Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3584 del 14/02/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 3584 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: CARRATO ALDO

SENTENZA

processo ai sensi
della legge n. 89
del 2001

sul ricorso proposto da:
LIPNITSKA OKSANA (C.F.: LPN KSN 71L56 Z138H), rappresentata e difesa, in virtù
di procura speciale a margine del ricorso, dagli Avv.ti Alberto Buzzi e Spartaco
Gabellini ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo, in Roma, alla v. dei
Gracchi, n. 209; – ricorrente contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato
e difeso “ex lege” dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato presso i suoi
uffici, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12; – resistente —
avverso il decreto della Corte d’appello di Perugia relativo al proc. n. 528 del 2012
V.G., depositato in data 7 maggio 2012 (e non notificato).
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 9 gennaio 2014

dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

Data pubblicazione: 14/02/2014

Ritenuto in fatto
La sig.ra Lipnitska Oksana chiedeva alla Corte d’appello di Perugia, con ricorso
depositato il 4 febbraio 2011, il riconoscimento dell’equa riparazione, ai sensi della
legge 24 marzo 2001, n. 89, per la irragionevole durata di un giudizio civile instaurato

definito in grado di appello con sentenza depositata il 2 febbraio 2010, invocando, la
condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni non patrimoniali
subiti per la irragionevole durata complessiva del predetto giudizio.
Nella costituzione del resistente Ministero, l’adita Corte di appello, con decreto
depositato il 7 maggio 2012, accertava l’irragionevole ritardo del suddetto giudizio
nella durata di un solo anno e condannava l’Amministrazione convenuta al
pagamento della somma di euro 750,00, oltre interessi dalla domanda, con ulteriore
condanna della stessa Amministrazione alla rifusione della metà delle spese
giudiziali (da distrarsi in favore dei difensori antistatari), che compensava per la
residua metà.
Avverso il suddetto decreto (non notificato) ha proposto ricorso per cassazione la
Lipnitska Oksana con atto notificato il 22 dicembre 2012, sulla base di due motivi.
L’intimato Ministero si è costituito con controricorso. I difensori della ricorrente hanno
anche depositato memoria difensiva ex art. 378 c.p.c. .
Considerato in diritto
1. In via preliminare, il Collegio rileva che non è di ostacolo alla trattazione del ricorso
la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della
Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’art. 70, secondo comma, c.p.c., quale risultante dalle modifiche introdotte
dall’art. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni,

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con atto depositato il 13 dicembre 2000 dinanzi al Tribunale di Roma — sez. lavoro,

nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico ministero «deve intervenire
nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge». A sua volta

l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall’art. 81 del citato decretolegge n 69, al primo comma dispone che «Il pubblico ministero presso la Corte di

dinanzi alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici
della Corte di cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla
sezione di cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura
civile». L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita
sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di
consiglio».

Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante dalla legge
di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo comma, la sostituzione
dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e la modificazione degli artt. 380-bis,
secondo comma, e 390, primo comma, del medesimo codice, per adeguare la
disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della partecipazione del pubblico
ministero alle udienze che si tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo
comma, al secondo comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente
articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cessazione nei quali il decreto di
fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire
dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.

Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto nell’art. 75, comma 2,
citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art.

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cessazione interviene e conclude: a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze

376, primo comma, c.p.c.), consenta di ritenere, non solo, che la detta sezione è
abilitata a tenere pubbliche udienze e non solo adunanze camerali, ma anche che
alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la
partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facoltà

