Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3600 del 14/02/2011

Cassazione civile sez. lav., 14/02/2011, (ud. 22/12/2010, dep. 14/02/2011), n.3600

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LA TERZA Maura – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 218-2008 proposto da:

SYNTEX SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

domiciliata in ROMA, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione,

rappresentata e difesa dall’avvocato GARILLI ALESSANDRO, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.G., domiciliato in ROMA, presso la Cancelleria della

Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato MORICI

MARCO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 967/2007 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 25/09/2007, R.G.N. 159/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/12/2010 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA MARCELLO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Tribunale di Palermo, Giudice del lavoro, con sentenza n. 5153, del 25 novembre 2005, dichiarava inefficace il licenziamento intimato dalla società SINTEX s.p.a. nei confronti di M.G., ai sensi della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 24, in ragione di un asserito “ridimensionamento strutturale dell’impresa, variazioni delle condizioni di mercato e conseguenti problemi di natura finanziaria”, e condannava la suddetta società a reintegrare M.G. nel posto di lavoro ed a risarcire al medesimo il danno subito, versandogli un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dalla data del licenziamento a quella della effettiva reintegrazione, oltre accessori di legge, nonchè al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.

La società SINTEX veniva condannata al pagamento delle spese processuali.

2. La suddetta società impugnava la citata pronuncia dinanzi alla Corte d’Appello di Palermo, la quale, con sentenza n. 967 del 2007, confermava la decisione di primo grado e condannava la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

3. Ricorre per la cassazione della sentenza d’appello la società SINTEX prospettando due motivi di ricorso.

4. Resiste con controricorso M.G..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e degli artt. 1256, 1463 e 1464 c.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

La ricorrente premette che, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., il giudice deve porre alla base delle proprie decisioni le prove proposte dalle parti, da valutare ai sensi del successivo art. 116. Deduce, quindi, che, ai sensi degli articoli del codice civile sopra richiamati, era sopravvenuta l’oggettiva impossibilità dell’adempimento della prestazione consistente nella reintegrazione di M.G. nel posto di lavoro, in quanto come si poteva evincere dalla documentazione prodotta in atti – con effetto dal 30 settembre 2005, si era realizzata la cessazione di ogni attività dello stabilimento di (OMISSIS), al quale lo stesso era addetto.

Espone la società SINTEX, altresì, di aver prodotto in primo grado documentazione contenente l’indicazione dei reparti della sede di Palermo, dalla quale la Corte d’Appello di Palermo avrebbe potuto evincere come la sede da ultimo richiamata avesse al suo interno soggetti preposti a mansioni amministrative o tecnico specialistiche, mentre nello stabilimento di (OMISSIS) i lavoratori erano impiegati esclusivamente per compiti di produzione.

M.G. era impiegato nello stabilimento di (OMISSIS), nell’area produzione ed assemblaggio di schede elettroniche, e le relative mansioni non avevano nulla a che vedere con le attività della sede di (OMISSIS).

Pertanto, in ragione dell’impossibilità della reintegrazione nel posto di lavoro, la Corte d’Appello avrebbe dovuto limitarsi alla condanna al risarcimento del danno a vantaggio del lavoratore, in ragione delle sole retribuzioni maturate sino al 30 settembre 2005.

1.1. In relazione al suddetto motivo di ricorso veniva prospettato il seguente quesito di diritto, così articolato:

se, ai sensi degli artt. 1256, 1463 e 1464 c.c., qualora lo stabilimento cui il lavoratore era addetto sia stato chiuso, e non sia possibile il suo utilizzo in altre sedi del datore di lavoro, il risarcimento del danno vada limitato alle sole retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella in cui si è realizzata la sopravvenuta impossibilità di un proficuo utilizzo del lavoratore all’interno dell’organizzazione produttiva del datore di lavoro;

se, qualora l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle in cui prestava la sua attività risulti dimostrata da un documento prodotto in atti e non contestato, il Giudice debba considerare il fatto dimostrato, ai sensi degli artt. 115 e 116 c.p.c..

1.2. Occorre premettere che il quesito di diritto, di cui all’art. 366 bis c.p.c., applicabile, nella specie, ratione temporis (D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 27, comma 2) trattandosi di impugnazione per cassazione di sentenza pubblicata successivamente al 2 marzo 2006, deve consistere in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame. Ne consegue che è inammissibile non solo il ricorso nel quale il suddetto quesito manchi, ma anche quello nel quale sia formulato in modo inconferente rispetto alla illustrazione dei motivi d’impugnazione (Cass., S.U., sentenza n. 11650 del 2008).

1.3. E’ opportuno, altresì, precisare che la sentenza della Corte d’Appello di Palermo ha affermato che la società SINTEX, nelle comunicazioni finali di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 9, avrebbe dovuto specificare le ragioni per cui i lavoratori, in relazione alla loro professionalità, non avrebbero potuto essere utilizzati in altri reparti dell’azienda, cosicchè la scelta, invece di essere effettuata su un numero più ampio di dipendenti, era stata operata in relazione ai dipendenti addetti a) reparto soppresso, ed ha ritenuto, quindi, che poichè dalla comunicazione del 12 febbraio 2004 nulla si evinceva in proposito, correttamente il giudice di primo grado aveva affermato la sussistenza della violazione della L. n. 223 del 1991, suddetto art. 4, comma 9.

La Corte d’Appello ha asserito che a fronte di tale vizio di natura formale, “il cui rilievo è pregiudiziale ed assorbente”, assolutamente priva di rilievo era la richiesta, formulata dalla società in primo grado di mezzi istruttori volti a dimostrare l’impossibilità di utilizzare altrove i lavoratori.

