Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3590 del 14/02/2011

Cassazione civile sez. lav., 14/02/2011, (ud. 23/11/2010, dep. 14/02/2011), n.3590

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3296-2007 proposto da:

C.O., + ALTRI OMESSI

elettivamente domiciliati in Roma, via

Cosseria n. 2, presso lo studio dell’avv. Aiello Filippo, che li

rappresenta e difende assieme agli avvocati Cappelleri Mario e

Faranda Riccardo per procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CISIM FOOD S.p.a. in liquidazione ed amministrazione straordinaria,

in persona dei Commissari straordinari, elettivamente domiciliata in

Roma, via del Corso n. 160, presso lo studio dell’avv. Alessandrini

Raffaello, che la rappresenta e difende per procura speciale

autenticata dal Notaio Giuliani di Roma, rep. 55962 del 30.9.2010;

– controricorrente –

nonchè

sul ricorso 4099-2007 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in Roma, via della

Giuliana n. 70, presso lo studio dell’avv. Massatani Maurizio, che lo

rappresenta per procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CISIM FOOD S.p.a. in liquidazione, in persona del liquidatore,

elettivamente domiciliata in Roma, via del Corso n. 160, presso lo

studio dell’avv. Raffaello Alessandrini, che la rappresenta e difende

per procura in calce al controricorso e procura notarile;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7298/2004 della Corte d’appello di Roma,

Sezione Lavoro, depositata in data 23/01/2006; Rg. 3466/2001;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

giorno 23.11.2010 dal Consigliere dott. Giovanni Mammone;

uditi gli avvocati Aiello ed Alessandrini;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

Fucci Costantino che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Con ricorso al giudice del lavoro di Roma, M.M., + ALTRI OMESSI già dipendenti di CISIM Food spa, gerente del servizio di ristorazione e di rivendita tabacchi nell’Aeroporto di Roma Fiumicino, impugnavano il licenziamento per giusta causa loro irrogato in data 21.10.99 da detto datore, che li accusava di non aver rilasciato in più occasioni lo scontrino di cassa alla clientela.

1- Rigettata la domanda, tutti proponevano appello, con separati atti, M. e Ma., in unico contesto tutti gli altri.

Riuniti i ricorsi, la Corte d’appello di Roma con sentenza pubblicata il 23.1.06 rigettava l’impugnazione.

Premesso che gli addebiti ascritti ai lavoratori erano stati rilevati da personale ispettivo dipendente da un’agenzia (Lodges Services) appositamente incaricata dal datore di lavoro e che detto personale in istruttoria aveva confermato il contenuto degli accertamenti effettuati, la Corte d’appello descriveva le modalità operative adottate da costoro (consistenti nel presentarsi agli operatori per procedere al pagamento della merce acquistata e nel redigere e sottoscrivere immediatamente un rapporto circa le irregolarità riscontrate, ripetendo l’operazione più volte nel caso di accertate mancanze) ed escludeva che le indagini fossero preordinate a colpire singoli dipendenti, dato che i controlli erano stati eseguiti su tutto il personale.

Tali accertamenti erano effettuati nel rispetto degli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori, i quali non precludono al datore di lavoro di ricorrere o ad un’agenzia investigativa terza o a proprio personale dipendente per accertare eventuali mancanze dei dipendenti e tutelare i propri interessi. Nella specie gli accertamenti erano stati diretti all’accertamento di atti illeciti del personale e non di meri inadempimenti contrattuali, atteso che le violazioni riscontrate davano luogo a veri e propri illeciti penali e fiscali.

Tale circostanza assegnava anche terzietà alla posizione di detto personale ispettivo ed escludeva ogni sua incapacità a testimoniare.

Quanto all’obiezione che il datore avesse omesso di comunicare i motivi del licenziamento nei quindici giorni successivi alla richiesta, il giudice rilevava che le ragioni del recesso erano indicate nella lettera di licenziamento, in maniera da soddisfare fin da subito l’esigenza di conoscenza dei lavoratori interessati, di tal che era superflua l’indicazione ulteriore di tali ragioni.

