Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3567 del 14/02/2011

Cassazione civile sez. un., 14/02/2011, (ud. 18/01/2011, dep. 14/02/2011), n.3567

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente f.f. –

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente Sezione –

Dott. FELICETTI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. TIRELLI Francesco – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3931-2010 proposto da:

COMUNE DI ATESSA, in persona del Sindaco pro-tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 170, presso lo studio

dell’avvocato SAGNA ALBERTO, rappresentato e difeso dall’avvocato

CERICOLA GIUSEPPE, per delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

D.D.D., D.D.M., in proprio e nella

qualità di procuratore speciale di D.D.K., D.D.

V., tutti nella qualità di eredi di D.D.C.,

elettivamente domiciliati in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE

DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato PICCIRILLI

GIOVANNI OSVALDO, per delega in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 181/2009 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 31/03/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/01/2011 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FELICETTI;

uditi gli avvocati Giuseppe CERICOLA, Maria Pina BENEDETTI per delega

dell’avvocato Giovanni Osvaldo Piccirilli;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA RAFFAELE, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Comune di Atessa con citazione del 12 marzo 1998 convenne dinanzi al tribunale di Lanciano il sig. D.D.C. deducendo di essere divenuto proprietario, per effetto di usucapione, di alcuni terreni già di proprietà del convenuto e trasformati in una strada ad uso pubblico. Chiese che venisse accertato il proprio diritto dominicale su di essi. Il convenuto si costituì deducendo che il Comune si era immesso nel possesso di quei terreni in forza di due ordinanze di occupazione d’urgenza e che non era trascorso il termine ventennale prescritto per l’usucapione. Dedusse inoltre l’illegittimità dell’occupazione, avvenuta sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità implicita nella delibera di approvazione di un PEEP che non conteneva l’indicazione del termine iniziale e finale per la realizzazione delle opere e lo svolgimento della procedura di espropriazione. Dedusse ancora che, come tale, essa doveva ritenersi giuridicamente inesistente. Chiese, pertanto, in via riconvenzionaie, la condanna al risarcimento dei danni per l’illegittima irreversibile trasformazione dei terreni, rinunziando a chiederne la restituzione. Il tribunale rigettò sia la domanda principale, per non essere trascorso il termine per l’usucapione, sia quella riconvenzionale stante la prescrizione del credito. Proposero appello gli eredi del convenuto, sigg.ri M., D., K. e D.D.V. e la Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza depositata il 22 novembre 2007, notificata il 19 ottobre 2009, dichiarò tardiva l’eccezione di prescrizione e rimise la causa in istruttoria per espletare una CTU, all’esito della quale venne emanata sentenza depositata il 31 marzo 2009, notificata il 19 ottobre 2009, con la quale il Comune fu condannato al pagamento di Euro 16.041,15, oltre rivalutazione e interessi. Il Comune di Atessa ha proposto ricorso avverso tale ultima sentenza e “per quanto di ragione” anche avverso la sentenza 22 novembre 2007 con atto notificato il giorno 1 febbraio 2010 ai sigg.ri M., D., K. e D.D.V., formulando quattro motivi ai quali gl’intimati resistono con controricorso notificato il 4 marzo 2010.

Le parti hanno anche depositato memorie e le parti controricorrenti con la memoria hanno chiesto la liquidazione anche delle spese della fase cautelare svoltasi dinanzi alla Corte d’appello, essendo stata chiesta dalla controparte la sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Va pregiudizialmente rigettata l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per genericità, formulata dai controricorrenti, risultando dal suo contesto la specificità dei motivi e la riferibilità del ricorso ad entrambe le sentenze indicate in narrativa. Va parimenti rigettata l’eccezione d’inammissibilità dell’impugnazione della prima delle due sentenze emanate dalla Corte d’appello, prospettata sotto il profilo del difetto di autorizzazione all’impugnazione, dovendosi ritenere l’autorizzazione all’impugnazione della sentenza che ha definito il giudizio comprensiva dell’autorizzazione ad impugnare anche la precedente sentenza che – come si appresso si dirà – si era limitata a decidere una questione processuale senza definire nemmeno in parte il giudizio.

