Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3612 del 14/02/2011

Cassazione civile sez. lav., 14/02/2011, (ud. 20/01/2011, dep. 14/02/2011), n.3612

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, gia’. elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA

CONCILIAZIONE 10, presso lo studio dell’avvocato NICOLELLA MARIO, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato TOSI PAOLO, giusta

delega in atti e da ultimo domiciliata presso la CANCELLERIA DELLA

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUCREZIO

CARO 63, presso lo studio dell’avvocato STUDIO GIOVANNI ZOPPI E

ANTONIO PESELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato RIMMAUDO

GIOVANNI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 171/2006 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 08/03/2006, r.g.n. 132/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/01/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega NICOLELLA MARIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta, che ha concluso per l’accoglimento del primo

motivo, assorbimento degli altri.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso notificato a mezzo del servizio postale in data 8 – 9 marzo 2007, la s.p.a. Poste Italiane chiede, con tre motivi, la cassazione della sentenza depositata in data 8 marzo 2006, con la quale la Corte d’appello di Genova aveva confermato la decisione di primo grado di declaratoria della nullita’ del termine apposto al contratto di lavoro intercorso con S.A. dal 3 al 31 maggio 2001, ai sensi dell’art. 25, n. 2 del C.C.N.L. 11 gennaio 2001, “per esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi comprendendo un piu’ funzionale riposizionamento di risorse sui territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi”. Con le pronunce conseguenti, quanto alla riammissione del dipendente in servizio e al risarcimento del danno subito, rapportato alle retribuzioni perdute dalla data di ricezione dell’atto di messa in mora, detratto l’aliunde perceptum.

I giudici di merito hanno infatti accertato che non erano state dedotte ne’ tanto meno provate dalla societa’ le circostanze di carattere straordinario che, ai sensi della norma collettiva citata, giustificherebbero l’apposizione del termine.

I motivi di ricorso attengono ai seguenti profili:

1) violazione degli artt. 99, 112, 115, 414, 420 c.p.c. e art. 437 c.p.c., comma 2, L. n. 230 del 1962, art. 3 e vizio di motivazione, in relazione al fatto che i giudici di merito avrebbero accolto la domanda in ragione del fatto che la societa’ non avrebbe provato l’esistenza di un nesso causale tra il processo di riorganizzazione e l’assunzione dello S., profilo di illegittimita’ che non sarebbe stato viceversa dedotto da quest’ultimo in primo e in secondo grado;

2) violazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, dell’art. 1362 c.c. e segg. e vizio di motivazione, laddove la Corte ha ritenuto che la L. n. 56, art. 23 non consentirebbe all’autonomia collettiva di individuare causali nuove per l’apposizione di un termine al contratto di lavoro collegate a situazioni tipicamente aziendali, senza ulteriori condizionamenti. Il datore di lavoro dovrebbe provare unicamente tali situazioni aziendali e non il nesso causale tra esse e la singola assunzione;

3) violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, dell’art. 1362 c.c., comma 2, dell’art. 1427 c.c. e segg., dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. e vizio di motivazione in ordine al rigetto della deduzione di estinzione del rapporto per mutuo consenso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Al ricorso, in quanto avente ad oggetto una sentenza pubblicata dopo il 2 marzo 2006, sono applicabili le modifiche apportate all’art. 360 c.p.c. e segg. dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e in particolare l’art. 366 bis c.p.c., introdotto dall’art. 6 di tale decreto e abrogato dalla L. 18 giugno 1009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d) con effetto sui ricorsi proposti avverso sentenze pubblicate successivamente al 3 luglio 2009.

Detto articolo del codice di rito disponeva:

“Nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, l’Illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena di inammissibilita’, con la formulazione di un quesito di diritto. Nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilita’, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”.

In proposito, si ricorda che e’ stato ripetutamente affermato da questa Corte che “il legislatore, nel porre a carico del ricorrente ‘onere della sintetica ed esplicita enunciazione del nodo essenziale della questione giuridica di cui egli auspica una certa soluzione, rende palese come a questo particolare strumento impugnatorio sia sottesa una funzione affatto peculiare: non solo quella di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui e’ pervenuta la sentenza impugnata (in un senso, ovviamente, che il ricorrente prospetta a se’ piu’ favorevole), ma anche quella di enucleare – con valenza piu’ ampia e percio’ nomofilattica – il corretto principio di diritto al quale ci si deve attenere in simili casi. L’interesse personale e specifico del ricorrente deve, insomma, coniugarsi qui con l’interesse generale all’esatta osservanza e all’uniforme interprefazione della legge” (cfr., per tutte, Cass. 22 giugno 2007 n. 14682 o 10 settembre 2009 n. 19444).