c.p.c., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato adottato in
data 25 settembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza pubblica è stata
ritualmente celebrata senza la partecipazione del rappresentante della Procura
generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia
integrale del ruolo di udienza era stata trasmessa, ravvisato un interesse pubblico
che giustificasse la propria partecipazione ai sensi del citato art. 70, terzo comma,
c.p.c. .
2. Con il primo motivo dedotto la ricorrente ha denunciato (ai sensi dell’art. 360, i/
comma 1, n. 3, c.p.c.) la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2e 3 della legge
n. 89 del 2001 (anche in relazione agli artt. 414, 415, 433 e 434 c.p.c.), oltre che — in
virtù dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. – il vizio di omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione avuto riguardo alla supposta erroneità del computo della
durata irragionevole del giudizio presupposto, articolatosi in due gradi di merito e
durato, nel suo complesso, 9 anni e 2 mesi (dovendosi porre riferimento, ai fini della
decorrenza del termine, al momento di deposito dell’atto introduttivo per ciascun
grado di giudizio e non a quello della prima udienza fissata dal giudice), senza,
peraltro, che fossero addebitabili alle parti private rinvii della causa.
3. Con il secondo motivo proposto la ricorrente ha censurato il decreto impugnato per
assunta violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., nonché per omessa,

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dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70, terzo comma,

insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza sul riparto delle spese
giudiziali, avuto riguardo all’illegittimo accoglimento solo parziale della domanda di
equa riparazione.
4. Il primo motivo è fondato per le ragioni che seguono.

gradi di merito – del giudizio prendendo come parametro di riferimento, per la relativa
decorrenza in ordine a ciascuno degli stessi (attestando, peraltro, apoditticamente, in
diciotto anni la durata del primo grado) il momento di celebrazione della prima
udienza, e non, invece, quello del deposito, rispettivamente, del ricorso introduttivo
della causa in primo grado e di quello riferibile al giudizio di appello, in tal senso,
pervenendo a computare la durata irragionevole del complessivo giudizio in un solo
anno, pur dando atto che alcun rinvio era imputabile alle parti private e ritenendo —
del tutto ingiustificatamente — che sussistesse una ipotesi di complessità del
processo (pur vertendosi in tema di contenzioso attinente al riconoscimento di
differenze retributive in materia di lavoro).
Così statuendo, però, la Corte territoriale ha disatteso il principio in base al quale, in
materia di controversie di lavoro, il giudizio inizia con il deposito del ricorso in
cancelleria (sia per il primo grado che per il secondo), ragion per cui la Corte
perugina, nel computare — in funzione della decorrenza del relativo termine – la
durata complessiva dei due gradi, avrebbe dovuto far riferimento a questo momento
(e non, invece, a quello della successiva celebrazione dell’udienza di comparizione —
e di discussione — fissata dal giudice, anche se, eventualmente, anticipata su istanza
della parte interessata).
E’, infatti, principio pacifico che nei procedimenti contenziosi di primo grado
(quali quelli relativi alla controversie in materia di lavoro e previdenziali) che

La Corte di appello di Perugia ha determinato la durata complessiva — per entrambi i

iniziano con ricorso da depositare nella cancelleria del giudice adito
anteriormente alla notificazione, il compimento della formalità del deposito
coincide con la proposizione della domanda (cfr., ad es., Cass. n. 10782 del

2003) e, così, anche la proposizione dell’appello, in tali cause, si perfeziona, ai

legge, nella cancelleria del giudice ad “quem” (v., ad es., Cass., S.U., n. 9331 del

1996; Cass. n. 10320 del 1997 e Cass. n. 7703 del 2003).
Pertanto, sulla scorta di questo esatto principio giuridico (disatteso dalla Corte
umbra) e rilevando l’insussistenza di una ipotesi di causa “particolarmente
complessa” (oltre a considerare la mancata emergenza della prova di differimenti
imputabili alle parti), deve ritenersi che la durata complessiva del giudizio — iniziato in
primo grado con il deposito del ricorso il 13 dicembre 2000, definito con sentenza
depositata il 5 novembre 2004, proseguito in appello con ricorso depositato il 5
gennaio 2005 e definito con sentenza, non impugnata, pubblicata il 2 febbraio 2010)
— è stata, come correttamente dedotto nell’interesse della ricorrente, di anni nove e
mesi due (tenendo conto anche della celerità nella proposizione del gravame).
Pertanto, detraendo da questa durata complessiva il termine ragionevole di tre anni
riferibile allo svolgimento del giudizio di primo grado e quello di due anni da
rapportare al giudizio di appello (come, peraltro, confermato anche dal nuovo —
anche se inapplicabile nella fattispecie “ratione temporis” – comma 2 bis dell’art. 2
della legge n. 89 del 2001, come introdotto dall’art. 55, comma 1, del d.l. n. 83 del
2012, conv., con modif., nella legge n. 134 del 2012), ne deriva che la durata
irragionevole dell’intero giudizio è computabile nella misura di anni quattro e mesi
due.

