Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3599 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/02/2020, (ud. 03/12/2019, dep. 13/02/2020), n.3599

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 17642/2012 R.G. proposto da

Rohm and Haas Italia s.r.l., unipersonale, in persona del l.r.p.t.,

rappresentata e difesa dall’avv. Zoppini Giancarlo, dall’avv. Russo

Corvace Giuseppe e dall’avv. Pizzonia Giuseppe, presso cui

elettivamente domicilia in Roma alla via della Scrofa n. 57;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

cui domicilia ope legis in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 62/36/12 della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, pronunciata in data 13/2/2012, depositata

in data 19/4/2012 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3/12/2019 dal

consigliere Giudicepietro Andreina.

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Sanlorenzo Rita, che ha concluso chiedendo il rigetto del

ricorso;

udito l’Avv. Orlando Francesca, in sostituzione dell’avv. Zoppini

Giancarlo, per la società ricorrente e l’Avvocato dello Stato

Giordano Andrea per l’Agenzia delle entrate.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Rohm and Haas Italia s.r.l. ricorre con otto motivi contro l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza n. 62/36/12 della Commissione tributaria regionale della Lombardia (di seguito C.t.r.), pronunciata in data 13/2/2012, depositata in data 19/4/2012 e non notificata, che ha rigettato l’appello della società contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di accertamento, con cui veniva accertato nei confronti della società, odierna ricorrente, maggiori imposte (Ires, Irap ed Iva) per l’anno 2004.

2. Con la sentenza impugnata, per quanto di interesse, pronunciandosi limitatamente al rilievo oggetto di appello sull’indebita detrazione dell’I.v.a., la C.t.r., condividendo le motivazioni del giudice di primo grado, riteneva che la società non avesse dato prova dell’inerenza dei costi, cui si riferiva la detrazione dell’Iva.

In particolare il giudice di appello rilevava che la contribuente non aveva provato “che i servizi, asseritamente prestati dalle altre controllate, facenti parte di un unico gruppo, in qualche modo avessero influito, direttamente e positivamente, sull’andamento societario, diminuito eventuali costi, favorito il miglioramento della produzione e commercializzazione dei prodotti, oppure diminuito costi precedentemente assunti per servizi similari, o anche che la prestazione di nuovi servizi avesse, anche in via previsionale, accresciuto le potenzialità dell’impresa”.

Inoltre, il giudice di appello concludeva rilevando che non era stato predisposto il masterfile, dal quale evincere le informazioni sulla storia, l’evoluzione, la struttura organizzativa ed operativa del gruppo, nè era stata prodotta la “documentazione nazionale”, contenente le informazioni sulla società contribuente, nonchè l’analisi economica sui metodi per la determinazione dei prezzi di trasferimento e dei servizi infragruppo.

Pertanto, secondo la C.t.r., andavano confermati sia l’accertamento, sia le sanzioni a carico della società accertata.

3. A seguito del ricorso, l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

4. Il ricorso è stato fissato alla pubblica udienza del 3/12/2019.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata, per la violazione del combinato disposto del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, comma 5, della L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 7 e 17, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 23, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Secondo la ricorrente, i primi giudici, nonostante l’avviso di accertamento riguardasse espressamente l’indetraibilità dell’Iva per la mancanza di inerenza dei relativi costi, avevano sostenuto la legittimità del recupero a tassazione per una diversa causa petendi, attinente al sindacato sul valore normale delle prestazioni infragruppo.

In particolare la C.t.p. di Milano avrebbe ritenuto provata l’esistenza dei costi, ma non dimostrato il perchè la società italiana avesse sopportato quel costo nel suo ammontare, e cioè il criterio fondante la distribuzione di tali costi, con conseguente violazione delle norme in tema di transfer pricing.

La società deduce di aver impugnato la statuizione della C.t.p. di Milano per il vizio di extra petizione e che l’impugnazione sul punto era stata rigettata dalla C.t.r., la quale aveva operato una non condivisibile distinzione tra le motivazioni dell’atto impositivo e le argomentazioni difensive svolte in giudizio dall’Agenzia delle entrate.

Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto la doglianza della società afferente alla violazione del principio del corrispettivo effettivo, di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 13, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

1.2. I motivi, da esaminare congiuntamente perchè connessi, sono inammissibili.

1.3. Le censure riguardano il riferimento, contenuto nella sentenza impugnata, alla disciplina del transfer pricing, che non costituisce una ratio fondante della decisione.