2.1. Con il primo motivo si denunciano la violazione dell’art. 37 c.p.c., art. 25 Cost. e del D.Lgs. n. 80 del 1998, artt. 33, 34 e 35, in relazione alla carenza di giurisdizione del giudice ordinario e alla giurisdizione del giudice amministrativo – da dichiararsi d’ufficio, restando irrilevante la sua deduzione solo nel giudizio d’appello in comparsa di replica – in relazione alla domanda riconvenzionale relativa al risarcimento per occupazione illegittima da qualificarsi come occupazione acquisitiva.

Il motivo va dichiarato inammissibile.

La Corte d’appello ha ritenuto tardivamente dedotta la questione di giurisdizione perchè prospettata solo con la memoria di replica, ma l’ha esaminata d’ufficio dichiarandola non fondata.

Pronunciando sul motivo, sulla base di quanto statuito nella sentenza 9 ottobre 2008, n. 24883, va riaffermato il principio già enunciato da queste sezioni unite alla luce dell’interpretazione dell’art. 37 c.p.c. ivi formulata – secondo la quale la possibilità di rilevare ed eccepire il difetto di giurisdizione deve tenere conto dei principi costituzionali di economia processuale e di ragionevole durata del processo – per cui, allorchè la relativa eccezione sia proposta nelle note di replica alla comparsa conclusionale avversaria nel giudizio di secondo grado, essa va ritenuta tardivamente proposta, essendosi già formato il giudicato implicito sulla giurisdizione, con la conseguenza che il giudice d’appello, nel caso di specie, non poteva tenerne conto e non poteva esaminarla d’ufficio e la questione riproposta nel giudizio di legittimità deve ritenersi inammissibile (Cass. sez. un. 18 dicembre 2008, n. 29523).

3.1. Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 183 c.p.c., nel testo di cui alla L. n. 353 del 1990, e degli artt. 2934 e segg. cod. civ., per avere la Corte d’appello ritenuto inammissibile l’eccezione di prescrizione proposta con la memoria di cui all’art. 183, comma 5. Si deduce in proposito che la statuizione della Corte d’appello si porrebbe in contrasto con l’interpretazione dell’art. 183, comma 5, data da questa Corte nelle sentenze nn. 9323 del 2004, 16571 del 2002 e 6639 del 2007, tenuto anche conto che essa doveva ritenersi genericamente sollevata nell’udienza di trattazione di cui all’art. 183 c.p.c. attraverso la richiesta di reiezione della domanda riconvenzionale.

Si formula in proposito il seguente quesito di diritto: “Si pronunci la Corte in riferimento al su esposto motivo, statuendo su quanto qui di seguito: se l’eccezione di prescrizione possa o meno essere sollevata dall’attore, a seguito di domanda riconvenzionale rivoltagli dal convenuto, nella prima memoria di cui al quinto comma dell’art. 183 c.p.c., risultante dalla modifica di cui alla L. n. 353 del 1990, come occorso nel caso di specie nel quale detta eccezione è stata ritenuta inammissibile dalla Corte d’appello perchè, come leggesi nella sentenza, andava sollevata nella prima udienza di trattazione e non nelle successive memorie destinate solo a modificare le eccezioni e domande già proposte”. Si chiede, pertanto, di affermare il seguente principio di diritto: “L’eccezione di prescrizione, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello nella gravata sentenza, ben può essere sollevata oralmente ancorchè in modo generico all’udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. dall’attore a seguito di domanda riconvenzionale del convenuto, così come può essere sollevata per la prima volta (con riferimento a tutte le circostanze fattuali e giuridiche poste a suo fondamento) nell’appendice scritta dell’udienza di trattazione, rappresentata dalla prima memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 5, come occorso nel primo grado del presente procedimento”.

3.2. In relazione a tale motivo va rigettata l’eccezione d’inammissibilità prospettata dai controricorrenti per non avere il ricorrente formulato riserva d’impugnazione avverso la sentenza che aveva affermato la tardività dell’eccezione di prescrizione e rimesso la causa in istruttoria per il prosieguo. Detta sentenza, infatti, sì era limitata a risolvere una questione processuale, respingendo un’eccezione di prescrizione, dando ingresso al giudizio di merito senza definirlo nemmeno in parte, cosicchè secondo quanto previsto dall’art. 360 c.p.c. non era immediatamente ricorribile in cassazione (Cass. 4 agosto 2010, n. 18104).

