Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3587 del 14/02/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 3587 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: CARRATO ALDO

SENTENZA
sul ricorso 431-2013 proposto da:
SARDELLITTI FABIO SRDFBA73S25E340A, PALOMBO
LORELLA PMLLLL74A51E340X, eieuivamente domiciliati in
ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268/A, presso lo studio
dell’avvocato NIANDRA’ LIDIA, rappresentati e difesi dall’avvocato
BRUNO FORTE giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrenti contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587,in persona del
e

Ministro in carica, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

Data pubblicazione: 14/02/2014

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –

avverso il decreto n. 1460/2009 V.G. della CORTE D’APPELLO di

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/01/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ALDO CARRATO.

Ric. 2013 n. 00431 sez. M2 – ud. 09-01-2014
-2-

PERUGIA del 12/12/2011, depositato il 04/05/2012;

Ritenuto in fatto

I sigg. Sardellitti Fabio e Palombo Lorella chiedevano alla Corte d’appello di Perugia,
con ricorso depositato il 30 dicembre 2009, il riconoscimento dell’equa riparazione, ai
sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, per la irragionevole durata di un giudizio

Cassino — sez. dist. di Sora, definito in primo grado con sentenza depositata il 18
gennaio 2005 e pendente in grado di appello all’atto della proposizione del ricorso,
invocando, la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni non
patrimoniali subiti per la irragionevole durata complessiva del predetto giudizio.
Nella costituzione del resistente Ministero, l’adita Corte di appello, con decreto
depositato il 4 maggio 2012, rigettava la domanda sul presupposto che il giudizio
presupposto non aveva superato la durata ragionevole, condannando i ricorrenti alla
rifusione delle spese giudiziali.
Avverso il suddetto decreto (non notificato) hanno proposto ricorso per cassazione I
sigg. Sardellitti Fabio e Palombo Lorella con atto notificato il 19 dicembre 2012, sulla
base di due motivi. L’intimato Ministero si è costituto con controricorso.
Considerato in diritto

1. In via preliminare, il Collegio rileva che non è di ostacolo alla trattazione del ricorso
la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della
Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’art. 70, secondo comma, c.p.c., quale risultante dalle modifiche introdotte
dall’art. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico ministero «deve intervenire
nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge». A sua volta

l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall’art. 81 del citato decreto-

civile (iniziato con ricorso depositato in data 8 giugno 2004) dinanzi al Tribunale di

legge n 69, al primo comma dispone che «Il pubblico ministero presso la Corte di
cassazione interviene e conclude: a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze
dinanzi alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici
della Corte di cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla

civile». L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita
sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di
consiglio».

Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante dalla legge
di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo comma, la sostituzione
dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e la modificazione degli artt. 380-bis,
secondo comma, e 390, primo comma, del medesimo codice, per adeguare la
disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della partecipazione del pubblico
ministero alle udienze che si tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo
comma, al secondo comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente
articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di
fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire
dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.

Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto nell’art. 75, comma 2,
citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’ari.
376, primo comma, c.p.c.), consenta di ritenere, non solo, che la detta sezione è
abilitata a tenere pubbliche udienze e non solo adunanze camerali, ma anche che
alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la

– 4 –

sezione di cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura

partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facoltà
dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70, terzo comma,
c.p.c., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato adottato in

ritualmente celebrata senza la partecipazione del rappresentante della Procura
generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia
integrale del ruolo di udienza era stata trasmessa, ravvisato un interesse pubblico
che giustificasse la propria partecipazione ai sensi del citato art. 70, terzo comma,
c.p.c. .
2. Ciò posto, si rileva che con il primo complesso motivo dedotto i ricorrenti hanno
denunciato (ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.) la violazione e/o falsa
applicazione degli artt. 2, comma 2, e 4 della legge n. 89 del 2001, nonché degli arti.
6, 13 e 41 della C.E.D.U., congiuntamente al vizio di errata, contraddittoria ed illogica
motivazione, con riferimento — in funzione della determinazione della durata
complessiva del giudizio presupposto – alla ritenuta natura non complessa di
quest’ultimo ed al mancato computo, in proposito, dell’ulteriore periodo di durata del
giudizio in appello, computato in due anni, a decorrere dalla proposizione del ricorso
per equa riparazione fino alla data dell’udienza di assunzione in decisione della
causa.
3. Con il secondo complesso motivo proposto i ricorrenti hanno prospettato la
supposta violazione degli artt. 117 e 111 Cost., degli artt. 6, 13, 17 e 41 della
C.E.D.U., oltre che degli artt. 2, comma 1 e 3, della legge n. 89 del 2001, avuto
riguardo alla determinazione della irragionevole durata del giudizio presupposto.

