Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3586 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/02/2020, (ud. 10/10/2019, dep. 13/02/2020), n.3586

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. CENICCOLA Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10416-2014 proposto da:

ADDA IMMOBILIARE SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DELLA GIULIANA 32,

presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE FISCHIONI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUIGI FERRAJOLI giusta

delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 150/2014 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

BRESCIA, depositata il 13/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/10/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

IMMACOLATA ZENO che ha concluso per il rigetto del 1^ e 2^ motivo e

questione preliminare;

udito per il ricorrente l’Avvocato FERRAJOLI che ha chiesto la

cassazione senza rinvio.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La ADDA Immobiliare s.r.l. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 150/67/14, depositata il 13.01.2014 dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. staccata di Brescia, che, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rigettato il ricorso introduttivo della società avverso l’avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle Finanze aveva recuperato ad imponibile, ai fini Ires e Irap per i periodi d’imposta 2004 e 2005, costi ritenuti indeducibili ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 bis, così chiedendo alla contribuente il pagamento di Euro 29.066.492,47 per il 2004 e di Euro 7.853.038,30 per il 2005, a titolo di imposte, interessi e sanzioni.

Ha rappresentato che l’atto impositivo trovava genesi in un controllo della G.d.F. nel corso del quale i verificatori, rifacendosi ai risultati di indagini penali degli uffici giudiziari di Bergamo, avevano contestato l’indebita deduzione dei costi di acquisto di rottami ferrosi dalla C.M.P.S. s.r.l., riconducibili ad attività illecita per reati di traffico di rifiuti di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 53 bis, all’epoca vigente.

Nel contenzioso fiscale seguitone la Commissione tributaria provinciale di Bergamo aveva accolto il ricorso. L’Amministrazione finanziaria aveva proposto appello, accolto dalla Commissione tributaria regionale con la pronuncia ora al vaglio della Corte. I giudici d’appello avevano ritenuto che le emergenze delle indagini e dei provvedimenti penali emessi in sede cautelare consentivano di qualificare come “rifiuti” il materiale ferroso commercializzato, ritenendo coinvolta la Adda Immobiliare nella condotta penalmente rilevante, ed avevano sostenuto che i costi dovessero considerarsi direttamente utilizzati, secondo la nuova formulazione dell’art. 14 cit., per il traffico dei rifiuti.

La ricorrente ha censurato la sentenza con due motivi:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, artt. 6, 7, 10,12,15, 18, 30, 51 e 53 bis, della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per l’erronea qualificazione come rifiuti del materiale ferroso commercializzato;

con il secondo per violazione e falsa applicazione della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 bis, come modificato dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1 e 3, conv. in L. n. 44 del 26 aprile 2012, nonchè dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente sostenuto l’applicabilità al caso di specie dell’art. 14, pur dopo le modifiche apportate alla norma.

Ha sollevato inoltre questione di illegittimità costituzionale dell’art. 14 cit., per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 27Cost., comma 2, dell’art. 53 Cost., sotto il profilo della prevista indeducibilità dei costi anche senza che il reato sia stato accertato con sentenza definitiva, nonchè in riferimento al principio di capacità contributiva.

Ha chiesto pertanto in via preliminare di sollevare questione di legittimità costituzionale della disciplina, con sospensione del giudizio in corso; nel merito la cassazione della sentenza per l’accoglimento dei motivi di ricorso.

L’Agenzia non si è costituita nonostante risulti la rituale notifica del ricorso.

Alla pubblica udienza del 10 ottobre 2019, dopo la discussione, il P.G e la parte presente hanno concluso e la causa è stata trattenuta in decisione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

I due motivi possono essere trattati congiuntamente, per la loro connessione, atteso che con il primo si pone in discussione la qualificazione della condotta della società, se rientrante o meno cioè nella fattispecie penale prevista dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 53 bis, con conseguenti riflessi sulla indeducibilità dei costi ai sensi della L. n. 537 del 1993; art. 14, comma 4 bis, con il secondo si contesta che comunque l’art. 14 cit., come modificato dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, commi 1 e 3, conv. in L. n. 44 del 2012, sarebbe inapplicabile al caso di specie.

Entrambi sono infondati.