Escluso che il datore, pur avendo contestato la mancata registrazione delle operazioni di cassa e la mancata consegna dello scontrino fiscale, nella lettera di licenziamento avesse poi ascritto le violazioni al fine di trarre una utilità personale, la Corte d’appello rilevava la volontarietà dei comportamenti dei dipendenti, che non risultavano determinati da errore nè risultavano articolati casualmente, e considerata la gravità del comportamento sia per l’alterazione del rapporto fiduciario, sia per le conseguenze di ordine economico e fiscali derivati al datore, riteneva proporzionato il provvedimento espulsivo.

3.- Avverso questa sentenza proponevano ricorso per cassazione con unica difesa C., + ALTRI OMESSI (ricorso n. 3296/07 r.g.), mentre M. impugnava con atto separato (ricorso n. 4099/07 r.g.).

Rispondeva in entrambi i casi con controricorso CISIM Food s.p.a..

Tutte le parti, con esclusione di M., hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

4.- Preliminarmente i due ricorsi vanno riuniti ex art. 335 c.p.c., essendo rivolti contro la stessa sentenza.

5.- Ricorso C. ed altri (3296/07 r.g.):

5.1.- Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione della L. n. 604 del 1966, art. 2, sostenendo l’inefficacia del licenziamento, non avendo il datore assolto all’obbligo di comunicare i motivi del licenziamento ai lavoratori che ne avevano fatto richiesta, non potendo l’onere di legge ritenersi assolto con la lettera di licenziamento, che è atto antecedente alla richiesta dei motivi.

Il motivo non è fondato.

La giurisprudenza di questa Corte ritiene che l’obbligo del datore di lavoro di comunicare i motivi del licenziamento al lavoratore che ne faccia richiesta entro quindici giorni dalla comunicazione (previsto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 2, comma 2) presuppone che i suddetti motivi non siano stati portati a conoscenza del dipendente in precedenza; mentre, nel caso vi sia stata una precedente contestazione disciplinare dei fatti che hanno poi determinato il licenziamento, essa di per sè assolve all’onere di indicazione dei motivi del licenziamento (Cass. 14.1.03 n. 454, 20.3.91 n. 2963, 14.2.90 n. 1073). A fronte della contestazione il lavoratore può chiedere l’ulteriore specificazione dei motivi, ove non li ritenga sufficientemente precisati, solo all’interno del procedimento disciplinare che si apre con la contestazione, senza che sia configurabile un obbligo del datore di lavoro di rispondere ad una diversa richiesta di motivi, esterna a tale procedimento (Cass. n. 454 del 2003 citata).

Un orientamento più rigoroso (richiamato dai ricorrenti nella loro difesa) ritiene che l’obbligo di comunicazione dei motivi comunque sussiste nel caso in cui la contestazione dell’addebito disciplinare, avvenuta prima del recesso, non venga richiamata dalla lettera di licenziamento (Cass. 5.3.97 n. 1933).

La giurisprudenza, pienamente condivisa dal Collegio, ritiene dunque che ove il licenziamento sia intimato all’esito di un procedimento disciplinare ex art. 7 statuto lavoratori, la puntuale enunciazione dei motivi, tanto nella lettera di contestazione, tanto nella lettera di licenziamento, soddisfa la ratto e la funzione della L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 2.

Il giudice di merito si è attenuto a questo principio. Dalla sentenza impugnata risulta, infatti, che il datore di lavoro nella lettera di licenziamento, anche con richiamo della precedente contestazione scritta degli addebiti, specificò i motivi del recesso “rappresentati dalla violazione delle procedure di cassa e dei doveri fondamentali assunti dal lavoratore, al fine di trame utilità personale, in danno degli interessi della società, anche sotto il profilo dell’esposizione a grave rischio fiscale, conseguente all’aver incassato corrispettivi di vendita senza emettere il relativo documento fiscale”.