Di recente, questa Corte si è espressa nel senso che, per l’Iva, sulla base dei principi di derivazione comunitaria (Direttiva 112/2006/CEE, ex art. 73), il corrispettivo effettivamente ricevuto è un elemento cardine del meccanismo di applicazione dell’imposta, fondato sul principio di neutralità, che sarebbe violato qualora la base imponibile fosse calcolata in relazione ad un importo superiore al corrispettivo ricevuto (Cass. sent. n. 2240/2018).

L’orientamento di recente espresso da questa Corte trova fondamento in quello dei giudici unionali, secondo cui: la circostanza che un’operazione economica sia effettuata ad un prezzo superiore o inferiore al prezzo normale di mercato deve ritenersi irrilevante (cfr. Corte di giustizia Europea sentenza 20 gennaio 2005, causa C-412/03, Hotel Scandic Gasabach, 22); non c’è elusione o evasione fiscale se i beni o i servizi sono forniti a prezzi artificialmente bassi o elevati fra le parti che godano entrambe del diritto a detrazione Iva, essendo solo a livello del consumatore finale che può verificarsi una perdita di gettito fiscale (cfr. Corte di giustizia Europea, sentenza 26 aprile 2012, cause riunite C-621/10 e C-129/11, Balkan, p. 47).

Nel caso di specie, le doglianze della società ricorrente, sebbene richiamino i principi sopra esposti, non sono ammissibili, poichè non colgono la ratio della sentenza impugnata.

Il giudice di seconde cure, infatti, pur richiamando in taluni passaggi motivazionali la disciplina del transfer pricing, ha rigettato l’appello della società contribuente essenzialmente sul presupposto che quest’ultima non avesse dimostrato l’inerenza dei costi, cui si riferiva l’1.v.a. computata in detrazione; quindi la C.t.r. non è incorsa in ultrapetizione (primo motivo), ne” in violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 13 (secondo motivo).

2.1. Con il quarto motivo, logicamente prioritario rispetto al terzo, la ricorrente denunzia la nullità della sentenza impugnata per la violazione degli artt. 324 e 329 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4

La ricorrente ritiene che l’Ufficio, resistendo all’appello della ricorrente, non abbia impugnato incidentalmente, come era suo onere, la statuizione della sentenza di primo grado relativa alla esistenza ed effettività dei costi, con il conseguente passaggio in giudicato dell’accertamento sul punto.

2.2. Il motivo è infondato e va rigettato.

2.3. Deve, infatti, rilevarsi che, in merito ad un preteso giudicato sull’effettività ed esistenza dei costi, non è configurabile alcuna acquiescenza parziale dell’amministrazione alla sentenza della C.t.p. di Milano, favorevole all’Ufficio, parte appellata interamente vittoriosa in primo grado.

Comunque, fin dal primo grado del giudizio, la questione controversa riguarda l’inerenza dei costi, che, secondo quanto sostenuto dall’amministrazione, sia nel giudizio di primo grado, sia nelle difese in appello, non sarebbe stata dimostrata dalla società, per la mancata prova dei servizi realmente prestati e dei vantaggi conseguiti (atteso il peggioramento degli indici di bilancio rispetto alle annualità precedenti), rilievi che l’Agenzia delle entrate assume di aver riportato nel p.v.c. richiamato nell’avviso di accertamento.

Su tali questioni non può ritenersi formato il giudicato interno, in quanto, nel brano della sentenza di primo grado riportato nel motivo di ricorso, non si ravvisa un accertamento univoco sull’effettività dei costi, dato che il giudice si limita a rilevare che la “documentazione prodotta “può” dar prova dell’an, ma non del quantum del costo”, senza chiarire se tale prova sia effettivamente desumibile dalla stessa, anzi concludendo nel senso che “il principio dell’inerenza non è stato dimostrato neanche dopo la produzione della documentazione in dibattimento”.

In realtà il giudice di primo grado non ha specificamente affrontato la questione relativa all’effettività dei costi in contestazione, quindi l’Agenzia delle entrate, quale parte appellata, vittoriosa in primo grado, non aveva l’onere di proporre appello incidentale, potendo limitarsi al richiamo delle difese ed eccezioni del precedente grado di giudizio (cfr. Sez. U, Sentenza n. 13195 del 25/05/2018).

3.1. Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo la ricorrente, la sentenza oggetto di impugnazione si baserebbe su di un concetto di inerenza “utilitaristico”, illegittimamente mutuato dalla disciplina delle imposte dirette.

