Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3613 del 14/02/2018


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Civile Ord. Sez. L Num. 3613 Anno 2018
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: BALESTRIERI FEDERICO

ORDINANZA
sul ricorso 14333-2012 proposto da:
DALMINE S.P.A. C.F.

00680620150,

in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO NIBBY 7, presso lo
studio del'(-1Vvc-9 c
– lte, GIANCARLn UHARIND, cho 3o
rappresenta e

dlinde

irdtarnerLc agli à.Vvirl LUCA

ROPOLO, DIEGO DIRUTIGLIANO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2017
4122

contro

PARIS DOROTEA, elettivamente domiciliata in ROMA,
VIALE DELLE BELLE ARTI 7 presso lo studio
dell’avvocato GIUSEPPE AMBROSIO, che la rappresenta e
difende unitamente all’avvocato PATRIZIA RAVANELLI,

Data pubblicazione: 14/02/2018

giusta delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 97/2012 della CORTE D’APPELLO

di BRESCIA, depositata il 06/03/2012 R.G.N. 131/2011.

”RG 14333/12

RILEVATO

Che con sentenza n.943/10 il Tribunale di Bergamo, all’esito di c.t.u.,
in accoglimento della domanda di Mario Daleffe, dipendente Dalmine
dal 1962 al 1992 in lavorazioni esposte al rischio inalazione fibre di
amianto, condannava la Dalmine s.p.a., in favore della sopravvenuta
erede Dorotea Paris, al risarcimento del danno biologico e morale

Che la sentenza, accertata

l’eziopatologia professionale del

mesotelioma pleurico e il nesso causale con l’omissione colposa di
misure di sicurezza idonee a prevenire e diminuire l’inalazione di
polveri di amianto, presenti sul luogo di lavoro in ragione della attività
produttiva svolta dalla società convenuta, condannava la società al
risarcimento del danno biologico sopra indicato.
Che la Dalmine proponeva appello, ribadendo le difese già svolte e
sostenendo la mancata prova del nesso causale, avendo il Daleffe
lavorato in altri settori esposti all’amianto; l’impossibilità di prevenire
l’evento con le conoscenze e i mezzi a disposizione all’epoca del fatto e
l’insussistenza della responsabilità per la compiuta adozione di tutte le
misure di sicurezza possibili e conosciute; contestava inoltre la
quantificazione del danno effettuata secondo le cd. tabelle di Milano, in
luogo dell’applicazione delle tabelle INAIL che ormai comprendevano il
danno biologico, il criterio di calcolo e comunque l’eccessivo
ammontare della somma riconosciuta. Resisteva la Paris.
Che con sentenza depositata il 6.3.12, la Corte d’appello di Brescia,
rinnovata la c.t.u. ‘ambientale’, respingeva il gravame.
Che per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società
Dalmine, affidato a tre motivi, cui resiste la Paris con controricorso.

CONSIDERATO
Che con il primo motivo la ricorrente denuncia, oltre alla violazione
dell’art. 2087 c.c., una insufficiente e contraddittoria motivazione circa
fatti controversi e decisivi, quali la conoscenza della pericolosità
dell’inalazione di polveri di amianto quanto meno dagli anni ’60; la
conseguente prevedibilità dell’evento lesivo; la presenza di polveri
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sofferto dal dante causa, liquidato in €.287.470,60 oltre interessi.

• RG 14333/12

d’amianto presso lo stabilimento Dalmine; l’irrilevanza, in questa sede
(potendo gli eredi agire separatamente) di altre pregresse esposizioni
(in edilizia) di durata circa ventennali, assai più pericolose di quelle
inerenti la lavorazione del cemento amianto per l’assenza di misure di
prevenzione; la recezione integrale della c.t.u. espletata in primo
grado, che aveva trascurato una serie di elementi rilevanti al fine delle
conclusioni rassegnate;