Tale accertamento, non contestato in punto di fatto, è sufficiente a ritenere che il datore abbia reso noti ai dipendenti licenziati i motivi del recesso nei termini richiesti dalla menzionata giurisprudenza e che correttamente il giudice di merito sia giunto alla conclusione che una nuova indicazione dei motivi in risposta alla richiesta avanzata dalla controparte sarebbe stata una ripetizione formale che nulla avrebbe aggiunto alle garanzie di difesa apprestate dalla legge a favore del lavoratore licenziato.

5.2.- Con il secondo motivo è dedotta carenza di motivazione a proposito della denunziata illegittimità dei controlli a mezzo di agenzia investigativa, sostenendosi l’inattendibilità degli ispettori e l’inutilizzabilità della loro testimonianza, dovendo le loro dichiarazioni ritenersi compiacenti in quanto emesse a pagamento.

Inoltre, sarebbero violati gli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori che, secondo l’interpretazione accreditata dalla C.S., escludono il ricorso alle agenzie investigative nel caso che l’illecito del lavoratore costituisca mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale, come nel caso di specie verificatosi, atteso che ai dipendenti era ascritto non un atto illecito (quale l’appropriazione indebita) ma l’esecuzione in maniera non corretta delle operazioni di cassa, in violazione dell’apposito regolamento aziendale. In particolare, si rivelerebbe contraddittoria l’affermazione del giudice che il controllo degli ispettori avrebbe avuto ad oggetto il comportamento illecito dei dipendenti, atteso che in altra parte della motivazione ammette che “il fine personale” perseguito dai lavoratori non era stato oggetto di contestazione.

Il motivo è infondato.

Al riguardo deve precisarsi che le norme degli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori delimitano la sfera di intervento delle persone preposte dal datore di lavoro a difesa dei suoi interessi, ma non escludono il potere dell’imprenditore, ai sensi degli artt. 2086 e 2104 c.c., di controllare direttamente o mediante la propria organizzazione gerarchica l’adempimento delle prestazioni lavorative e quindi di accertare mancanze specifiche dei dipendenti, già commesse o in corso di esecuzione, e ciò indipendentemente dalle modalità del controllo, che può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino nè il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, nè il divieto di cui all’art. 4 dello stesso statuto, riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (non applicabile analogicamente, siccome penalmente sanzionato). Le previsioni delle suddette norme sono state, pertanto, ritenute estranee agli accertamenti operati dall’imprenditore attraverso agenti investigatori incaricati di controllare, durante l’orario di lavoro, se il dipendente aveva omesso di registrare gli acquisti fatti dai clienti di un supermercato e di rilasciare lo scontrino fiscale (Cass. 12.6.02 n. 8388 cui adde più di recente Cass. 10.7.2009 n. 16193).

Tali principi sono ripetutamente richiamati dalla giurisprudenza di questa Corte proprio in relazione a fattispecie di mancata registrazione della vendita da parte dell’addetto alla cassa di esercizio commerciale (v. solo da ultima Cass. 9.7.08 n. 18821).

Deve al riguardo disattendersi la tesi sostenuta dai ricorrenti che nella specie l’intervento di detto personale ispettivo sarebbe stato illegittimo, essendo stati essi chiamati ad indagare su una mera violazione degli obblighi riconnessi alla prestazione lavorativa, discutendosi solo dell’esecuzione non corretta delle operazioni di incasso e non anche di un “atto illecito” del lavoratore diverso dall’inadempimento contrattuale.

Come già rilevato, le disposizioni dell’art. 2 dello statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purchè queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata dall’art. 3, dello statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. Tuttavia, a giustificare l’intervento in questione è necessaria non l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma solo il sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. la già citata sentenza n. 18821 del 2008).

