Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3610 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/02/2020, (ud. 10/09/2019, dep. 13/02/2020), n.3610

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 2409 del ruolo generale dell’anno 2018

proposto da:

Cad 2005 Europa s.r.l., in persona del legale rappresentante,

rappresentata e difesa, per procura speciale in calce al ricorso,

dall’Avv. Canepa Enrico Edoardo Angelo, elettivamente domiciliata in

Roma, via Moricone, n. 9, presso lo studio legale dell’Avv. Aureli

Beatrice;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici ha domicilio in Roma, Via dei Portoghesi,

n. 12;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Liguria, n. 1094/6/2017, depositata il giorno 20

luglio 2017;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 settembre

2019 dal Consigliere Triscari Giancarlo.

Fatto

RILEVATO

Che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: Cad 2005 Europa s.r.l., quale rappresentante indiretto della società PA.MA.B Food International s.r.l., aveva svolto delle operazioni di importazione dagli Emirati Arabi Uniti di gamberetti congelati, applicando l’aliquota agevolata per il pagamento del dazio; l’Agenzia delle dogane aveva notificato alla società sette atti di irrogazione delle sanzioni in quanto era emerso dalle indagini OLAF che i prodotti importati non erano provenienti dagli Emirati Arabi Uniti, ma dall’India; avverso i suddetti atti di irrogazione delle sanzioni Cad 2005 Europa s.r.l. aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di La Spezia per difetto di responsabilità della società; avverso la pronuncia del giudice di primo grado aveva proposto appello l’Agenzia delle dogane;

la Commissione tributaria regionale della Liguria ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: sussisteva la responsabilità della società contribuente, quale spedizioniere che aveva agito in rappresentanza indiretta; erano infondate le ulteriori censure proposte in primo grado e riproposte in appello in quanto assorbite dalla statuizione del giudice di primo grado;

avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso dinanzi a questa Corte Cad 2005 Europa s.r.l., affidato a tre motivi di censura, cui resiste l’Agenzia delle dogane depositando controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

sulle eccezioni preliminari: vanno preliminarmente disattese le eccezioni di giudicato esterno proposte dalla ricorrente, sia con riferimento alla sentenza n. 108/8/2014 che della sentenza n. 1219/3/2015, entrambe della Commissione tributaria regionale della Liguria;

con riferimento alla prima pronuncia, parte ricorrente deduce che la stessa, di cui attesta il passaggio in giudicato, è relativa agli avvisi di accertamento prodromici agli atti sanzionatori oggetto della presente controversia, sicchè l’avvenuto annullamento dei primi determinerebbe il venire meno anche degli atti successivi ad essi connessi;

l’eccezione di giudicato esterno, tuttavia, non può trovare accoglimento;

in primo luogo, va osservato che l’eccezione difetta di specificità, atteso che dall’esame della sentenza n. 108/8/2014, nonchè di quello oggetto di censura nel presente giudizio, non è dato evincere che gli avvisi di accertamento oggetto della suddetta sentenza siano riferibili, quali atti prodromici, agli atti sanzionatori oggetto del presente giudizio, non potendo valere, in mancanza di specifici elementi di riscontro, l’elenco riportato a pag. 4 del ricorso;

tanto più che parte controricorrente ha, di contro, evidenziato che, avverso gli avvisi di rettifica dell’accertamento, specificamente indicati, prodromici alla quasi totalità degli atti di irrogazione delle sanzioni, la Commissione tributaria regionale della Liguria, con sentenza n. 137/06/2014, avrebbe confermato la pronuncia di primo grado n. 109/4/2011, favorevole all’ufficio;

in secondo luogo, va comunque evidenziato che dall’esame del contenuto della sentenza n. 108/8/2014 non è dato evincere elementi che possano condurre a ritenere che l’accertamento da essa compiuto abbia effetti di giudicato esterno nel presente giudizio;

invero, la sentenza sopra citata si è pronunciata nei confronti della PA.MA.B. Food International s.r.l. relativamente agli avvisi di rettifica dell’accertamento dell’Agenzia delle dogane con i quali erano stati chiesti maggiori diritti doganali per le importazione di gamberetti congelati di provenienza indiana e non dagli Emirati Arabi Uniti;