La ricorrente deduce che, in tema di Iva, la detrazione (come la rivalsa) realizza il principio di neutralità dell’imposta, per cui la legislazione nazionale non può sottoporla a limiti non compatibili con il suddetto principio.

L’armonizzazione dell’I.v.a., prevista dall’art. 112 TFUE, è stata attuata principalmente con le Direttive, tra le quali va ricordata la sesta direttiva 388/1977, recepita nel nostro ordinamento con il D.P.R. n. 24/79, successivamente rielaborata con la direttiva 2006/112/CE, che costituisce attualmente il testo di riferimento Europeo della disciplina dell’I.v.a.

Secondo la ricorrente, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, a seguito della modifica introdotta con il D.Lgs. n. 2 settembre 1997, n. 313, garantisce la neutralità dell’Iva mediante il riconoscimento, in generale, del diritto alla detrazione, cui potrebbe derogarsi nei soli casi in cui gli acquisti siano direttamente afferenti all’effettuazione di operazioni esenti o non soggette ad Iva.

Con il quinto motivo, la ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la motivazione insufficiente su di un fatto decisivo e controverso per il giudizio, consistente nell’inerenza ed utilità dei costi contestati, comprovate dalla documentazione prodotta dalla società, che il giudice di appello non avrebbe tenuto in debito conto.

3.2. I motivi, da esaminare congiuntamente perchè connessi, sono infondati.

3.3. Preliminarmente, deve rilevarsi che la tesi della ricorrente, secondo cui l’Ufficio aveva illegittimamente utilizzato il concetto di inerenza, mutuandolo dalla disciplina delle imposte dirette, non costituisce eccezione nuova, avanzata per la prima volta in appello, ma mera difesa nell’ambito delle argomentazioni della società contribuente volte a contestare il concetto di inerenza, adottato dall’amministrazione e recepito dal giudice di primo grado per sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento.

A mente del primo periodo del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 1, vigente ratione temporis, “1. Per la determinazione dell’imposta dovuta a norma del comma 1 dell’art. 17 o dell’eccedenza di cui al comma 2 dell’art. 30, è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione”.

Pertanto gli acquisti e le importazioni danno diritto alla detrazione dell’I.v.a. se sono effettuati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione, cioè se sono inerenti all’attività esercitata.

L’inerenza, quale requisito di detraibilità dell’imposta afferente al costo, richiede elementi oggettivi, che evidenzino una concreta strumentalità del bene o servizio all’attività di impresa (Cass., 20 gennaio 2017, n. 1544).

“In tema di IVA, ai fini della detrazione dei costi, non è sufficiente l’avvenuta contabilizzazione degli stessi, dovendo il contribuente dimostrarne, nell’ipotesi di contestazione dell’Amministrazione finanziaria, anche l’esistenza, l’inerenza e la coerenza economica” (Sez. 5 -, Sentenza n. 22940 del 26/09/2018).

Con specifico riguardo alla materia dei costi c.d. infragruppo (ovvero laddove la società capofila di un gruppo d’imprese decida di fornire servizi o curare direttamente le attività di interesse comune alle società del gruppo, ripartendone i costi fra di esse, al fine di coordinare le scelte operative delle aziende formalmente autonome e ridurre i costi di gestione attraverso economie di scala), costituisce ius receptum il principio per cui “l’onere della prova in ordine all’esistenza ed all’inerenza dei costi sopportati incombe sulla società che affermi di aver ricevuto il servizio, occorrendo, affinchè il corrispettivo riconosciuto alla capogruppo sia deducibile ai fini delle imposte dirette e l’IVA contestualmente assolta sia detraibile, che la controllata tragga dal servizio remunerato un’effettiva utilità e che quest’ultima sia obiettivamente determinabile e adeguatamente documentata” (v. Cass. nn. 6825/2019; 23164/2017; 23027/2015; 8808/2012; 11949/2012; 14016/1999).

La Corte ritiene di aderire a tale consolidato orientamento, in tema di operazioni infragruppo, rilevando che, nel caso di specie, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione della normativa in oggetto.

