Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3563 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. un., 13/02/2020, (ud. 14/01/2020, dep. 13/02/2020), n.3563

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Primo Presidente f.f. –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26745-2019 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– ricorrente –

contro

D.B.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA APPENNINI 60,

presso lo studio dell’avvocato CARMINE DI ZENZO, rappresentato e

difeso dall’avvocato MARCELLO MADDALENA;

– resistente –

e contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 79/2019 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 19/07/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/01/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

SALZANO FRANCESCO, che ha concluso per l’annullamento con rinvio

della sentenza impugnata;

uditi gli avvocati Giorgio Santini per l’Avvocatura Generale dello

Stato e Marcello Maddalena.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. All’esito di un’ispezione ordinaria svolta presso il Tribunale e la Procura della Repubblica di La Spezia, il Ministro della giustizia promosse l’azione disciplinare nei confronti del Dott. D.B.M., giudice di quel Tribunale, contestandogli l’illecito di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, comma 1, lett. a) e g).

In particolare, al predetto Magistrato fu contestato, in relazione al procedimento penale n. 24 del 2012 R.G. dibattimento, a carico di C.M., di aver arrecato a quest’ultimo un danno ingiusto consistente nell’indebita restrizione della libertà personale per duecentosessantadue giorni, dei quali solo cinque imputabili ad altro giudice e gli altri duecentocinquantasette a responsabilità del Dott. D.B..

Nella prospettazione del Ministro, il C. era in stato di custodia cautelare in carcere per il reato di furto aggravato a decorrere dal 27 agosto 2011; sostituita detta misura con quella degli arresti domiciliari e disposta la citazione diretta a giudizio dell’imputato in data 8 novembre 2011, il Dott. D.B. – al quale il processo era stato assegnato in data 12 maggio 2012 e che l’aveva effettivamente preso in carico all’udienza del 14 maggio 2012 – aveva omesso di disporre l’immediata scarcerazione dell’imputato, essendo il termine di custodia cautelare scaduto alla data dell’8 maggio 2012 (prima violazione contestata). Dopo di che, celebrando il dibattimento e pronunciando la sentenza di condanna nei confronti del C. in data 11 giugno 2012, il Dott. D.B. aveva nuovamente omesso di disporre l’immediata scarcerazione dell’imputato, in favore del quale il provvedimento di revoca della custodia cautelare era intervenuto soltanto in data 25 gennaio 2013 (seconda violazione contestata); senza considerare che per il reato di furto semplice ritenuto in sentenza la pena edittale non consentiva l’applicazione di una misura cautelare coercitiva.

2. La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con sentenza del 19 luglio 2019, ha assolto il Dott. D.B. da tutte le incolpazioni a lui contestate, in parte per insussistenza degli addebiti ed in parte per essere risultati i medesimi di scarsa rilevanza.

2.1. Nel ricostruire i vari passaggi del processo penale dal quale trae origine l’accusa disciplinare, la Sezione disciplinare ha premesso che il Magistrato, nel definire quel processo all’udienza dell’11 giugno 2012, aveva ritenuto l’imputato C. colpevole del reato di furto semplice, derubricata così l’originaria contestazione di furto aggravato, irrogando la pena di mesi dieci di reclusione, cui era stata aggiunta la pena di mesi sei di arresto per la contravvenzione di cui all’art. 707 c.p..

Dopo di che, la sentenza ha dato conto delle principali argomentazioni difensive dell’incolpato, il quale aveva rilevato di essere stato tratto in inganno circa la decorrenza dei termini di custodia a causa della cattiva tenuta del fascicolo da parte della cancelleria; quanto, invece, all’omessa scarcerazione dopo la pronuncia della sentenza di condanna, l’incolpato aveva osservato che, essendo stata riconosciuta a carico del C. la recidiva reiterata specifica ed infraquinquennale, la pena edittale per il reato di cui all’art. 624 c.p. doveva essere aumentata di due terzi, raggiungendo così la soglia dei cinque anni di reclusione, tale da consentire l’adozione e la persistenza della misura cautelare degli arresti domiciliari.

2.2. Dopo aver inquadrato i termini dell’accusa e le argomentazioni difensive dell’incolpato, il Giudice disciplinare ha osservato che il Dott. D.B. doveva essere considerato responsabile di un duplice errore.

Il primo errore riguardava l’omessa scarcerazione dell’imputato sin dalla prima udienza, tenuta in data 14 maggio 2012. In quel momento, infatti, il termine di custodia cautelare di sei mesi di cui all’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b), n. 1), era già scaduto, posto che, essendo stata disposta la citazione a giudizio in data 8 novembre 2011, quel termine era scaduto l’8 maggio 2012. Ed era indubbio, secondo la Sezione disciplinare, che “la grave violazione di legge” fosse ascrivibile “a negligenza dell’incolpato”.

Ciò nonostante, vi erano una serie di condizioni oggettive per le quali l’addebito disciplinare era da escludere, avendo l’incolpato fatto “ragionevole affidamento sull’assenza di cause di imminente scadenza della misura custodiate”. Il fascicolo, infatti, era pervenuto al magistrato privo del sottofascicolo relativo alla misura custodiale;

oltre a ciò, esso era stato visionato in precedenza da tre diversi colleghi, tra cui il Presidente della Sezione penale, senza che alcuno vi apponesse una qualche indicazione sulla scadenza del termine di custodia. Per cui, in definitiva, il giudice disciplinare ha concluso che l’errore del Dott. D.B. relativo all’omessa scarcerazione nella fase precedente la condanna non appariva “contrassegnata da quel coefficiente di inescusabilità della diligenza necessario ai fini di integrare l’illecito disciplinare contestato”.

