Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3575 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 13/02/2020, (ud. 04/10/2019, dep. 13/02/2020), n.3575

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. ARMONE Giovanna Maria – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 21036/2011 R.G. proposto da:

A. & J. D.M. di D.F. e R. Snc, nonchè

R.D., D.F.A., D.F.V., D.M.I. e

D.M.M., rappresentati e difesi dagli Avv.ti Luigi Manzi,

Emanuele Coglitore e Paolo Centore, elettivamente domiciliati presso

il primo, in Roma via Confalonieri n. 5, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via

dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale

dell’Abruzzo n. 33/2/11, depositata il 7 marzo 2011.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 4 ottobre 2019

dal Consigliere Dott. Fuochi Tinarelli Giuseppe.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Visonà Stefano, che ha concluso per la declaratoria di

cessazione della materia del contendere e, in subordine, per il

rigetto del ricorso.

Udito l’Avv. (OMISSIS) per delega dell’Avv. Manzi Luigi per i

contribuenti, che insiste per l’accoglimento del ricorso.

Udito l’Avv. dello Stato Roberto Palasciano per l’Agenzia delle

entrate che conclude per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La società A. & J. D.M. di D.F. e R. Snc, esercente attività di compravendita di vetture, impugnava l’avviso di accertamento per il 2004, per Iva, Irpef ed Irap, oltre a sanzioni, emesso dall’Agenzia delle entrate per l’indebita applicazione del regime del margine, nonchè per la detrazione Iva e la deduzione di costi per operazioni soggettivamente inesistenti.

Avviso di accertamento in rettifica del reddito da partecipazione veniva notificato altresì ai singoli soci; R.D., D.F.A., D.F.V., D.M.I. e D.M.M. impugnavano i rispettivi atti innanzi alla CTP di L’Aquila, mentre D.F.L. proponeva ricorso innanzi alla CTP di Roma.

L’impugnazione della società e dei soci R.D., D.F.V., D.M.I. e D.M.M., parzialmente accolta in primo grado, era rigettata dalla CTR in epigrafe.

I contribuenti propongono ricorso per cassazione con sei motivi cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Con atto in autotutela parziale, depositato ex art. 372 c.p.c., e notificato in data 28 maggio 2013, l’Agenzia delle entrate con riguardo all’omessa integrazione delle fatture, ferma la sanzione irrogata, annullava il recupero Iva.

La causa veniva rinviata per la presentazione di istanza di definizione agevolata per la pretesa residua.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. L’Agenzia delle entrate, con nota del 2/10/2019, ha dato atto del positivo esito della definizione agevolata, evidenziando che da essa esula “l’ultimo terzo” della pretesa, che risulta ancora dovuto.

Ne deriva che va dichiarata la cessazione della materia nei limiti dei rilievi annullati in via di autotutela nelle more del giudizio, nonchè dell’intervenuta definizione agevolata D.L. n. 193 del 2016, ex art. 6, mentre per la parte residua persiste l’interesse al giudizio.

2. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1306 e 2909 c.c. per non aver la CTR dichiarato inammissibile l’appello dell’Agenzia proposto solo nei confronti della società e non anche dei soci, con conseguente passaggio in giudicato delle relative statuizioni.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. La giurisprudenza di questa Corte, a partire dall’arresto delle Sezioni Unite n. 14815 del 2008, ha ritenuto che l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi delle società di persone e delle associazioni di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, e dei relativi soci e la conseguente automatica imputazione dei redditi a ciascun socio, in proporzione alla quota di partecipazione agli utili ed indipendentemente dalla percezione degli stessi, comporta che il ricorso tributario proposto, anche avverso un solo avviso di rettifica, da uno dei soci o dalla società riguarda inscindibilmente sia la società che tutti i soci – salvo che questi prospettino questioni personali -, sicchè tutti i soggetti devono essere parte dello stesso procedimento e la controversia non può essere decisa limitatamente ad alcuni soltanto di essi.