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sensi dell’art. 435 c.p.c., con il deposito del ricorso, nei termini previsti dalla

Poiché, in tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata
del processo, i criteri di liquidazione applicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
non possono essere ignorati dal giudice nazionale (il quale può, tuttavia, apportare le
deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purché motivate

regola, non inferiore a euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre
anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a euro 1.000,00 per quelli
successivi, in quanto l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un
evidente aggravamento del danno.
Pertanto, avuto riguardo al computo totale del predetto periodo di durata
irragionevole del giudizio presupposto, ne consegue che l’indennizzo riconoscibile
alla ricorrente deve essere congruamente quantificato — come richiesto dalla stessa nell’importo di euro 3.250,00 (euro 750,00 per ognuno dei primi tre anni ed euro
1000,00 per il quarto anno), a cui devono aggiungersi gli interessi legali con
decorrenza dalla proposizione della domanda giudiziale e fino al soddisfo.
5. Alla luce di tali argomentazioni, deve ritenersi fondato anche il secondo motivo,
poiché, dovendo trovare pieno accoglimento la domanda nei termini come
originariamente proposti dalla ricorrente, quest’ultima avrebbe dovuto essere ritenuta
— malgrado l’opposizione del resistente Ministero – totalmente vittoriosa, con
conseguente applicazione del principio della soccombenza contemplato dall’art. 91
c.p.c., senza, perciò, potersi rilevare la sussistenza di idonei motivi giustificativi di
una soccombenza parziale, tale da legittimare la condanna del medesimo Ministero
al pagamento della sola metà delle spese del giudizio di merito.
6. Conseguentemente, in accoglimento dei formulati motivi, può, previa cassazione
del decreto impugnato e non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto (ai

– 7 –

e non irragionevoli), la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere, di

sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c.), provvedersi a decidere direttamente la causa
nel merito in questa sede, con il riconoscimento della fondatezza della domanda
proposta nell’interesse della ricorrente dinanzi alla Corte di appello di Perugia, con la
conseguente condanna del Ministero della Giustizia al pagamento, a titolo di

interessi legali dalla domanda al saldo.
5. Alla suddetta pronuncia ed in virtù dell’accoglimento anche della seconda censura
proposta consegue, altresì, la condanna dello stesso Ministero al pagamento delle
spese dell’intero giudizio in favore della ricorrente, che si liquidano come in
dispositivo, con distrazione in favore dei difensori della stessa, per dichiarato
anticipo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte accoglie, per quanto di ragione, il ricorso; cassa il decreto impugnato e,
decidendo nel merito, accoglie la domanda proposta nell’interesse di LIPNITSKA
OKSANA e, per l’effetto, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento, in
favore della ricorrente, della somma di euro 3.250,00 a titolo di equa riparazione,
oltre interessi legali dalla domanda al saldo; condanna, altresì, lo stesso Ministero al
pagamento delle spese dell’intero giudizio, che liquida, quanto al grado di merito, in
euro 806,00, di cui euro 50,00 per esborsi, euro 311,00 per diritti ed euro 445,00
per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge, e, quanto al giudizio di
cassazione, in euro 606,25, di cui euro 506,25 per compensi, oltre accessori di
legge. Dispone la distrazione delle spese, come liquidate, in favore dei difensori
antistatari della predetta ricorrente.

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indennizzo per la causale dedotta in giudizio, della somma di euro 3.250,00, oltre agli

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte

suprema di Cassazione, in data 9 gennaio 2014.

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