3.3. Il motivo è infondato.

L’art. 183 c.p.c., nel testo di cui alla L. n. 353 del 1990, applicabile alla fattispecie, disponeva al quarto comma che nella prima udienza di trattazione “l’attore può proporre le domande e le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto” ed “entrambe le parti possono precisare e modificare le domande e le conclusioni già formulate”.

Disponeva poi al comma 5 che “se richiesto il giudice fissa un termine perentorio non superiore a trenta giorni per il deposito di memorie contenenti precisazioni o modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte. Concede altresì alle parti un successivo termine perentorio non superiore ai trenta giorni per replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate dell’altra parte e per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni medesime”.

Tale normativa va interpretata nel senso che l’attore, prendendo cognizione della comparsa di risposta del convenuto anteriormente all’udienza di prima comparizione – comparsa nella quale a pena si decadenza (art. 167 c.p.c.) debbono essere proposte le domande riconvenzionali – ove non lo facesse oralmente nell’udienza di prima comparizione, o nelle comparse autorizzate ai sensi dell’art. 180 c.p.c., comma 2, doveva proporre le eccezioni e domande che fossero conseguenza della domanda riconvenzionale al più tardi nella prima udienza di trattazione. Con tali modalità doveva, quindi, proporre anche l’eccezione di prescrizione del diritto preteso in via riconvenzionale. La fissazione del termine di cui al quinto comma per il deposito di memorie, consente infatti ad entrambe le parti solo la successiva precisazione e modificazione delle domande eccezioni e conclusioni già proposte, ma non la proposizione di ulteriori e diverse eccezioni e domande, con l’ampliamento del tema del decidere.

Il successivo termine di trenta giorni consente, a sua volta, di replicare alle domande ed eccezioni, anche nuove, tempestivamente formulate, così come precisate e modificate nelle memorie depositate e di formulare le conseguenti eccezioni.

Ne consegue l’infondatezza del motivo, dovendosi ritenere che esattamente la sentenza impugnata ha ritenuto tardiva l’eccezione di prescrizione non proposta entro l’udienza di trattazione ma solo nelle successive memorie autorizzate ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 5.

4.1. Con il terzo motivo si denunciano la violazione degli artt. 99, 100, 112, 115, 116, 194 e 345 c.p.c., artt. 2697, 2699, 2700 e 2907 cod. civ., nonchè vizi motivazionali, in ordine all’ammissibilità in appello della deduzione che il ricorrente era proprietario della strada illegittimamente occupata in base a cessione volontaria, secondo quanto risultante dai documenti allegati alla CTU. Con il motivo si lamenta che la Corte drappello abbia ritenuto preclusa, in quanto formulata solo in comparsa conclusionale, la deduzione secondo la quale l’attore aveva ceduto il terreno in questione secondo quanto risultante da scrittura in data 25 novembre 1978 e accettazione-ratifica del consiglio comunale di Atessa in data 1 dicembre 1978. Si deduce che l’allegazione di tale cessione era stata fatta dal consulente di parte in sede di CTU e che ben poteva essere illustrata in comparsa conclusionale. Si deduce ancora che ai sensi dell’art. 345 c.p.c. allora vigente non era vietato il deposito in appello di nuovi documenti – ai quali tra l’altro aveva fatto riferimento un teste nel corso del giudizio di primo grado e il giudice doveva giudicare anche in base ad essi, valutando la indispensabilità dei documenti e l’esistenza di una causa che ne aveva impedito in precedenza la produzione, nonchè tenuto conto che era onere dell’attore, al fine dell’accoglimento della domanda di risarcimento, provare di essere proprietario del terreno in questione al momento dell’occupazione.

Si formulano in proposito quesito e sintesi ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Il motivo è infondato.

Essendo il giudizio iniziato il 12 marzo 1998, ad esso è applicabile l’art. 345 c.p.c. nel testo sostituito dalla L. n. 353 del 1990, art. 52 a norma del quale “non sono ammessi nuovi mezzi di prova, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero la parte dimostri di non averli potuto proporre nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile”.