La controversia, infatti, non ha ad oggetto una singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell’obbligazione dedotta nell’atto autoritativo impugnato, con conseguente configurabilità di un caso di litisconsorzio necessario originario e relativa necessità di integrazione, essendo il giudizio celebrato senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari affetto da nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento, anche di ufficio (Sez. U, n. 14815 del 2008; conformi Cass. n. 11459 del 2009; Cass. n. 13073 del 2012; Cass. n. 1047 del 2013, n. 1047; Cass. n. 27337 del 2014; Cass. 21340 del 2015; Cass. n. 15566 del 2016).

Correttamente, dunque, la CTR ha disposto, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 14, comma 2, l’integrazione del contraddittorio.

2.3. Parimenti infondato è l’invocato effetto estensivo riferito alla decisione della CTP di Roma n. 162/51/09 del 30 marzo 2009: il documento prodotto in atti – il cui esame è consentito per la natura della questione – non è munito di idonea certificazione ex art. 124 disp. att. c.p.c., dalla quale risulti che la pronuncia non è soggetta ad impugnazione, attestando semplicemente che il fascicolo “non è stato richiesto dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio”, circostanza che non elide indefettibilmente la proposizione dell’impugnazione (v. da ultimo Cass. n. 6024 del 09/03/2017; Cass. n. 9746 del 18/04/2017; Cass. n. 20974 del 23/08/2018).

3. Il secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, in riferimento al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c..

3.1. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, in relazione agli artt. 17 direttiva 77/388/CEE e 168 direttiva 2006/112/CE e ai principi di certezza del diritto, legittimo affidamento e proporzionalità.

3.2. I motivi, da esaminare unitariamente in quanto logicamente connessi, sono complessivamente infondati.

3.3. Occorre premettere che in tema di operazioni soggettivamente inesistenti questa Corte, con la sentenza n. 9851 del 10/04/2018 (seguita da molte altre), ha affermato, in piena aderenza ai principi affermati ripetutamente dalla Corte di Giustizia (v., tra le varie, Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14) che:

a. l’Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, l’oggettiva fittizietà del fornitore e la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta;

b. la prova della consapevolezza dell’evasione, peraltro, non richiede che l’Amministrazione finanziaria provi la partecipazione del soggetto all’accordo criminoso od anche la sua piena consapevolezza della frode ma che essa dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente;

c. incombe sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi.

3.4. Orbene, la sentenza si è pienamente attenuta agli enunciati principi di diritto, avendo, con motivazione ampia ed articolata, incentrata, specificamente, oltre che sulla fittizietà delle operazioni anche, e puntualmente, sulla consapevolezza e la buona fede del contraente (per la progressione dei rapporti: fino al 2003 la società si rivolgeva direttamente al fornitore UE e, poi, per le stesse operazioni e allo stesso prezzo, con l’intermediazione della Autoimport, carente di ogni struttura ed organizzazione; la persistenza di comunicazioni dirette – telefonate ed altro – con il fornitore UE; ed inoltre: i pagamenti erano diretti al fornitore UE ed ancor prima dell’acquisto; la consegna era diretta; la carenza di spiegazioni sulla necessità dell’intermediazione; l’esistenza di documentazione extracontabile;…), ritenuto la fondatezza dei rilievi dell’Ufficio, senza trascurare gli elementi probatori introdotti dai contribuenti (consegna della merce; pagamenti), valutati – in piena coerenza con i sopra esposti principi – inidonei e non decisivi.

Quanto, poi, alla mancata valutazione della sentenza penale, la censura è, prima ancora che infondata (tenuto anche conto della limitata valenza che ad essa è riconoscibile nell’ambito del giudizio tributario), inammissibile: la pronuncia, infatti, non è neppure indicata nei suoi estremi, nè risulta mai depositata in giudizio per esser – verosimilmente – successiva alla stessa sentenza della CTR.

