Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3607 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/02/2020, (ud. 10/09/2019, dep. 13/02/2020), n.3607

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanni Maria – Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23173 del ruolo generale dell’anno 2015

proposto da:

Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici ha domicilio in Roma, Via dei Portoghesi,

n. 12;

– ricorrente –

contro

Centro Assistenza Doganale Italia s.r.l., in liquidazione, in persona

del legale rappresentante, rappresentata e difesa, per procura

speciale a margine del controricorso, dagli Avv.ti Zunino Cristina,

Picco Valentina e Antonelli Maria, elettivamente domiciliata in

Roma, Piazza Gondar, n. 22, presso lo studio di quest’ultimo

difensore;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Liguria, n. 1043/5/2014, depositata il giorno 3

ottobre 2014;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 settembre

2019 dal Consigliere Triscari Giancarlo.

Fatto

RILEVATO

Che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: CAD Italia s.r.l., quale rappresentante indiretto, aveva svolto per conto di Alioto Group s.r.l. delle operazioni di importazione di partite di cavi di acciaio acquistate dalla società sudcoreana Ys Wire Rope Ltd; l’Agenzia delle dogane aveva proceduto all’accertamento in rettifica della dichiarazione di importazione avendo verificato, sulla base di un’informativa OLAF, che le merci non erano di origine coreana ma cinese, sicchè aveva richiesto il pagamento del dazio antidumping; avverso il suddetto atto impositivo CAD Italia s.r.l. aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di La Spezia; avverso la pronuncia del giudice di primo grado l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli aveva proposto appello principale e la società appello incidentale;

la Commissione tributaria regionale della Liguria ha rigettato l’appello principale e dichiarato assorbito quello incidentale, in particolare ha ritenuto che: se, da un lato, doveva essere riconosciuta la responsabilità solidale di CAD Italia s.r.l. quale spedizioniere doganale, tuttavia, con riferimento al merito della pretesa, l’importazione era stata compiuta da un fornitore che operava, al tempo stesso, sia quale produttore di cavi di acciaio sia quale esportatore di cavi di acciaio cinesi, sicchè l’Agenzia delle dogane avrebbe dovuto procedere al controllo sul certificato di origine della merce ed attivare, a seguito delle informazioni dell’OLAF sui possibili traffici illeciti di cavi cinesi dalla Corea del Sud, la cooperazione amministrativa; sussisteva, inoltre, la violazione del contraddittorio preventivo e la mancata applicazione dell’art. 220 CDC;

avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso dinanzi a questa Corte l’Agenzia delle dogane affidato a cinque motivi di censura, cui resiste la società contribuente depositando controricorso, illustrato con successiva memoria.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, c.c., e degli artt. 22 e 26 CDC e degli artt. 93-94 DAC, per avere ritenuto che la procedura di controllo a posteriori nell’ambito della cooperazione amministrativa riguardasse anche l’ipotesi, quale quella di specie, di presentazione di certificati di origine non preferenziale, per la quale, quindi, non poteva essere escluso che, sulla base delle risultanze dell’indagine eseguita dall’OLAF, si potesse procedere al recupero a posteriori del dazio antidumping;

con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, c.c., del Reg. Ce n. 515/97, art. 12, , nonchè del Reg. Ce n. 1073/99 e 883/2013, per avere affermato che non era stata raggiunta la prova della origine cinese della merce importata, tenuto invece conto delle risultanze delle indagini dell’OLAF;

i motivi sopra indicati – relativi alla impugnazione della statuizione secondo cui in materia di certificati di origine è necessario attivare il procedimento di cooperazione amministrativa allo scopo di privarli di efficacia, per procedere, successivamente, all’accertamento di una diversa origine della merce anche mediante le risultanze delle indagini OLAF – vanno esaminati congiuntamente;