Tale impostazione non si pone in contrasto con il principio, recentemente espresso da questa Corte, secondo cui “in tema di IVA, il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sè, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo” (Cass. sent. n. 18904/2018; vedi anche Cass. n. 33574/2018, secondo cui l’inerenza deve essere valutata secondo un giudizio di carattere qualitativo, e non quantitativo, correlato all’attività di impresa, con la conseguenza che, in tema di IVA, la stessa non può essere esclusa solo in virtù di un giudizio sulla congruità del costo, che non condiziona nè esclude il diritto alla detrazione, salvo che l’amministrazione finanziaria dimostri la macroscopica antieconomicità della operazione).

Invero, nella fattispecie in esame, non è contestato e risulta dagli atti che la società ha sottoscritto un accordo per la condivisione dei costi (European Operations Cost Sharing Agreement, di seguito EOCSA), con la previsione di un corrispettivo forfettario in percentuale sul fatturato e sulle vendite a terzi, in esecuzione del quale la ricorrente ha emesso per l’annualità in questione quattro autofatture per prestazioni di servizi da parte di soggetti comunitari appartenenti al gruppo.

Il giudice di appello, partendo dalla premessa che la società del gruppo, che affermi di aver ricevuto il servizio, ha l’onere della prova in ordine all’esistenza ed all’inerenza dei costi sopportati, afferma che “il fatto che alcune società del gruppo siano state deputate alla fornitura di servizi in base all’accordo tra loro stilato, non è sufficiente a comprovare la sussistenza di quegli elementi atti a dimostrare l’esistenza dei servizi asseritamente prestati in esecuzione dell’accordo, per il solo fatto che la società fornitrice dei servizi abbia sopportato, nel periodo in questione, spese astrattamente riconducibili alle aree di gestione della società controllata”.

Sul punto la pronuncia appare conforme al più recente orientamento di legittimità, secondo cui “in tema di IVA, ai fini della detrazione di un costo, la prova dell’inerenza del medesimo quale atto d’impresa, ossia dell’esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione quali fatti costitutivi su cui va articolato il giudizio di inerenza, incombe sul contribuente in quanto soggetto gravato dell’onere di dimostrare l’imponibile maturato” (Cass. sent. n. 18904/2018 citata).

Inoltre, la C.t.r. ha rilevato che “la contribuente non ha provato che i servizi asseritamente prestati dalle varie controllate avessero influito direttamente e positivamente sull’andamento societario, diminuito eventuali costi, favorito il miglioramento della produzione e commercializzazione dei prodotti, oppure diminuito costi precedentemente assunti per servizi similari, o anche che la prestazione dei nuovi servizi abbia, anche in via previsionale, accresciuto le potenzialità dell’impresa”.

Sebbene la motivazione della sentenza impugnata contenga un riferimento (improprio in materia di Iva) alla mancata prova dei vantaggi economici conseguiti dalla società contribuente, la decisione si basa essenzialmente sulla considerazione che la società non abbia assolto al proprio onere probatorio, omettendo di provare sia l’effettività dei costi “asseritamente” sostenuti, sia il loro collegamento diretto con l’attività imprenditoriale svolta in concreto (ad esempio, con riferimento al tipo di organizzazione aziendale ed alle esigenze produttive della società controllata) e con le successive operazioni commerciali poste in essere.

Giova anche ricordare che la giurisprudenza unionale, in materia di detraibilità dell’IVA assolta sui costi generali, ha sottolineato la necessità del collegamento economico fra prestazioni a monte e a valle e, dunque, della prova che le spese di cui si tratta facciano parte degli elementi costitutivi del prezzo per la totalità dei prodotti o dei servizi del soggetto passivo (Corte di Giust. 29 ottbre 2009, C-29/08, SKF, punto 57; Corte di Giust. 22 ottobre 2015, causa C-126/14, Sveda).

Per quanto riguarda l’infondatezza della pretesa fiscale, dedotta dalla ricorrente con la memoria difensiva, alla luce dello ius superveniens, questa Corte in un caso sostanzialmente analogo, riguardante operazioni soggettivamente inesistenti di cessione di rottami, soggette agli effetti dell’Iva ed al regime di reverse charge, ha enunciato il seguente principio di diritto: “in tema d’IVA, le operazioni di cessione compiute in regime d’inversione contabile (cd. “reverse charge”), ancorchè effettuate sotto l’apparente osservanza dei requisiti formali, sono indetraibili in caso di violazione degli obblighi sostanziali, ove venga meno la corrispondenza, anche soggettiva, dell’operazione fatturata con quella in concreto realizzata, con conseguente inesistenza dell’obbligo di corrispondere l’imposta indicata in fattura”(cfr. sentenza n. 16679 del 09/08/2016; Sez. 5, Ordinanza n. 2862 del 31/01/2019 Rv. 652333-01).