la decisione di accoglimento delle ragioni della contribuente è stata fondata unicamente sulla violazione del principio del contraddittorio endoprocedimentale, non essendo stato concesso il termine a difesa prima di emettere gli avvisi di rettifica impugnati;

l’accertamento compiuto dal giudice, quindi, non ha avuto riguardo a fatti o a circostanze riferibili all’attuale ricorrente, ma alla violazione delle regole del contraddittorio endoprocessuale nei confronti della PA.MA.B. Food International s.r.l., società importatrice, prima dell’adozione degli atti impositivi, sicchè la pronuncia passata in giudicato non sarebbe comunque opponibile dalla attuale ricorrente, ove pure sussistesse il vincolo di solidarietà tra questa e la società importatrice, essendo fondata sopra ragioni personali al condebitore ed in relazione ad atti diversi, dovendosi, quindi, fare applicazione della previsione di cui all’art. 1306 c.c., comma 2;

con riferimento, poi, alla seconda pronuncia n. 1219/3/2015, cui fa riferimento la ricorrente, va osservato che la questione è stata proposta senza alcuna allegazione del passaggio in giudicato della suddetta sentenza, anzi deducendo che è stato proposto ricorso in cassazione: la circostanza che la contribuente ha eccepito, costituendosi, la tardività dell’impugnazione, non implica, come invece sostenuto, il passaggio in giudicato della pronuncia sopra indicata;

è, peraltro, il caso di evidenziare che la stessa ricorrente afferma che la vicenda esaminata in quel giudizio era relativa ad atti di irrogazione di sanzioni emessi in relazione ad importazioni diverse da quella in esame, sicchè non può porsi, neppure in astratto, una valenza in termini di giudicato, degli accertamenti compiuti in quella sede;

sui motivi di ricorso:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per carenza di motivazione dell’atto impugnato e per carenza di prova sulla responsabilità della ricorrente, quale spedizioniere, essendo lo stesso estraneo alla condotta illecita, potendo essa rispondere solo per gli adempimenti doganali, quindi, in relazione a quanto rientrante nella propria sfera di competenza e di controllo, non essendo, invece, in condizione di accertare l’irregolarità dell’importazione;

il motivo è inammissibile;

lo stesso, invero, è proposto come vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ma non indica espressamente, nel rispetto del principio di specificità, quali fatti decisivi per il giudizio non siano stati esaminati dal giudice del gravame ai fini della decisione, lamentando genericamente la propria impossibilità ad accertare l’irregolarità dell’importazione, non essendo nelle condizioni di verificare se i gamberetti provenissero o meno dagli Emirati Arabi Uniti, essendo in questo caso necessarie approfondite indagini ad essa non esigibili;

anche volendo riqualificare il motivo di ricorso in esame quale violazione di legge, in quanto incentrato sulla corretta applicazione della normativa unionale ai fini della attribuzione della responsabilità allo spedizioniere che agisca in rappresentanza indiretta, lo stesso non può trovare accoglimento;

questa Corte ha ribadito in varie decisioni (da ultimo, Cass. civ., 28 febbraio 2019, n. 5937) che: “In tema di tributi doganali, lo spedizioniere che abbia presentato merci in dogana per conto terzi, ma in nome proprio, beneficiando dell’ammissione alla procedura semplificata di cui alla L. n. 374 del 1990, art. 12, risponde, ai sensi dell’artt. 12 cit. e del Reg. CEE n. 2913 del 1992, artt. 201 e 202 (Codice doganale comunitario), in via solidale con il soggetto per conto del quale la merce medesima è stata presentata in dogana, di tutti i dazi, le imposte e gli accessori dovuti, a qualsiasi titolo, in relazione all’operazione commerciale, compresi gli interessi relativi, essendo tale figura di rappresentante indiretto, anche per la sua preparazione professionale, in grado di valutare la veridicità dei documenti trasmessigli, e dunque consapevole dell’irregolarità dell’introduzione delle merci nel territorio della Comunità”;