va osservato, in primo luogo, che la censura del ricorrente, secondo cui il giudice del gravame avrebbe erroneamente qualificato le merci importate di cui all’avviso di accertamento impugnato quali merci di origine preferenziale, laddove le stesse (cavi di acciaio di origine sudcoreana) costituirebbero merci di origine comune o commerciale, è inammissibile, in quanto nella sentenza impugnata non si fa riferimento all’origine preferenziale della merce, ma unicamente a certificati di origine, per i quali, in termini generali, è prospettata la necessità di attivare, comunque, la cooperazione amministrativa prima di procedere al recupero a posteriori del dazio antidumping;

sotto tale prospettiva, tuttavia, nella valutazione generale compiuta dal giudice del gravame della necessità di procedere alla attivazione della cooperazione amministrativa in ogni caso in cui è contestata la falsità del certificato di origine, va precisato che l’attività di cooperazione amministrativa è prevista, nel solo caso di accertamenti della dichiarazione doganale che ineriscano a merci di origine preferenziale, dagli articoli da 93 a 95, DAC, i quali disciplinano i metodi di cooperazione amministrativa fra i paesi beneficiari del sistema di preferenze tariffarie generalizzate (SPG) e la Commissione Europea;

in linea di principio, il procedimento di revisione doganale con recupero a posteriori dei dazi su merci di origine preferenziale presuppone l’attivazione preventiva del procedimento di cooperazione amministrativa ai fini della invalidazione da parte dell’autorità emittente del Paese di esportazione del certificato di origine preferenziale delle merci (Cass. Civ., 25 gennaio 2019, n. 2148), essendo l’amministrazione doganale dello Stato di importazione tenuta a riconoscere le valutazioni effettuate secondo la legge dalle autorità dello Stato di esportazione (Corte di Giustizia UE, 9 febbraio 2006, Sfakianakis, CF123/04 a CM25/04, punto 23; Corte di Giustizia UE, 15 dicembre 2011, Afasia Knits Deutschland, C-409/10, punto 29);

tuttavia, l’attivazione preventiva del procedimento di cooperazione amministrativa non è necessaria, ancorchè si verta in ambito del sistema di preferenze tariffarie generalizzate, laddove “le autorità doganali dello Stato di importazione continuano a nutrire dubbi sull’origine reale delle merci, nonostante tali certificati d’origine non siano stati dichiarati invalidi” (Corte di Giustizia UE, 8 novembre 2012, Lagura Vermògensverwaltung, C-438-11, punto 36), nel qual caso “le autorità dello Stato di esportazione non possono vincolare quest’ultima e i suoi Stati membri alla loro valutazione in merito alla validità dei certificati d’origine” (ibid.);

tale soluzione si impone per il fatto che, in caso contrario, si priverebbero le autorità doganali dello Stato di importazione della possibilità di domandare la prova che il certificato d’origine si basa su una situazione fattuale riferita in maniera inesatta dall’esportatore (Corte di Giustizia UE, Lagura, cit., punto 37);

invero, nel caso in cui non sussistano dubbi sulla falsità del certificato di origine, ancorchè preferenziale, l’Ufficio può basarsi su ulteriori elementi al fine di inferire l’origine ignota della merce asseritamente di origine preferenziale, anche ai fini dell’applicazione del dazio antidumping, ancorchè in assenza di un procedimento volto ad accertarne la falsità ideologica, purchè l’adozione delle misure recuperatorie sia legittimata anche solo in base alle risultanze delle indagini effettuate dagli organi ispettivi dell’unione Europea (Cass. Civ., 30 ottobre 2013, n. 24439);

tali principi sono stati riaffermati con la pronuncia di questa Corte (Cass. civ., 3 maggio 2019, n. 11631) che ha precisato che l’acquisizione della certezza della falsità non postula comunque l’espletamento della procedura: da un lato, difatti, il certificato di corredo delle merci non è precostituito a garanzia della pubblica fede (tra varie, con riguardo al certificato FORM A, Cass. 6 marzo 2013, n. 5531; 15 marzo 2013, n. 6637 e 30 ottobre 2013, n. 24439); sicchè per superarne le risultanze non è ineludibile il ricorso a procedure formali; gatEit=d’altro lato, sicura rilevanza probatoria va riconosciuta alla relazione dell’Olaf, ufficio Europeo per la lotta antifrode, a meno che essa non si limiti a contenere una mera descrizione dei fatti (Corte giust. 16 marzo 2017, causa C47/16, Veloserviss SIA, punto 48; nella giurisprudenza interna, tra varie, Cass. 21 aprile 2017, n. 10118);