Anche nella vicenda in esame, sebbene non sia contestato che la società contribuente abbia regolarmente effettuato l’inversione contabile a suo carico e reso neutrali le operazioni, la mancanza dei presupposti sostanziali, relativamente alla prova dell’effettività ed inerenza dei costi, ove accertata, renderebbe indetraibile l’Iva ad essi relativa.

Nè vale invocare il principio di neutralità dell’Iva atteso che questo esige che la detrazione dell’Iva a monte sia accordata “se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti” (Corte di Giustizia, sentenza 8 maggio 2008, nei procedimenti riuniti C- 95/07 e C-96/07, Ecotrade, punto 63; v. anche sentenza 17 luglio 2014, in C-272/13, Equoland).

Il terzo motivo, dunque, va rigettato.

Passando all’esame della doglianza relativa al vizio motivazionale, la sua deduzione non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.

Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima (in riferimento alla previgente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile al caso di specie ratione temporis), può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (Cfr. Cass., Sez 5, ord. n. 19547/2017; sent. n. 17477/2007).

D’altronde costituisce principio altrettanto reiterato quello secondo cui la scelta degli elementi probatori e la valutazione di essi rientrano nella sfera di discrezionalità del giudice di merito, il quale non è tenuto a confutare dettagliatamente le singole argomentazioni svolte dalle parti su ciascuna delle risultanze probatorie, dovendo solo fornire un’esauriente e convincente motivazione sulla base degli elementi ritenuti più attendibili e pertinenti.

Nella fattispecie in esame, il giudice di appello non ha negato che i costi afferissero all’EOCSA, ma ha ritenuto indetraibile l’Iva sugli stessi, in quanto la società controllata italiana non ne aveva provato l’inerenza all’attività economica in concreto esercitata.

La ricorrente, nel lamentare l’insufficienza della motivazione adottata dal giudice di appello, che non ha esaminato analiticamente tutta la documentazione prodotta dalla società (contratto di condivisione dei costi, regolare fatturazione, certificata da primaria società di revisione, lista dei dipendenti in organico alla RHIT, vari prospetti dei costi ricadenti sulle singole società aderenti e ripartizione dei centri di servizi), non chiarisce la decisività della stessa ai fini della dimostrazione del nesso diretto tra i servizi oggetto dell’accordo e l’attività imprenditoriale esercitata.

Anche le mail intercorse tra la società ricorrente e ed il team IT del gruppo non assumono il carattere di decisività ai fini della prova dell’inerenza, trattandosi, per come riportato dalla stessa ricorrente, di corrispondenza meramente informativa su disservizi bancari o comunicazioni sulla sospensione temporanea delle attività del team, senza ulteriori specificazioni (vedi ricorso, pag. 278 e ss.).

4.1. Con il sesto motivo, la ricorrente denunzia la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., laddove non si è pronunciata sulla doglianza, avanzata dalla ricorrente in via subordinata nell’atto di appello, relativa all’illegittimità della pretesa erariale, in quanto erroneamente determinata.

4.2. Il motivo è inammissibile.

4.3. Con la censura in esame, la società si duole dell’omessa pronuncia sul motivo subordinato di appello relativo all’erronea determinazione dell’Iva detraibile, in quanto l’Ufficio avrebbe ritenuto che la doppia registrazione, effettuata dalla società nel registro acquisti e nel registro vendite, riguardasse la contemporanea annotazione di operazioni di acquisto ed operazioni attive, senza considerare che, invece, era dovuta al meccanismo, di cui si era avvalsa, del reverse charge.

Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, commi 5, 6, 7, 8 e 9, prevede il meccanismo dell’inversione contabile, in forza del quale gli obblighi relativi al versamento dell’Iva devono essere adempiuti dal soggetto che ha ricevuto la prestazione e non da colui che l’ha eseguita, in deroga alla procedura ordinaria di applicazione dell’imposta medesima.

In termini pratici, il reverse charge IVA rappresenta quel meccanismo tecnico contabile per effetto del quale il venditore emette fattura, senza addebitare l’imposta (come normalmente dovrebbe fare), e l’acquirente integra la fattura ricevuta con l’aliquota di riferimento per il tipo di operazione fatturata, procedendo, allo stesso tempo, con la duplice annotazione nel registro acquisti (fatture di acquisto) e nel registro vendite (fatture emesse).