La critica principalmente rivolta con il primo motivo di ricorso mira a contestare la natura di “rifiuto” del materiale ferroso. A tal fine la difesa ricostruisce la fattispecie giuridica mediante la normativa all’epoca vigente, ed in particolare, volgendo l’attenzione sul significato del termine “disfarsi” del materiale e dei sintagmi “abbia deciso” e “abbia l’obbligo di disfarsi”, invoca le definizioni che ne dà il D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 14, conv. in L. 8 agosto 2002, n. 178 e le ipotesi di esclusione dalla qualificazione come rifiuto. Allo stesso modo invoca ulteriori norme da cui a suo dire le caratteristiche del materiale ne escluderebbero la natura di rifiuto, collocandola invece tra le materie prime secondarie per attività siderurgiche e metallurgiche. La difesa poi cerca di valorizzare le società da cui il suddetto materiale ferroso è stato acquistato, negandone la provenienza da privati, ed insistendo invece nell’acquisto da “operatori professionali del settore”. Così pure valorizza la circostanza che tale materiale sarebbe stato poi conferito esclusivamente ad acciaierie e fonderie.

Va premesso che la fattispecie penalmente rilevante, dalla quale discende la contestazione della deducibilità dei costi ai sensi dell’art. 14 cit., non è solo quella collegata alla gestione illecita dei rifiuti – allora regolata dal D.Lgs. n. 22 del 1997, successivamente regolata dal D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, artt. 259 e 260, quindi, e attualmente, dall’art. 452 quaterdecies c.p., che costituisce fattispecie delittuosa – ma anche al reato associativo ex art. 416 c.p., diversamente non potendo trovare applicazione l’art. 14, che con le modifiche portate dal D.L. n. 16 del 2012, esula dai reati contravvenzionali.

Ebbene, la difesa della contribuente, che pur si sforza di escludere dalla fattispecie del traffico illecito dei rifiuti la condotta addebitata, non coglie correttamente il ragionamento del giudice regionale, il quale, con l’ausilio delle risultanze emergenti dall’indagine penale, e poi dagli atti della fase cautelare, ricostruisce la vicenda, riconoscendo, incidenter tantum, la illiceità del traffico dei rifiuti. A tal fine il ragionamento della Commissione è scandito dalla serrata considerazione di tutti gli elementi disponibili: l’acquisto del materiale ferroso da parte della CMPS s.r.l. – priva di autorizzazione ambientale – da soggetti non identificati; il riacquisto del medesimo materiale dalla Adda Immobiliare, questa invece dotata delle necessarie autorizzazioni, ma a maggior ragione coinvolta nella condotta illecita associativa perchè si serve della CMPS per acquistare irregolarmente il predetto materiale, per poi a sua volta rivenderlo a società professioniste del settore; la circostanza, che avvalora sotto il profilo soggettivo la responsabilità della contribuente, che la CMPS non è altro che una “costola” della Adda, con soci e amministratori comuni (e indagati per reati ambientali e fiscali a mezzo dell’apposita associazione a delinquere costituita).

La sentenza esamina anche le ipotesi derogatorie del reato, invocate dalla contribuente, evidenziando però l’ignota provenienza dei rifiuti raccolti dalla CMPS, con la conseguente assenza del possesso “”ab origine” (del)le caratteristiche previste da “specifiche nazionali e internazionali”, come richiesto dalla norma derogatoria.”. E valuta anche le asserite (dalla contribuente) dichiarazioni, assunte ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c. in sede penale, favorevoli alla ricorrente, escludendone la rilevanza perchè relazionate ad altra società.

Le argomentazioni del giudice d’appello sono sequenzialmente logiche, corrette sotto il profilo giuridico, e, quanto alla stretta valutazione dei fatti, la motivazione è esaustiva e priva di incongruenze, sicchè, in mancanza di vizi motivazionali, neppure lamentati, sarebbe inibita in sede di legittimità ogni rivalutazione dei fatti. Nè possono assumere rilevanza le motivazioni riportate in altre decisioni, afferenti altri soggetti e altre condotte, del tutto ininfluenti pertanto nel caso di specie e delle quali non se ne conosce neppure la concreta vicenda.

Neppure il secondo motivo, con cui si sostiene l’inapplicabilità dell’art. 14, per come modificato dal D.L. 16 del 2012, poichè, assume la difesa, mancherebbe il nesso tra il sostenimento del costo e la specifica attività delittuosa, richiesta dal dettato normativo, secondo cui l’inammissibilità della deduzione dei costi afferisce a quelli sostenuti per l’acquisto “dei beni o delle prestazioni di servizi direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo.”. Secondo la articolata difesa il materiale ferroso sarebbe stato acquistato per essere ceduto alle imprese siderurgiche clienti, e non per l’esercizio del traffico illecito di rifiuti.

