi Euro 12.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2010

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