La Corte d’appello (pagg. 7 e 8 della sentenza) ha ritenuto che la richiesta di reiezione della domanda per essere stato il suolo acquisito in proprietà del Comune a seguito di cessione volontaria fosse stata tardivamente prospettata nella seconda comparsa conclusionale dinanzi ad essa e che la produzione della documentazione relativa a tale asserita cessione volontaria del terreno in questione fosse stata a sua volta effettuata tardivamente, nel corso della CTU espletata in appello, mentre tale produzione avrebbe potuto essere fatta tempestivamente, con la conseguenza che non se ne poteva tenere conto quale prova della cessione, ma solo in quanto finalizzata ad offrire al CTU elementi di valutazione.

Tale statuizione è esatta, conformandosi con essa al principio affermato da questa Corte (Cass. sez. un. 20 aprile 2005, n. 8203) secondo il quale nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345 c.p.c., comma 3, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova “nuovi” e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame – requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione consentendone in presenza di tali requisiti l’ammissione, ma sempre che essi siano prodotti (salvo che la loro formazione non sia successiva), a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado.

Ne deriva che i documenti in questione, non essendo stati tempestivamente prodotti unitamente all’atto introduttivo del giudizio d’appello, non potevano in alcun modo essere legittimamente invocati dall’appellante al fine di ottenere la reiezione della domanda della controparte e il giudice doveva giudicare sulla sua fondatezza, come ha fatto, prescindendo da essi.

5.1. Con il quarto motivo si denuncia, in relazione alla misura del risarcimento liquidato, la violazione degli artt. 112, 113, 115, 116, 191 e segg. c.p.c. e di altri articoli specificamente indicati nel motivo, nonchè vizi motivazionali in relazione a un fatto controverso. Si deduce al riguardo che la Corte d’appello avrebbe errato nel recepire, con motivazione inadeguata e senza tenere conto delle controdeduzioni del consulente di parte, le conclusioni della CTU, ritenendo, in particolare, che il suolo occupato avesse natura edilizia in quanto, pur ricadendo esso nella zona residenziale di espansione, non avesse alcuna potenzialità edificatoria, essendo esauriti dai fabbricati preesistenti gl’indici di fabbricabilità, essendo questi costruiti sul ciglio della strada, essendo la strada in questione già insistente su detti suoli e classificata ad uso pubblico. La Corte d’appello avrebbe errato nel recepire l’equazione formulata dalla CTU secondo la quale un suolo, ove situato in zona di espansione, per ciò solo avrebbe natura edificatoria, omettendo di prendere in esame la documentazione dalla quale risultava, per le ragioni su dette, la non edificabilità del suolo in questione, le cui particelle erano state già oggetto di concessioni edilizie con esaurimento delle cubature consentite, la esistenza su gran parte di esso di una servitù ad uso pubblico costituita dal proprietario di esso, che rendeva inutilizzabili le aree di sedime e incongrua la valutazione del suolo a 20.000 lire al mq. Avrebbe ancora errato nel ritenere la superficie oggetto dell’occupazione pari a mq. 1553,00 mentre era di mq. 853,00, nell’affermare che la superficie in questione era stata contestata solo con la comparsa conclusionale (mentre lo era stata già con le note controdeduttive alla CTU e nei precedenti scritti difensivi), nel rifiutare la convocazione del CTU a chiarimenti e nel non liquidare l’indennità a prezzo di suolo agrario, pari ad Euro uno al mq.