nel caso di specie, la sentenza impugnata non contesta le risultanze dell’informativa OLAF, limitandosi ad affermare che “non risulta effettuato da parte dell’Agenzia delle Dogane della Spezia, alcun controllo sul certificato d’origine che accompagnava la merce importata” e che “a seguito delle informazioni dell’OLAF sui possibili traffici illeciti di cavi cinesi dalla Corea del Sud, la Dogana avrebbe dovuto attivare la cooperazione amministrativa sottoponendo al controllo della Dogana Sud-Coreana la documentazione presentata per ogni singola importazione”;

emerge, peraltro, dalla stessa sentenza impugnata come sia l’informativa INF AM 51 2008 dell’OLAF, sia una “nota delle autorità doganali sudcoreane acquisita agli atti dall’OLAF con prot. N. 977 del 23/01/2008” danno atto che la società esportatrice dalla quale si è rifornita l’attuale controricorrente “è risultata riesportare cavi in acciaio di origine cinese”;

non può sorgere dubbio alcuno sulla valenza probatoria in sede giurisdizionale degli accertamenti compiuti dagli organi esecutivi dell’OLAF ai sensi del Regolamento (CE) n. 1073/1999, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria (Cass., Sez. V, 21 aprile 2017, n. 10118; Cass., Sez. V, 3 agosto 2012, n. 14036; Cass., Sez. V, 27 luglio 2012, n. 13496; Cass., Sez. V, 2 marzo 2009, n. 4997; Cass., Sez. V, 24 settembre 2008, n. 23985), tanto che tali accertamenti possono essere posti, anche da soli, a fondamento degli avvisi di accertamento (Cass., Sez. V, 8 marzo 2013, n. 5892);

la motivazione degli avvisi di accertamento può avvenire anche per relationem con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dall’autorità ispettiva, nè l’ufficio viene meno all’onere di una autonoma valutazione degli elementi acquisiti in sede ispettiva, in quanto si limita a condividere le motivazioni espresse dall’autorità ispettiva (Cass., Sez. V, 20 dicembre 2018, n. 32957; Cass., Sez. VI, 4 giugno 2018, n. 14275; Cass., Sez. V, 23 febbraio 2018, n. 4396);

tali conclusioni possono essere estese anche alle altre relazioni ispettive OLAF, posto che tutti gli accertamenti compiuti dall’OLAF hanno rilevanza probatoria nell’Unione Europea in forza di quanto previsto dal Reg. (CE) n. 1073/1999 (applicabile al caso di specie), poichè non solo l’art. 9, comma 1 del citato regolamento riconosce efficacia probatoria privilegiata ai fatti accaduti in presenza degli ispettori (il cui comma 2 del medesimo articolo stabilisce l’equipollenza della relazione redatta al termine delle indagini a quella redatta agli ispettori amministrativi dello Stato membro), ma anche l’art. 9, comma 3, e l’art. 10, comma 1 (che prevedono la trasmissione alle autorità degli Stati membri interessati, rispettivamente, di “ogni documento utile” acquisito, nonchè della comunicazione di “qualsiasi informazione” ottenuta nel corso delle indagini), inducono a ritenere utilizzabili anche altre fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dal suddetto organismo antifrode, e quindi anche dei verbali delle operazioni di missione (Cass., Sez. V, 27 luglio 2012, n. 13496);

pertanto, l’esistenza di specifiche risultanze conseguenti all’attività ispettiva attivata dall’OLAF comporta la insussistenza di ogni dubbio sulla falsità del certificato di origine preferenziale, che non richiede la preventiva attivazione della cooperazione amministrativa, sicchè la pronuncia censurata non è conforme ai suddetti principi, avendo ritenuta la necessità, pur in presenza di informazioni dell’OLAF, sui possibili traffici illeciti di cavi cinesi dalla Corea del Sud, di attivare la cooperazione amministrativa;