di amianto presso la Dalmine è stata ampiamente accertata dalla corte
di merito, anche attraverso le indagini di ben due c.t.u., versandosi in
una ipotesi di vizio motivo inammissibile (v. infra) in quanto
semplicemente diretto a contrapporre alle valutazioni del giudice di
merito diversi apprezzamenti del fatto, considerata peraltro la
particolarmente accurata ricostruzione della conoscenza, dal punto di
vista scientifico, della pericolosità dell’esposizione a polveri di amianto
sin dagli anni ’60, contenuta nella sentenza impugnata.
2.- Che con il secondo motivo la società denuncia la violazione degli
artt. 1223, 1226 e 2056 c.c., oltre ad omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione sulla quantificazione del risarcimento del
danno. Lamenta che la sentenza impugnata liquidò erroneamente, ed
in contrasto coi principi enunciati in sede di legittimità circa la necessità
di un criterio di liquidazione tendenzialmente unico e coincidente con
quello adottato dal Tribunale di Milano (Cass. n. 12408\11), provvide a
liquidare il danno non patrimoniale sofferto dal Daleffe dalla diagnosi
della malattia sino al decesso in €.900 al giorno facendo così
riferimento ad una prassi liquidatoria propria anziché a quelle espresse
dal Tribunale di Milano, senza peraltro giustificare in alcun modo tale
deroga e senza chiarire le particolarità del caso concreto.
Che il motivo è infondato in quanto la giurisprudenza di questa Corte
ha chiarito che nella liquidazione del danno biologico, quando manchino
criteri stabiliti dalla legge, l’adozione della regola equitativa di cui
all’art. 1226 cod. civ. deve garantire non solo l’uniformità di giudizio a
fronte di casi analoghi (prendendo come riferimento le tabelle del
Tribunale di Milano), ma anche una adeguata valutazione delle
circostanze del caso concreto (da ultimo Cass. n. 28290\11) attraverso
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che il motivo è infondato in quanto l’esposizione alla inalazione di fibre

RG 14333/12

la cd. personalizzazione del danno. Va del resto evidenziato che questa
Corte ha altresì affermato che la liquidazione del danno non
patrimoniale presuppone una valutazione necessariamente equitativa,
la quale non è censurabile in Cassazione, sempre che i criteri seguiti
siano enunciati in motivazione e non siano manifestamente incongrui
rispetto al caso concreto, o radicalmente contraddittori, o
macroscopicamente contrari a dati di comune esperienza, ovvero l’esito

eccesso o per difetto (Cass. n.13153\17).
Che nella specie la corte di merito ha congruamente motivato il suo
discostamento dai parametri invocati dalla ricorrente, in base alla
sopravvivenza dal momento della diagnosi (2007) sino a quello del
decesso (2009), con le annesse ed ingravescenti sofferenze,
soprattutto nelle ultime fasi di vita del Daleffe.
Non v’è dunque spazio per l’invocato vizio motivazionale, anche
considerato che in tema di ricorso per cassazione, il ricorrente che
denunci, quale vizio di motivazione, l’insufficiente giustificazione logica
dell’apprezzamento dei fatti della controversia o delle prove, non può
limitarsi a prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze
istruttorie con una logica alternativa, pur in possibile o probabile
corrispondenza alla realtà fattuale, poiché è necessario che tale
spiegazione logica alternativa appaia come l’unica possibile (cfr. Cass.
n. 25927\15).
3.- Che con il terzo motivo la società ricorrente denuncia la violazione
degli artt. 115 e 112 c.p.c., per non aver considerato che lo stesso
Daleffe ammise che la rendita INAIL, erogata in capitale, era pari d €.
110,548,37, mentre la sentenza impugnata defalcò a tal fine solo la
somma di .L33.154, 40.
TI motivo è inammissibile posto che la sentenza impugnata non ha
detratto (né svolto alcun accertamento al riguardo) la somma indicdta
dal dovuto, ma si è limitata a prendere atto che il Tribunale aveva
detratto tale somma dal dovuto.
Sarebbe stato dunque onere della ricorrente dimostrare, attraverso la
produzione del ricorso in appello, nonché del ricorso di primo grado,
ove afferma che il Daleffe avrebbe esposto di aver ricevuto clegl’Inail la
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della loro applicazione risulti particolarmente sproporzionato per

RG 14333/12

somma in questione, di aver censurato tale statuizione di cui la
sentenza impugnata non parla minimamente.
Nella specie entrambi gli atti non sono stati prodotti, in contrasto col
principio di autosufficienza e dell’art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c. (cfr. in
materia, per tutte, cfr. Cass. sez. un. n. 8077\12).
Deve in sostanza considerarsi che, nulla risultando al riguardo nella
motivazione della sentenza impugnata, era onere della parte odierna

novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della
questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al
principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale
specifico atto del giudizio precedente, ed in quali termini, ciò sarebbe
avvenuto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la
veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta
questione (cfr. Cass. n.7149\2015, Cass.n. 23675\2013).
4.- Che il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e, liquidate come da
dispositivo, debbono distrarsi in favore dei difensori della Paris,
dichiaratisi antecipanti.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle
spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.200,00 per
esborsi, €.6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali
nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a., da distrarsi.

Roma, così deciso nella Adunanza camerale del 24 ottobre 2017

ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per

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