Ha statuito, inoltre, che la chiusura dello stabilimento aziendale cui era addetto il lavoratore licenziato, non escludeva, in linea di principio, la possibilità per l’impresa di reintegralo nel posto di lavoro, eventualmente trasferendolo ad altre unità produttive; la società SINTEX nulla aveva dedotto e provato, in ordine all’impossibilità di operare la reintegrazione, presso altre strutture aziendali, cosicchè l’eccezione di sopravvenuta impossibilità della prestazione, diretta a limitare la condanna al solo risarcimento del danno, affermava il giudice di appello, non poteva che essere respinta.

1.3. Tanto premesso, è palese che il quesito proposto con riguardo al vizio di violazione di legge, come articolato, risulta privo di ogni attinenza al decisum, sicchè la risposta al medesimo, anche qualora positiva per il richiedente, non vale a risolvere la questione decisa, che riguarda l’illegittimità della comunicazione L. n. 223 del 1991, ex art. 4; a ciò consegue, in parte qua, la inammissibilità del ricorso.

1.4. Per altro verso, non è fondato il vizio di motivazione prospettato con il primo motivo di ricorso, in ordine al capo della decisione d’appello sulla mancanza di prova circa l’impossibilità da parte del datore di lavoro di adibire il lavoratore ad altre mansioni compatibili con la qualifica rivestita in relazione al contenuto professionale dell’attività svolta in precedenza – peraltro, secondo la giurisprudenza di questa Corte da collegare alla situazione esistente al momento del recesso, ovvero ad un arco temporale idoneo a dimostrare la ragionevolezza e correttezza dell’agire datoriale nella decisione di risolvere il rapporto (Cass., sentenza n. 2621 del 2008).

Nella specie, come si è sopra ricordato, la sentenza impugnata ha ritenuto che nulla era stato dedotto e provato in merito alla impossibilità di operare la reintegrazione presso altre strutture aziendali.

L’accertamento in questione costituisce valutazione di merito, insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivato, nè in ricorso si lamenta la omessa valutazione di circostanze emerse in causa, decisive per dimostrare che non esistevano altri posti di lavoro adeguati (limitandosi la ricorrente ad effettuare, in ragione di documentazione già prodotta in primo grado dalla quale “la Corte avrebbe dunque dovuto ritenere”, una sintetica mera elencazione di reparti e generici compiti relativi alla sede di Palermo), solo in tal modo, infatti, sarebbe individuabile il dedotto difetto di motivazione.

2. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione degli artt. 1123 e 1227 c.c., in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18; violazione dell’art. 420 c.p.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Deduce la ricorrente che, in ragione della normativa richiamata, l’indennità dovuta in caso di licenziamento illegittimo deve essere ridotta tenuto conto del cosiddetto aliunde perceptum, e che, pertanto, poichè il lavoratore, dopo la decisione di primo grado, aveva avviato un rapporto di lavoro con altro soggetto, come dedotto tempestivamente nel ricorso in appello, l’indennità di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 avrebbe dovuto essere ridotta. Essa ricorrente, al fine di dimostrare tale attività aveva deferito giuramento decisorio al lavoratore. La Corte d’Appello, inoltre, aveva omessa di considerare come aliunde perceptum l’importo dell’indennità di mobilità.

2.1. In ordine al suddetto motivo di ricorso è stato prospettato il seguente quesito di diritto, articolato come segue:

se, ai sensi degli artt. 1223 e 1227 c.c., qualora il lavoratore trovi un’occupazione tra la pronunzia del dispositivo della sentenza di primo grado e l’inizio del giudizio di appello, la relativa retribuzione possa essere considerata aliunde perceptum ai fini della riduzione dell’indennità di cui all’art. 18 dello statuto dei lavoratori;

se la dimostrazione di quanto indicato sopra sia sottoposto alle preclusioni di cui agli artt. 416 e 420 c.p.c., nonostante il fatto controverso sia avvenuto al termine del giudizio di primo grado.

2.2.11 suddetto motivo non è fondato.

Da un lato, con riguardo al prospettato aliunde perceptum costituito da reddito da lavoro, il motivo di ricorso è generico e non rispetta il canone dell’autosufficienza, nel senso che il ricorso non espone, neppure richiamando atti o scritti difensivi presentati nei precedenti gradi di giudizio, quelle specifiche circostanze per cui l’allegazione sarebbe stata tempestiva e così impedisce al giudice di legittimità una completa cognizione dell’oggetto. Ed infatti, la Corte d’Appello ha ritenuto inammissibile il motivo di impugnazione volto al riconoscimento dell’aliunde perceptum in quanto non fornito di prova in ordine al momento in cui essa ricorrente era venuta a conoscenza della circostanza dedotta a fondamento dell’eccezione, al fine di ritenere la tempestività dell’allegazione, con la conseguente inammissibilità e dell’eccezione e del giuramento decisorio.

Per altro verso, questa Corte ha già avuto modo di affermare che le indennità previdenziali non possono essere detratte dalle somme alle quali il datore di lavoro è stato condannato, dovendosi ritenere esse non acquisite in via definitiva dal lavoratore e ripetibili dagli Istituti previdenziali (Cass., sentenze n. 10531 del 2004. n. 6265 del 2000).

3. In ragione delle argomentazioni esposte il ricorso deve essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 2000 per onorari, oltre IVA e CPA e oltre esborsi liquidati in Euro 35.

Così deciso in Roma, il 22 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2011

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