Sostanzialmente negli stessi termini si esprime la stessa giurisprudenza citata a proprio favore dai ricorrenti, la quale riafferma che l’art. 3 dello statuto impone al datore di lavoro di comunicare ai lavoratori i nominativi e le mansioni specifiche del personale addetto alla vigilanza dell’attività lavorativa e vieta ogni forma di controllo occulto intesa ad accertare la trasgressione degli obblighi di diligenza del lavoratore (art. 2104 c.c.), ma precisa anche che il principio non trova applicazione nelle ipotesi di anche solamente eventuale realizzazione da parte dei lavoratori di comportamenti illeciti esulanti dalla normale attività lavorativa pur se commessi nel corso della stessa (Cass. 18.9.95 n. 9836).

In ogni caso, il giudice di merito ha posto in evidenza che l’accertamento del personale ispettivo aveva ad oggetto comportamenti dei dipendenti non casuali o episodici, ma ripetitivi e distribuiti in un breve arco temporale, ponendo in risalto il grave pregiudizio cui gli stessi esponevano il datore di lavoro per le gravi conseguenze fiscali che avrebbero potuto derivare dal loro comportamento.

Quanto alle censure di inattendibilità delle testimonianze rese da detto personale ispettivo, il giudice ha svolto una analitica verifica dell’attività di accertamento dallo stesso svolta, mettendola a confronto con le dichiarazioni rese dai singoli ispettori; trattasi di valutazione di risultanze probatorie e di giudizio sull’attendibilità dei testi che involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, che, in quanto congruamente motivati, non sono censurabili in sede di legittimità.

5.3.- Con il terzo motivo i ricorrenti deducono carenza di motivazione anche a proposito del giudizio di proporzionalità della sanzione espulsiva in relazione al fatto addebitato, sostenendo che il giudice di merito non avrebbe preso in esame la possibilità di irrogare una sanzione conservativa prima del licenziamento. Ai fini di tale giudizio, la stessa giurisprudenza di legittimità avrebbe, infatti, ritenuto ininfluente la circostanza che al datore potessero derivare conseguenze sul piano fiscale dal mancato rilascio degli scontrini.

In ogni caso le istruzioni indirizzate dal datore agli operatori qualificavano “infrazione gravissima” la consegna dello scontrino a cliente diverso da quello che ha dato luogo all’operazione di cassa, di modo che i comportamenti ascritti nel caso di specie, in cui tale fattispecie non è integrata, sarebbero ad avviso della stessa convenuta di minore gravità e, come tali, non punibili con il licenziamento, che costituisce la sanzione massima.

Anche questo terzo motivo è infondato, atteso che il giudice di merito ha ampiamente motivato, in termini congrui e logicamente articolati, circa la sussistenza della giusta causa di licenziamento, ponendo in risalto come per l’addetto alla vendita l’incasso di somme – non accidentale e reiterato – senza la relativa registrazione e l’emissione del documento fiscale costituisca un irreparabile alterazione del rapporto fiduciario tra datore e lavoratore.

Tale valutazione assorbe anche il profilo di carenza di motivazione attinente alla mancata considerazione delle istruzioni di servizio fornite dal datore, avendo il giudice di merito ritenuto del tutto prevalente al fine della gravità della violazione la rilevata circostanza dell’incasso senza registrazione.

6.- Ricorso M. (4099/07):

6.1.- Con il primo motivo è dedotta carenza di motivazione per l’erronea valutazione delle prove da parte del giudice di merito.

Dalla querela penale proposta da CISIM Food contro M., cui erano state contestate solamente due violazioni, compiute nelle date 14.9 e 12.10.99, risultava che in occasione del secondo episodio il dipendente per il particolare aggravio di lavoro non aveva registrato l’incasso di alcuni importi ed aveva proceduto alla registrazione di più operazioni in unico contesto, su indicazione del proprio diretto superiore (tale G.). La circostanza risulterebbe dalla querela in questione, che è stata prodotta in giudizio e che invece il giudice ammette di non aver preso in considerazione, affermando che “non risulta … da nessun atto processuale quanto dichiarato nel ricorso in appello, secondo cui … il M. avrebbe fatto presente … che le somme relative a tali contestazioni erano state versate alla presenza del suo diretto superiore G.”.