nella specie, il giudice del gravame si è attenuto ai suddetti principi;

con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso per il giudizio relativo al mancato riconoscimento della sussistenza della buona fede, di cui all’art. 220, CDC, nonchè del proprio legittimo affidamento sulla veridicità del certificato di origine;

il motivo è inammissibile;

anche in questo caso, come già rilevato con riferimento al primo motivo di ricorso, lo stesso, invero, è proposto come vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ma non indica espressamente, nel rispetto del principio di specificità, quali fatti decisivi per il giudizio non siano stati esaminati dal giudice del gravame ai fini della decisione, richiamando, peraltro, la previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), secondo il testo previgente, anteriore alla modifica di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, applicabile ratione temporis alla presente controversia, tenuto conto del fatto che la sentenza impugnata è stata depositata il 20 luglio 2017;

va, peraltro, evidenziato che, con riferimento al profilo specifico della buona fede, la sentenza impugnata ha compiuto una specifica valutazione sul punto, affermando che non solo non emergeva in alcun modo che la ricorrente avesse tenuto un comportamento diligente, ma anche che appare implausibile che potesse essere ignorato il dato concernente la scarsità dello specifico tipo di materia prima nel Paese dell’esportatore, il che implica una valutazione, non espressamente censurata dalla ricorrente, circa l’insussistenza di una condizione di buona fede, potendo questa rendersi conto della non correttezza del certificato di origine;

per il resto, la parte non ha allegato nè riprodotto alcun elemento di prova, fatto valere dinanzi al giudice del gravame, idoneo a evidenziare la propria condizione di buona fede, contrastante, peraltro, con l’accertamento del giudice del gravame, sopra riportato;

per completezza, va comunque osservato che, in relazione al riferimento compiuto dalla ricorrente all’art. 220 CDC, n. 2, lett. b), lo stesso prevede che le autorità competenti non procedono alla contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione qualora l’importo dei dazi legalmente dovuto non è stato contabilizzato per un errore dell’autorità doganale, che non poteva ragionevolmente essere scoperto dal debitore avendo questi agito in buona fede e rispettato tutte le disposizioni previste dalla normativa in vigore riguardo alla dichiarazione in dogana;

in sede di contabilizzazione a posteriori dei dazi, la buona fede dell’importatore rileva soltanto qualora ricorrano le condizioni fissate da ultimo nella sentenza della Corte di giustizia del 16 marzo 2017, causa C-47/16,Valsts ienèmumu dienests, secondo cui I Reg. (CEE) n. 2913 del 1992 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, art. 220, par. 2, lett. b), che istituisce un codice doganale comunitario, come modificato dal Reg. (CE) n. 2700 del 2000 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2000, deve essere interpretato nel senso che un importatore può invocare il legittimo affidamento in base a detta disposizione, al fine di opporsi ad una contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione, eccependo la propria buona fede, solo qualora ricorrano tre condizioni cumulative. Occorre, anzitutto, che tali dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti medesime, quindi, che tale errore sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore in buona fede e, infine, che quest’ultimo abbia rispettato tutte le disposizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana. Tale legittimo affidamento non sussiste, in particolare, quando, sebbene abbia evidenti ragioni per dubitare dell’esattezza di un certificato di origine, un importatore si sia astenuto dall’informarsi, nella massima misura possibile, delle circostanze del rilascio di tale certificato per verificare se tali dubbi fossero giustificati;

ne consegue che, come più volte ritenuto da questa Corte (Cass. civ., n. 5007 del 2007; sez. un. 18190 del 2008, Cass. n. 13680 del 2009; n. 7837 del 2010, in motivazione; n. 3531 del 2012; n. 1142 del 2018), la mancanza anche di uno solo dei citati presupposti basta ad escludere il diritto del debitore a non vedersi assoggettato al dazio;