Nè miglior esito va riconosciuto all’invocata consulenza tecnica svolta nel giudizio penale, e al relativo verbale di audizione in quella sede, risultando la doglianza carente in punto di autosufficienza (per essere stati riprodotti meri limitati stralci, la cui carenza risalta a fronte dei contrapposti, anch’essi parziali, stralci riprodotti dall’Agenzia) e di decisività atteso che, da un lato, la valutazione della CTR si è rivolta sulle medesima circostanze in fatto oggetto di analisi da parte del consulente, che sono state considerate nell’ambito di una disamina complessiva ed articolata restandone immutata la ricostruzione dei fatti, mentre, dall’altro, la stessa censura trascura gli ulteriori elementi apprezzati dalla CTR.

3.5. E’ poi inammissibile la dedotta violazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., risolvendosi la censura, in realtà, in un lamentato vizio motivazionale.

Va infatti osservato che, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., “è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma” ossia che abbia “giudicato o contraddicendo espressamente la regola, dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio”, mentre “detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre”, trattandosi di attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (v. Cass. n. 11892 del 10/06/2016).

Parimenti non si pone una violazione dell’art. 112 c.p.c., che postula l’omessa pronuncia su una specifica domanda od eccezione, mentre la contestazione investe, specificamente la valutazione delle prove.

La CTR, del resto, non ha escluso dalla valutazione gli elementi forniti dai contribuenti ma, anzi, come sopra rilevato, li ha esplicitamente presi in considerazione, ritenendoli, semplicemente, oggettivamente inidonei a provare la buona fede e ad inficiare gli elementi raccolti dall’Ufficio.

4. Il quarto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75 (ora art. 109) e della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, per aver la CTR escluso la deducibilità dei costi relativi alle contestate operazioni ai fini delle imposte dirette.

4.1. Il quinto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, vizio di motivazione sulla questione dedotta al motivo precedente.

5. Il quarto motivo è fondato, con assorbimento del quinto.

5.1. Deve, al riguardo, rilevarsi che il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, conv. nella L. n. 44 del 2012, ha sostituito dalla L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis nei seguenti termini “Ne/la determinazione dei redditi di cui al testo unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 1, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 425 c.p.p. ovvero la sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p…..”.

Tale disposizione – sopravvenuta alla decisione della CTR e allo stesso ricorso per cassazione – ha rilievo nel presente giudizio quale ius superveniens, applicabile d’ufficio, sicchè, nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, i beni acquistati non possono, di norma, ritenersi utilizzati direttamente “al fine di commettere il reato”, bensì per essere commercializzati, con la conseguenza che non è sufficiente il coinvolgimento, anche consapevole, dell’acquirente in operazioni fatturate da un soggetto diverso dall’effettivo venditore per escludere la deducibilità, ai fini delle imposte dirette, dei costi relativi, fermo il necessario riscontro dei presupposti di cui all’art. 109 tuir (v. Cass. n. 27566 del 30/10/2018).

Nella vicenda in esame, dunque, non rileva l’accertamento della consapevolezza della frode da parte dei contribuenti, mentre è necessaria la verifica della sussistenza dei principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza e determinabilità dei componenti negativi che possono essere portati in deduzione dal reddito imponibile, da cui il rinvio innanzi al giudice di merito.

6. Il sesto motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione del D.L. n. 41 del 1995, art. 36 e art. 37, comma 2, in relazione all’art. 312 e ss direttiva n. 2006/112/CE, nonchè D.L. n. 331 del 1993, art. 38 e s.s., in relazione artt. 138 e 139, par. 3, direttiva n. 2006/112/CE per aver la CTR ritenuto indebita l’applicazione del regime del margine da parte della contribuente con riguardo all’acquisto da un fornitore francese di un’auto usata.

Deduce, inoltre, che il disconoscimento del regime del margine avrebbe dovuto comportare l’applicazione del regime di non imponibilità trattandosi di cessione intracomunitaria.

6.1. Il motivo è infondato.

La problematica, invero, è stata recentemente affrontata, e con riguardo a fattispecie in tutto similare a quella qui in esame, dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 21105 del 12/09/2017.