data 25 settembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza pubblica è stata

4. Rileva il collegio che i due riportati motivi — esaminabili congiuntamente in virtù
della loro stretta connessione — sono infondati e vanno, perciò, rigettati, avendo la
Corte di appello correttamente ritenuto che il giudizio possessorio presupposto non
fosse particolarmente complesso e che, per la determinazione della durata

il momento del deposito del ricorso per equa riparazione (avvenuto in pendenza del
grado di appello) e quello in cui la causa era stata assunta in decisione in appello,
oltre a conformarsi ai parametri individuati dalla giurisprudenza di questa Corte ai
precisati fini.
Infatti, la Corte perugina ha esattamente applicato il principio (v., a tal proposito,
Cass. n. 19352 del 2005 e, da ultimo, Cass. n. 8547 del 2011) secondo cui, in tema
di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del
processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, ove la relativa domanda sia
proposta durante la pendenza del processo presupposto (nella specie, in grado
di appello) il giudice deve prendere in considerazione, ai fini della valutazione
della ragionevolezza della durata di detto processo, il solo periodo
intercorrente tra il suo promovimento e la proposizione del ricorso per equa
riparazione, non potendo considerare altresì l’ulteriore ritardo, futuro ed
incerto, suscettibile di maturazione nel prosieguo del primo processo. Invero,
tale valutazione prognostica è esclusa dalla lettera dell’art. 2 della legge cit.,
che si riferisce ad un evento lesivo storicamente già verificatosi e dunque
certo, mentre a sua volta l’art. 4, permettendo l’esercizio dell’azione anche in
pendenza del processo presupposto, come nella specie avvenuto, delimita
l’ambito del pregiudizio, anticipando la liquidazione per ogni violazione già

complessiva dello stesso, non fosse computabile l’intervallo temporale intercorso tra

integrata, e fa implicitamente salva la facoltà di proporre altra domanda in caso
di eventuale ritardo ulteriore.
In altri termini, in materia di equa riparazione per violazione del termine ragionevole
di durata del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, ove la relativa

dell’equa riparazione deve prendere in considerazione, ai fini della valutazione della
ragionevolezza della durata di detto processo, il solo periodo intercorrente tra il
promovimento del processo stesso e la proposizione del ricorso per equa
riparazione, non potendo egli compiere una valutazione prognostica in ordine ai
successivi sviluppi del giudizio di cui si tratta, i quali restano incerti, oltre che con
riferimento all’esito (irrilevante), anche in ordine ai tempi di svolgimento.
Pertanto, sulla scorta di questa corretta impostazione giuridica, la Corte territoriale ha
ritenuto che dal momento dell’introduzione del giudizio possessorio (di norma, di
agevole cognizione e definizione, senza che, nella specie, i ricorrenti avessero
riscontrato, in concreto, il suo carattere complesso), avvenuta con il deposito del
ricorso in data 8 giugno 2004, e fino al momento dell’instaurazione del giudizio per
equa riparazione (intervenuta, in pendenza dell’appello, con il deposito del relativo
ricorso in data 30 dicembre 2009), erano trascorsi cinque anni e sei mesi, dalla cui
durata scomputare l’intervallo temporale di un anno (non contestato) imputabile ad
inerzia delle parti, con conseguente determinazione della durata effettiva da valutare
in funzione dell’equa riparazione in quella di anni quattro e mesi sei.
Alla stregua di tale percorso argomentativo e dell’applicazione dei pacifici parametri
di calcolo della durata ritenuta ragionevole del giudizio in primo grado e in grado di
appello (corrispondente, rispettivamente, a quella di tre e due anni), per complessivi
cinque anni, la Corte umbra è pervenuta alla statuizione finale di rigetto del ricorso

– 7 –

domanda sia proposta durante la pendenza del processo presupposto, il giudice

per equa riparazione in base al giusto convincimento che il giudizio presupposto (fino
al momento di deposito del ricorso ex art. 2 della legge n. 89 del 2001) aveva avuto
una durata inferiore a quella considerata ragionevole.
5. In definitiva, sulla scorta delle ragioni esposte, deve pervenirsi al rigetto integrale

pagamento delle spese giudiziali, liquidate come in dispositivo.

PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in via fra loro solidale, al pagamento
dei compensi del presente giudizio, liquidati in complessivi euro 292,50, oltre
eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte
suprema di Cassazione, in data 9 gennaio 2014.

del ricorso, a cui consegue la condanna dei soccombenti ricorrenti, in via solidale, al

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