La ricorrente, nel formulare la doglianza in esame, non specifica se la aveva avanzata fin dal ricorso introduttivo o solo in via subordinata in appello (come sembrerebbe dalla lettura del motivo di ricorso); pertanto, avendo la censura un evidente contenuto di novità, relativo alla contestazione dell’entità della detrazione sulla base dell’interpretazione della contabilità, essa è inammissibile.

5.1. Con il settimo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, comma 2, della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8, nonchè del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, comma 2-ter, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Secondo la ricorrente, il giudice di appello non avrebbe rilevato che sussisteva un’obiettiva situazione di incertezza in relazione al concetto di inerenza, riportato solo genericamente nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 e di non facile interpretazione.

Inoltre, la mancata produzione di una serie di documenti, la cui presentazione, ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, comma 2-ter, introdotto con il D.L. 31 maggio 2010 n. 78, art. 26, ha efficacia “scriminante” in materia di determinazione dei prezzi di trasferimento per operazioni con altre imprese del gruppo non residenti, non sarebbe rilevante nel caso di specie, sia perchè la norma in oggetto non ha efficacia retroattiva, sia perchè il meccanismo del transfer pricing non è applicabile in materia di Iva.

Con l’ottavo motivo, la ricorrente denunzia l’insufficiente motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in ordine ad un fatto decisivo e controverso, consistente nella sussistenza dell’errore incolpevole sul fatto di aver ritenuto di avvalersi di servizi indispensabili alla propria attività di impresa, sostenendo un contributo per la partecipazione all’EOCSA congruo rispetto ai vantaggi conseguiti.

4.2. I motivi, da trattare congiuntamente perchè connessi, sono infondati.

4.3. A mente del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, commi 1 e 2, “1. Se la violazione è conseguenza di errore sul fatto, l’agente non è responsabile quando l’errore non è determinato da colpa. (…) 2. Non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono, nonchè da indeterminatezza delle richieste di informazioni o dei modelli per la dichiarazione e per il pagamento”.

Come è stato detto, “in tema di responsabilità amministrativa tributaria, l’incertezza normativa oggettiva, che giustifichi l’esenzione del contribuente da detta responsabilità, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6 e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, richiede l’inevitabilità di detta condizione, tale da consistere in un’oggettiva impossibilità, accertabile esclusivamente dal giudice, d’individuare la norma giuridica in cui sussumere il caso di specie” (Cassazione civile sez. VI, 22/10/2018, n. 26582).

Nel caso in esame, la parte che invoca la disapplicazione della sanzione non ha dedotto, nè dimostrato, l’incertezza normativa oggettiva, intesa come incertezza inevitabile sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della disposizione tributaria, che giustifichi l’esenzione del contribuente da detta.

Nè, con il settimo motivo, la ricorrente deduce un errore sul fatto, rilevante ai sensi del citato art. 6, comma 1, limitandosi ad affermare l’assenza di colpa in relazione all’errata interpretazione della normativa in oggetto.

Tuttavia, deve rilevarsi che, in relazione al profilo sanzionatorio, la sentenza impugnata va comunque cassata e rinviata alla C.t.r. della Lombardia, in diversa composizione, che dovrà eventualmente valutare l’applicabilità dei più favorevoli trattamenti fiscali sanzionatori introdotti dallo ius superveniens in materia di infedele dichiarazione ed indebita detrazione Iva ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 5, comma 4, e art. 6, comma 6, primo periodo, come modificati dal D.Lgs. 24 settembre 2015 n. 158, norme invocate dalla ricorrente con la memoria e, comunque, applicabili retroattivamente anche d’ufficio, nel rispetto del principio del favor rei, in ogni stato e grado del giudizio (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 8243 del 31/03/2008, Rv. 602524-01, secondo cui ai sensi del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, che ha esteso il principio del “favor rei” anche al settore tributario, sancendone l’applicazione retroattiva, le più favorevoli norme sanzionatorie sopravvenute debbono essere applicate, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, e quindi anche in sede di legittimità, all’unica condizione che il provvedimento sanzionatorio non sia divenuto definitivo; nello stesso senso cfr. Sez. 5, Sentenza n. 23564 del 20/12/2012, Rv. 624738-01).

La C.t.r. in sede di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta i motivi di ricorso dal primo al sesto; pronunciando sul settimo e sull’ottavo, cassa la sentenza impugnata nei sensi di cui in motivazione e rinvia alla C.t.r. della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020

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