La Corte ha sottolineato, alla luce degli orientamenti della Corte di Giustizia (e, in ispecie, della recente sentenza 18 maggio 2017, Litdana, C-624/15) e dei coerenti orientamenti della Suprema Corte (Cass. n. 20089 del 24/9/2014; Cass. n. 24604 del 19/11/2014), che “qualora l’amministrazione tributaria ritenga che il contribuente abbia indebitamente fruito del regime del margine, deve contestarne l’esistenza dei presupposti, oggettivi o soggettivi, adducendo elementi specifici e concreti (anche, ovviamente, aventi efficacia meramente presuntiva) e non, quindi, in modo generico”; a fronte di ciò, quindi, spetta al contribuente fornire la prova contraria, dimostrando “la propria buona fede, intesa come comprensiva sia dell’assenza di consapevolezza che il suo acquisto si iscriveva nel contesto di un’evasione dell’IVA, sia dell’uso della necessaria diligenza, ossia di aver adottato tutte le misure ragionevolmente esigibili da parte di un operatore accorto, al fine di assicurarsi che una tale evenienza dovesse escludersi”.

Con particolare riferimento alla compravendita di veicoli usati, poi, le Sezioni Unite hanno specificamente affermato che “il cessionario… deve provare la propria buona fede, cioè di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto – secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto – al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto”, condotta che include “anche l’individuazione, nei limiti dei dati risultanti dalla carta di circolazione in suo possesso, eventualmente integrati da elementi di agevole e rapida reperibilità, dei precedenti intestatari del veicolo, al fine di accertare, sia pure solo in via presuntiva, se l’IVA sia stata, o no, già assolta a monte da altri, nell’ambito della catena di fornitura, senza possibilità di detrazione”.

Ne deriva, correlativamente, che “in caso di esito positivo, il diritto di applicare il regime del margine deve essere riconosciuto, anche qualora l’amministrazione dimostri, attraverso indagini e controlli inesigibili dal contribuente, che in realtà l’imposta, per qualsiasi motivo, non era stata detratta”, mentre, quando “dalla verifica del contribuente emerga che i precedenti titolari svolgano tutti attività di rivendita, noleggio o leasing nel settore del mercato dei veicoli, opera la presunzione (contraria, in base al criterio di normalità probabilistica) dell’avvenuto esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte per l’acquisto dei veicoli stessi, in quanto beni destinati ad essere impiegati nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa, con conseguente negazione del diritto alla fruizione del trattamento fiscale più favorevole”.

6.2. Nella vicenda in esame, la CTR nell’affermare che “il primo intestatario della vettura risultava essere una persona giuridica che aveva detratto l’Iva al momento dell’acquisto e il concessionario era tenuto… ad accertarsi dal libretto di circolazione tale circostanza usando una minima diligenza” provenendo l’autoveicolo usato “da una società di autonoleggio o di leasing che a sua volta lo aveva acquistato nuovo”, e così riconoscendo la legittimità della ripresa, si è attenuta ai principi sopra esposti, restando la decisione esente da ogni censura.

6.3. Nè rileva che, per l’indebita applicazione del regime del margine, l’operazione costituiscà cessione intracomunitaria, essendo comunque legittima la ripresa dell’Amministrazione che riguarda l’imposta dovuta e non altrimenti versata o registrata.

7. In conclusione, con riguardo al contenzioso residuo, va accolto il quarto motivo di ricorso, assorbito il quinto e rigettati gli altri, e la sentenza va cassata con rinvio, anche per le spese, alla CTR competente in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte dichiara cessata la materia del contendere nei limiti dei rilievi annullati in via di autotutela, nonchè dell’intervenuta definizione agevolata D.L. n. 193 del 2016, ex art. 6. Accoglie il ricorso quanto alla pretesa residua limitatamente al quarto motivo, assorbito il quinto, e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia, anche per le spese, alla CTR dell’Abruzzo in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2019.

Depositato in cancelleria il 13 febbraio 2020

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