In proposito il ricorrente ha formulato i seguenti quesiti di diritto: A) Se il giudice del merito può legittimamente disattendere, senza addurre alcuna motivazione nè in fatto nè in diritto, così contravvenendo agli artt. 132 e 134 c.p.c. la richiesta di riconvocazione del CTU e porre a fondamento della propria decisione l’elaborato peritale pur se contestato dalla parte che ha dimostrato con la CTP ex artt. 194-201 c.p.c. e con il certificato di destinazione urbanistica ad essa allegato, oltre che con gli scritti difensivi ex artt. 352-190 c.p.c. l’erroneità di quanto sostenuto dal CTU che: a) ha ritenuto di natura edificatoria porzioni di particelle catastali occupate dalla sede viaria costruita dal proprietario D.D., nonostante dal PRG e dal certificato di destinazione urbanistica risulti che le aree occupate dalla strada fossero qualificate come zona destinata alla viabilità; b) ha errato nel quantificare l’estensione del terreno occupato dalla strada; c) ha attribuito alle aree stradali il valore di mercato delle aree edificabili in patente contrasto con la L. n. 359 del 1992, art. 5 bis. B) Se può il giudice attribuire alla porzione delle particelle catastali occupate dalla sede viaria e destinate dal PRG alla viabilità valore di area edificabile in luogo di quello agricolo, nonostante dette porzioni fossero sfornite di possibilità legali ed effettive di edificazione L. n. 359 del 1992, ex art. 5 stante l’irreversibile destinazione viaria ricevuta dal precedente proprietario, così come recepita nel PRG. C) Se il giudice può esaminare e porre a fondamento della propria decisione il certificato di destinazione urbanistica depositato dall’appellante con la CTP e nel contempo ignorare l’altro certificato di destinazione urbanistica (atto pubblico ex artt. 2799-2700 cod. civ.) depositato dal Comune con la CTP, redatto in modo analitico e da cui risulta una situazione diversa o, quanto meno, più specifica rispetto al certificato.

Il motivo va rigettato.

Rientra, innanzitutto, nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di sentire a chiarimenti il CTU, di disporre indagini tecniche integrative ovvero di disporre la rinnovazione della perizia e l’esercizio o il mancato esercizio di tale potere è incensurabile in cassazione sotto il profilo del vizio motivazionale (Cass. 10 marzo 2006, n. 2006), con la conseguenza che il motivo, in relazione a detto profilo, è inammissibile.

Riguardo alle rimanenti censure, esse non considerano che ai sensi di quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 349 del 2007 richiamata dalla decisione impugnata a premessa delle sue statuizioni – il risarcimento del danno a seguito di occupazione acquisitiva va compiuto secondo i principi stabiliti dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, in forza dei quali l’Amministrazione è tenuta a un risarcimento pari al valore effettivo del bene oggetto dell’occupazione acquisitiva.

Ne deriva che la censura di fondo del ricorrente (pag. 27 del ricorso), secondo la quale il risarcimento andava liquidato al prezzo medio dei suoli agricoli – equivalente a Euro uno al mq. nonostante che il suolo in questione si trovasse in zona urbana, appare palesemente infondato in relazione alla “ratio decidendi” della sentenza impugnata, che muoveva dall’esigenza di stabilire un criterio di valutazione conforme a quel principio.

In tale ottica, avendo la sentenza impugnata, sulla base della CTU, accertato che il bene in questione si trovava in una “zona residenziale di espansione” e cioè un una zona edificabile, deve infatti ritenersi che il suo valore ben potesse essere ragguagliato – come la Corte ha sostanzialmente fatto sulla base della CTU – al valore dei suoli edificabili in zona, ancorchè in effetti non si trattasse di un bene destinato all’edificazione ma a strada, operando in relazione a ciò, come già aveva fatto il CTU, una congrua riduzione esplicitamente motivata proprio considerando l’esistenza su di esso di una servitù di passaggio e la destinazione del suolo a strada e non all’edificazione.

Trattasi di un criterio non arbitrario, che tiene conto dell’ubicazione dell’area oggetto dell’occupazione e della sua specifica destinazione, la cui adozione non è censurabile in questa sede, essendo adeguato rispetto al principio del giusto indennizzo in base al criterio stabilito dalla CEDU e dalla citata sentenza n. 349 del 2007 della Corte costituzionale.

Quanto alla misura della superficie oggetto dell’occupazione, la sentenza ne ha adeguatamente motivato (pag. 11) l’estensione ed anche in relazione a tale elemento di fatto il relativo accertamento non è censurabile in questa sede.

Il motivo, pertanto, va dichiarato inammissibile e il ricorso va rigettato con la condanna della parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo, unitamente alle spese della fase cautelare – il cui svolgimento non è in contestazione – e sono state legittimamente richieste in memoria.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida nella misura di Euro tremilacinquecento, di cui Euro duecento per spese vive, nonchè al pagamento delle spese della fase cautelare dinanzi alla Corte d’appello, che liquida nella misura di Euro milleduecento complessive, oltre spese generali e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezione Unite Civili, il 18 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2011

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