con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, per avere ritenuto violato il diritto al contraddittorio preventivo della società contribuente;

il motivo è fondato;

secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di avvisi di rettifica in materia doganale, è inapplicabile la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, operando in tale ambito lo jus speciale di cui al D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, art. 11, nel testo utilizzabile ratione temporis, preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento comunque anticipato rispetto all’impugnazione in giudizio del suddetto avviso, come confermato dalla normativa sopravvenuta (decreto L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 27), la quale, nel disporre che gli accertamenti in materia doganale sono disciplinati in via esclusiva dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, ha introdotto un meccanismo di contraddittorio assimilabile a quello previsto dallo Statuto del contribuente (Cass. Civ., 1 ottobre 2018, n. 23669; Cass. Civ., 2 luglio 2014, n. 15032; Cass. Civ., 5 aprile 2013, n. 8399);

inoltre, va precisato che la Corte di giustizia (20 dicembre 2017, Preqù Italia, C-276/16) ha ritenuto compatibile con il diritto dell’Unione la normativa italiana, nella versione antecedente alla novella del 2012, applicabile anche nel caso in questione, che senza definire direttamente la fase procedimentale lasciava all’iniziativa del contribuente la contestazione della rettifica idonea a instaurare l’interlocuzione con l’Amministrazione (v. Cass. Civ., n. 23669 del 2018, cit.);

con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e dell’art. 132, c.p.c., per avere reso una motivazione inesistente sulla questione della applicabilità al caso di specie della previsione di cui all’art. 220 CDC, non avendo in alcun modo esposto l’iter logico giuridico seguito;

il motivo è fondato;

al riguardo va precisato che il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), e cioè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, (in materia di processo civile ordinario) e dell’omologo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4 (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata;

pertanto, la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. n. 4448 del 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass. cit.; v. anche Cass., Sez. un., n. 22232 del 2016 e la giurisprudenza ivi richiamata);

sicchè, ove la sentenza, affrontando una determinata questione, sebbene dia risposta graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture, la stessa è da considerarsi nulla sul punto per violazione della regola processuale di cui all’art. 132 c.p.c. (Cass., Sez. U, Sentenza n. 22232 del 2016; conf. Cass. Civ., n. 14927 del 2017);

nella fattispecie, differentemente da quanto sostenuto dalla controricorrente a fondamento della eccepita inammissibilità del motivo di censura in esame, il giudice del gravame, dovendo pronunciare sulla questione dell’applicabilità dell’art. 220 CDC, al caso di specie, si è limitato a dare atto della “mancata applicazione dell’art. 220 CDC essendo ricorrente nel caso in esame l’art. 220 CDC, comma 2, lett. b)”, senza esplicitare, in particolare, sulla base di quali specifici elementi, in fatto ed in diritto, ha ritenuto che, nella fattispecie, poteva dirsi esistente l’errore attivo dell’autorità doganale, la possibilità della sua conoscenza da parte del debitore e la sua buona fede;

si tratta, quindi, di una motivazione nulla ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), in quanto meramente apparente;

con il quinto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del Reg. (CE) n. 2913/92, art. 220, non avendo il giudice del gravame accertato la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della suddetta disposizione, con particolare riferimento alla sussistenza dell’errore attivo dell’autorità doganale competente, all’impossibilità per la parte di accorgersi di tale errore e al rispetto delle prescrizioni formali per il compimento dell’operazione doganale;

l’accoglimento del quarto motivo di ricorso comporta l’assorbimento del motivo di ricorso in esame;

in conclusione, sono fondati i motivi di ricorso dal primo al quarto, assorbito il quinto, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Commissione tributaria regionale, anche per l’eventuale esame delle domande ed eccezioni riproposte dalla controricorrente su questione ritenute assorbite dal giudice del gravame e per la liquidazione delle spese di lite.

PQM

La Corte:

accoglie i motivi di ricorso dal primo al quarto, assorbito il quinto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Liguria, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della quinta sezione civile, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020

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