Inoltre, secondo l’interpretazione prevalente di questa Corte dell’art. 366-bis c.p.c., anche l’illustrazione del motivo relativo al preteso vizio di motivazione deve concludersi con una chiara, sintetica, evidente ed autonoma indicazione del fatto controverso in relazione al quale viene dedotto l’uno o l’altro dei vizi possibili (cfr., per tutte, Cass. S.U. n. 16528/08 e, piu’ recentemente, Cass. 27680/09 e 4556/09).

Cio’ posto in via di principio, si rileva che, nel caso in esame, il primo motivo di ricorso e’ privo sia del quesito di diritto che del momento di sintesi in ordine al vizio di motivazione denunciato, di cui comunque non e’ spiegata e non risulta evidente l’autonomia rispetto alla censura di violazione di legge.

In ogni caso, la sentenza aveva respinto analoga censura formulata dalla societa’ in appello, rilevando che nel ricorso introduttivo del giudizio la difesa dello S. aveva formulato le censure che ora la societa’ dice accolte in violazione della regola della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Tuttavia, la ricorrente, nel contraddire la Corte territoriale, non riproduce il testo del ricorso introduttivo e dell’appello, per sostenere la tesi dell’assenza delle censure in questione, con cio’ violando la regola della autosufficienza del ricorso per cassazione, cui il codice di rito riconnette l’ammissibilita’ del ricorso medesimo (arg. art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, recentemente interpretato dalle sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 7161/10 e 20075/10).

Anche il secondo motivo e’ privo di quesito di diritto, poiche’ quello ivi formulato, comunque generico rispetto alla materia del contendere, sembra alludere semmai al tema affrontato col primo motivo, essendo cosi’ formulato:

“Dica la Corte se la L. n. 230 del 1962, art. 3 che fa carico al datore di lavoro di dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano la stipulazione dei contratti a termine possa essere validamente richiamato nella sentenza di merito al fine di prendere in considerazione ipotesi di nullita’ dei contratti stessi non dedotte dai ricorrenti, avuto riguardo alla particolare accentuazione dell’onere di allegazione, specificazione del principio di concentrazione e di immediatezza, che si verifica nel rito del lavoro ed al principio di corrispondenza del chiesto con il pronunciato”. In esso difetta infine anche un momento di sintetica, autonoma evidenziazione del tipo e contenuto di censura svolta in ordine al preteso vizio di motivazione della sentenza.

Anche il terzo motivo, nel quale non sono chiaramente distinguibili i vizi di violazione di legge rispetto a quelli che investono la motivazione, e’ inammissibile, sia per tale ragione, sia perche’ il quesito di diritto e’ generico, essendo cosi’ formulato: “Dica la Corte se e’ configuratile la risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 1372 c.c., comma 1, anche in presenza di comportamenti significativi tenuti dalle parti in relazione alla scadenza del termine illegittimamente apposto al contratto, determinando la cessazione della funzionalita’ di fatto del rapporto, per una durata e con modalita’ tali da evidenziare il loro completo disinteresse alla sua attuazione”.

La Corte territoriale non ha infatti negato che il rapporto di lavoro possa cessare per implicito mutuo consenso, ma ha affermato che la mera inerzia del lavoratore di fronte alla scadenza del termine ad esso apposto puo’ assumere diversi significati e ha quindi adeguatamente motivato le ragioni per le quali ha ritenuto di escludere nel caso in esame un significato diretto alla risoluzione del rapporto.

Appare allora evidente come il quesito riprodotto sia privo di specifico collegamento con la reale materia del contendere anche alla luce della pronuncia della Corte d’appello.

Concludendo, sulla base delle considerazioni svolte, il ricorso va dichiarato inammissibile, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle spese di questo giudizio, operato in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare allo S. le spese di questo giudizio di cassazione, liquidate in Euro 35,00 per esborsi ed Euro 2.500,00, oltre spese generali (12,50%), IVA e CPA, per onorari.

Cosi’ deciso in Roma, il 20 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2011

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