Ebbene, nella giurisprudenza penale si è affermato che per la configurabilità del reato di traffico illecito di rifiuti, il profitto ingiusto può consistere anche solo nella riduzione dei costi aziendali e comunque non deve assumere necessariamente carattere patrimoniale, potendo essere costituito anche da vantaggi di altra natura (cfr. Cass., sent. 53136/2017, in una fattispecie in cui il vantaggio del trasporto illecito è stato ravvisato nello sgravare le società appaltatrici dagli oneri derivanti dalla regolarizzazione della movimentazione del materiale e nella maggiore celerità dei lavori appaltati), e con specifico riguardo alla disciplina vigente all’epoca dei fatti per cui è causa, si è affermato che, ai fini della configurabilità del delitto di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 53 bis – traffico illecito di rifiuti – costituisce ingiusto profitto non soltanto quello esplicitamente contra legem, ma anche quello collegato a mediazioni o traffici illeciti o ad operazioni volte a manipolazioni fraudolente dei codici tipologici (Cass., sent. n. 45598/2005).

D’altronde, ai fini della configurabilità dei costi “direttamente utilizzati”, questa stessa sezione ha condivisibilmente affermato che ai sensi dell’art. 14, comma 4 bis cit., come modificato dal D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv., con modif., dalla L. n. 44 del 2012, devono ritenersi costo o spesa direttamente “utilizzati” per il compimento del delitto, ed in quanto tali non deducibili, anche quelli sostenuti in un momento successivo al perfezionamento della fattispecie delittuosa ogni qual volta il loro sostenimento trovi titolo nell’assunzione, da parte dell’agente, di una obbligazione strutturalmente funzionale alla realizzazione del delitto (Cass., ord. n. 31059/2017).

Ciò chiarito, a parte che la casistica evidenzia l’ampiezza delle fattispecie comprese nel reato, nel caso di specie l’illecito era proprio quello del traffico dei rifiuti, espresso innanzitutto dalle modalità di acquisto, ossia da soggetti sconosciuti e mai identificati, a mezzo di società del tutto priva delle dovute autorizzazioni ambientali, strumentale alla commercializzazione successiva messa in atto dalla Adda Immobiliare, dopo essersi procurata illecitamente il materiale ferroso. Sicchè ancora più “penetrante” si rivela il rapporto di diretta utilizzazione dei beni, i cui costi vorrebbero dedursi, per il compimento del reato.

Deve infine appena accennarsi all’ulteriore questione posta in ordine alla inapplicabilità dell’art. 14 al caso di specie, per essere la contribuente una società e non una persona fisica, discendendone da ciò una dissociazione tra il soggetto fisico che compie il delitto non colposo, cui peraltro sarebbe esclusivamente riconducibile l’elemento psichico della condotta illecita, e l’ente su cui ricadrebbero le conseguenze con l’indeduciblità dei costi.

Le argomentazioni si infrangono sulla considerazione che la società deve essere il soggetto destinatario della norma perchè sul piano fiscale è solo essa a fruire della deducibilità dei costi, a mezzo della illecita condotta non di un soggetto qualunque, ma del suo rappresentante legale. Una diversa soluzione interpretativa svuoterebbe d’un colpo l’art. 14 cit., per la facile previsione che qualunque condotta illecita sarebbe posta in essere vestendo l’attività d’impresa della forma della persona giuridica.

In conclusione anche questo motivo va rigettato.

Le ragioni da ultimo rappresentate escludono, già sotto tale profilo, la sollevata questione di non manifesta infondatezza dell’art. 14 cit., per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell’art. 27 Cost., comma 2, laddove prescrive l’indeducibilità dei costi anche senza che il reato sia stato accertato con sentenza definitiva. E’ qui sufficiente evidenziare che le garanzie difensive sono assicurate per un verso dal fatto che il giudice tributario, in assenza di una sentenza penale di condanna, svolge comunque un accertamento dei fatti incidenter tantum, e peraltro a ciò si aggiunge la previsione, non affatto irrilevante o irragionevole come pretende invece la ricorrente, che la sentenza definitiva di assoluzione, o, quelle emesse ai sensi degli artt. 425 e 529 c.p.p., comportano “il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi.”.

Così pure deve escludersi la violazione del principio di capacità contributiva, perchè la non riconoscibilità del costo si relaziona alla non riconoscibilità nel conto economico di operazioni penalmente rilevanti.

In conclusione il ricorso va rigettato.

All’esito del giudizio segue la soccombenza della ricorrente nelle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condanna la ricorrente alla rifusione in favore della Agenzia delle Entrate delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 20.000,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1 – bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020

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