E’ contestata, inoltre, l’interpretazione data dal giudice alle dichiarazioni del G.. Costui aveva dichiarato che in occasione di un controllo dei capi servizio aveva ordinato al M. di registrare l’importo di L. 28.000 corrispondente alla somma degli importi lasciali dalla clientela sul tavoli senza passare per la cassa; in occasione della verifica effettuata in data 12.10.99 era risultato, inoltre, che alla cassa era stato registrato un importo di L. 38.000.

Dovrebbe trarsene la conclusione che il M., oberato di lavoro per la concomitante attribuzione di più compiti, non avesse potuto registrare immediatamente gli importi lasciati dalla clientela (in realtà dal personale investigativo dell’agenzia) sul tavolo e che il M. stesso, resosi conto della situazione, avesse chiesto disposizioni sul da farsi al suo superiore che gli aveva ordinato di procedere all’immediata registrazione degli importi. La differenza tra la registrazione di L. 38.000 risultante in cassa e la somma di L. 28.000 menzionata dal teste sarebbe frutto di un lapsus e non anche l’indizio dell’esistenza di un ulteriore episodio non fatto oggetto di contestazione, secondo quanto ritenuto in sentenza.

Il motivo è inammissibile per due ordini di motivi.

Per quanto riguarda la pretesa omessa considerazione del contenuto della querela presentata all’A.g. dal datore di lavoro nei confronti del M. (di cui è riportato solo un brevissimo stralcio a pg.

6 del ricorso) manca ogni riferimento di carattere testuale e temporale, non essendo precisato come e quando detto atto sia entrato nel processo civile e quale sia il suo contenuto. Il Collegio, quindi, non è in grado di valutare la tempestività e la decisività del documento.

Quanto alla valutazione della testimonianza G., il giudice di merito ha disatteso l’interpretazione suggerita dall’appellante M. rilevando come l’esistenza di una registrazione di cassa per L. 28.000 non avesse valore scriminante, atteso che il teste riferiva di un episodio verificatosi in occasione del controllo di un capo servizio (e non di personale ispettivo esterno) e che gli addebiti contestati al dipendente si riferivano a mancate registrazioni di L. 14.800 e L. 19.500.

Tali valutazioni sono logicamente articolate e non vengono scalfite sul piano della congruità motivazionale dalle censure del ricorrente, che si limita a proporre una diversa (ed in verità confusa) lettura della testimonianza. Un elemento di illogicità viene, anzi, introdotto dallo stesso ricorrente il quale non essendo in grado di spiegare per quale motivo nella giornata della verifica del personale ispettivo esterno (il 12.10.99) risultasse una registrazione di L. 38.000 e non di L. 28.000, è stato costretto a sostenere che il teste sarebbe incorso in un lapsus, dato che ricordava l’episodio ma non l’importo esatto del versamento.

Il motivo costituisce, dunque, solo una censura della valutazione del giudice di merito che, in quanto correttamente articolata, è incensurabile in sede di legittimità.

6.2.- Con il secondo motivo è dedotta violazione dell’art. 2106 c.c. a proposito del giudizio di proporzionalità tra il comportamento ascritto e la sanzione irrogata.

Parte ricorrente fa riferimento alla giurisprudenza di legittimità che con riferimento alla fattispecie della mancata emissione di scontrini fiscali da parte del dipendente riterrebbe legittimo il licenziamento solo in presenza di un fine di appropriazione indebita, che nella specie non è neppure contestato. Anzi, la modestia degli addebiti (solo due episodi, a fronte di una irreprensibile servizio di 26 anni) avrebbe dovuto spingere la Corte d’appello a distinguere la posizione del M., senza confondere il suo comportamento nelle considerazioni generaliste effettuate a proposito della caduta del rapporto fiduciario tra datore e dipendente nella situazione in oggetto.