i giudici comunitari in ripetute occasioni hanno chiarito le nozioni adottate da tale disciplina derogatoria (Corte di Giustizia, sentenze 1.4.1993 C-250/91 HP France; 14.5.1996 C-153/94 eC-204/94 Farcoer; 27.1.1991 C-348/89 Mecanarte; 19.10.2000 C-15/99 Sommer; 12.12.1996 C-38/95 Foods Import; 26.6.1990 C-64/89 Deutsche Fernsprecher), in particolare, precisando che l’errore deve essere imputabile alle autorità che hanno posto in essere i presupposti su cui riposava il legittimo affidamento dell’operatore, deve essere cioè provocato da un comportamento “attivo” delle medesime, per cui non vi rientra quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’esportatore di cui non si debba valutare o verificare la validità (da ultimo, Cass. civ., n. 1142 del 2018; Cass. civ., n. 13770 del 2016);

pertanto, l’errore della dogana, secondo il tenore letterale dell’art. 220 C.D.C., n. 2, lett. b, par. 3, non può, dunque, consistere nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore – in particolare sull’origine della merce – dato che le autorità stesse non debbono verificarne o valutarne la veridicità, mentre resta integrato da un comportamento attivo, che secondo la casistica, poi codificata nella seconda parte della norma in esame, cit. par. 3, lett. b), si basa su un’errata interpretazione delle norme in materia di origine (cfr. sent. 14.11.002, causa C-251/00, Ilumitronica, punti 44 e 45, sent. Faroe Seafood e a. punto 97) o di erronea classificazione doganale, risultante dal raffronto tra la voce dichiarata e la designazione delle merci secondo la nomenclatura (sent 1.4.1993, C250/91, punto 21, Società Hewlett Packard France);

in altri termini, il legittimo affidamento del debitore è degno della protezione prevista dall’art. 220 C.D.C. soltanto se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la fiducia del debitore; diversamente, costui è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo (sent. cit., Ilumitronica, punto 43, e Faroe Seafood, punto 92), vigendo il principio secondo cui la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli dei comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (sent. Beemsterboer, punto 43; Cass. n. 19195/2006);

con riferimento alla fattispecie, dunque, la circostanza, evidenziata dalla ricorrente, che le autorità doganali del paese di esportazione avevano rilasciato un certificato di origine, di cui poi è stata accertata la falsità, non può costituire elemento di per sè cari o sufficiente per concretare la sussistenza dell’errore attiriiù della suddetta autorità, non rientrando, in questa nozione, come detto, quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’esportatore;

pertanto, la possibilità di far valere la propria buona fede non solo è preclusa, nel caso di specie, dall’accertamento specifico compiuto dal giudice del gravame, ma anche dalla assoluta mancanza di elementi idonei ad accertare la sussistenza dell’errore attivo dell’autorità doganale del paese di esportazione;

con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio consistente nell’applicabilità dell’esimente di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, tenuto conto del comportamento di buona fede della ricorrente e dell’assenza della propria colpevolezza;

il motivo è inammissibile;

Io stesso censura genericamente la sentenza impugnata, lamentando che alcuna negligenza o imprudenza era stata commessa dalla ricorrente, sicchè non sarebbe configurabile alcuna condizione di colpevolezza che giustificasse l’applicazione delle sanzioni;

sul punto, va osservato che il giudice del gravame ha espressamente precisato che, nella fattispecie: sussisteva il requisito della colpevolezza, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, facendo richiamo a quanto in precedenza affermato in ordine alla responsabilità della contribuente quale rappresentante indiretto, sicchè dallo stesso, tenuto conto della sua preparazione professionale, era esigibile un comportamento particolarmente diligente, la cui prova non era stata offerta in giudizio; non era, inoltre, ravvisabile la buona fede, non potendo ignorare la contribuente la particolarità della situazione, in particolare il dato della scarsità dello specifico tipo di materia prima nel paese di esportazione;

rispetto a tali accertamenti, il motivo di censura si limita a evidenziare, in modo generico, la non sussistenza della propria colpevolezza, senza alcuna indicazione di fatti specifici non esaminati dal giudice;

in conclusione, i motivi di ricorso sono inammissibili, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite;

si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente, che si liquidano in complessive Euro 3.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020

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