Per questo motivo può richiamarsi la trattazione effettuata sub 5.3 a proposito dell’analogo motivo proposto dagli altri ricorrenti, con la precisazione che le valutazioni in punto di caduta dell’elemento fiduciario non possono essere considerate generaliste o generiche, atteso che il M., al pari degli altri dipendenti aveva il compito del maneggio del denaro e che sull’infedele adempimento del compito stesso è correttamente puntata la valutazione del profilo di proporzionalità del Collegio di merito.

6.3.- Con il terzo motivo è dedotta violazione della L. n. 604 del 1966, art. 2 per non avere il datore ottemperato alla richiesta di indicare i motivi del licenziamento, nonchè violazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. per violazione dell’obbligo di correttezza e buona fede nell’ambito del rapporto azienda-dipendente.

Avendo il datore di lavoro menzionato solo nella lettera di licenziamento che il comportamento ascritto aveva come scopo quello dell’utilità personale del dipendente, avrebbe errato il giudice di merito a non ritenere violato il principio dell’immutabilità della contestazione, ritenendo il richiamo all’utilità personale “circostanza confermativa della significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento al fine della valutazione della complessiva gravità sotto il profilo psicologico delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del provvedimento sanzionatorio”. Trattasi, infatti, di un elemento di fatto nuovo, che muta radicalmente la valutazione del comportamento del dipendente, atteso che solo se finalizzata alla appropriazione indebita la mancata emissione degli scontrini legittima il licenziamento.

Il motivo è infondato.

Mentre per quel che riguarda la violazione della L. n. 604, art. 2, comma 2, può richiamarsi quanto già illustrato sub 5.1, in sede di esame del primo motivo degli altri ricorrenti, per quanto riguarda la pretesa violazione del principio dell’immutabilità della contestazione, deve rilevarsi che sul punto il ricorso è carente di autosufficienza, non essendo precisato quali siano i termini della differenziazione tra la motivazione del recesso (contenuta nella lettera di licenziamento) e la contestazione degli addebiti (contenuta nella lettera di contestazione).

Il ogni caso il motivo in questione è basato su una lettura della sentenza impugnata non corretta.

Il giudice di appello, infatti, non solo nel riassumere i motivi del recesso (v. anche sub 5.1) non menziona il preteso interesse personale che si assume intempestivamente contestato, ma da per scontato che il licenziamento non possa essere irrogato per addebiti diversi da quelli oggetto della contestazione, solo ritenendo corretta l’evidenziazione in questa sede di circostanze rilevanti ai fini della illustrazione del profilo psicologico del comportamento ed ai fini della proporzione del provvedimento espulsivo. Ed infatti, dopo questa premessa lo stesso giudice non prende in considerazione affatto l’esistenza di un scopo di appropriazione delle somme per utilità personale del dipendente, ma considera solo dati oggettivi quali la non casualità o episodicità dei comportamenti, nonchè la loro ripetitività e distribuzione in un breve arco temporale.

La circostanza dedotta, quand’anche esistente, sarebbe pertanto ininfluente.

7.- I due ricorsi, in conclusione, sono infondati e debbono essere rigettati.

Le spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Condanna i ricorrenti alle spese, che liquida in Euro 39,00 per esborsi ed Euro 5.000 (cinquemila) per onorari con riferimento al ricorso n. 3296/07 r.g.

ed in Euro 39,00 per esborsi ed Euro 2.000 (duemila) per onorari con riferimento al ricorso n. 4099/07 r.g., oltre spese generali, Iva e Cpa in entrambi i casi.

Così deciso in Roma, il 23 novembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2011

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