Di qui la pronuncia assolutoria per insussistenza dell’addebito in riferimento al primo errore contestato.

2.3. Passando, poi, all’esame del secondo errore, la Sezione disciplinare ha affermato di dover pervenire ad una diversa conclusione.

Ed infatti, anche volendo dare seguito all’orientamento della giurisprudenza secondo cui il comportamento del magistrato può essere sindacato in sede disciplinare solo se sia indice di approssimazione, frettolosità o limitata diligenza, nel caso specifico l’incolpazione mossa al Dott. D.B. risultava pacificamente fondata. Questi, infatti, nel momento in cui venne a definire il procedimento penale a carico del C., avrebbe dovuto ancora una volta verificare che i termini di custodia erano scaduti già l’8 maggio 2012. Ma comunque, anche trascurando questo rilievo, rimaneva la circostanza decisiva per cui l’imputato era stato condannato alla pena di dieci mesi di reclusione e sei mesi di arresto; e poichè solo la pena prevista per un delitto consente l’applicazione delle misure coercitive (art. 280 c.p.p.), essendo l’imputato detenuto per quel titolo fin dal 27 agosto 2011, lo stesso avrebbe dovuto essere scarcerato sicuramente alla data del 26 giugno 2012, per intervenuta espiazione della pena. Ragione per cui il comportamento del Dott. D.B. era censurabile perchè aveva erroneamente conteggiato, ai fini di custodia, anche la pena detentiva irrogata per la contravvenzione.

Ne derivava in conclusione, secondo il giudice disciplinare, che ricorrevano sia le condizioni di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g), (grave ed inescusabile negligenza), sia quelle di cui all’art. 2, comma 1, lett. a) medesimo decreto, data la fondamentale importanza riconosciuta dalla costante giurisprudenza al bene della libertà personale; tanto più che era da considerare irrilevante la volontà di arrecare il danno una volta accertata in modo pacifico la negligenza del magistrato.

2.4. Compiuta tale ampia dimostrazione della fondatezza della seconda incolpazione, la Sezione disciplinare ha tuttavia affermato che ricorrevano le condizioni per dichiarare che la violazione aveva assunto, nella specie, il carattere della scarsa rilevanza.

Prendendo le mosse dalla pacifica giurisprudenza secondo cui la condotta è irrilevante dal punto di vista disciplinare se non ha compromesso l’immagine del magistrato, la sentenza ha osservato che la vicenda assunta nella sua globalità non aveva avuto tale effetto. Assumevano rilievo, in tal senso, il fatto che l’illecito era stato accertato solo a seguito di ispezione ordinaria, cioè circa cinque anni dopo i fatti; che l’imputato non aveva mai presentato istanza di riparazione del danno da ingiusta detenzione; che la misura detentiva patita era quella degli arresti domiciliari con il permesso di allontanarsi dall’abitazione, per esigenze di lavoro, dalle 7,30 alle 13,30; che il difensore aveva avanzato richiesta di scarcerazione solo in data 15 febbraio 2013, cioè venti giorni dopo l’avvenuta scarcerazione. Tutti questi fattori, uniti all’eccellente profilo professionale del Dott. D.B., definito “certamente lusinghiero”, ed al carattere del tutto isolato dell’episodio – che non aveva avuto alcuna eco mediatica – hanno condotto la Sezione disciplinare alla conclusione per cui l’illecito contestato, benchè realmente esistente, era da considerare scriminato ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis.

3. Contro la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura propone ricorso il Ministro della giustizia, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, con atto affidato a due motivi.

Il Dott. D.B., costituitosi con atto di nomina del difensore, ha successivamente depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1 e art. 2, comma 1, lett. g), nonchè mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b).

Osserva il Ministro ricorrente che la motivazione della sentenza nella parte in cui ha escluso uno degli addebiti non appare conforme alla consolidata giurisprudenza della Corte di legittimità. Ed infatti, dando per scontato che il giudice deve continuamente porre la massima attenzione alla persistenza delle condizioni alle quali la legge subordina la possibilità di privare chiunque della libertà personale, è pacifico l’orientamento in base al quale egli non può porre a scusante dell’indebita protrazione della custodia cautelare nè le manchevolezze dell’ufficio nella tenuta del fascicolo nè il fatto che altri colleghi prima di lui non abbiano messo in luce la prossima scadenza di quei termini. Data la centralità del diritto alla libertà personale, il motivo in esame ricorda che il magistrato che ometta di effettuare il controllo sulla scadenza dei termini di custodia cautelare può essere esonerato da responsabilità solo in presenza di impedimenti gravissimi, senza che la sua personale laboriosità possa avere alcun rilievo. Nella specie, poi, la detenzione si era protratta indebitamente per un tempo eccezionalmente lungo; e comunque, il controllo sulla persistenza delle condizioni per la custodia spetta proprio al giudice del dibattimento (art. 306 c.p.p.).

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, comma 1, art. 2, comma 1, lett. a) e g), e dell’art. 3-bis nonchè mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b).

Dopo aver ricordato i criteri seguiti dal giudice disciplinare per pervenire alla conclusione che il fatto contestato era di scarsa rilevanza, il Ministro ricorrente osserva che la motivazione della sentenza non sarebbe in linea con la giurisprudenza in argomento. La scarsa rilevanza del fatto dovrebbe essere valutata in rapporto all’effettiva offesa recata al singolo cittadino, mediante un accertamento da compiere ex post ed in concreto. La gravità del fatto contestato emerge, secondo il ricorrente, per la sola circostanza che la custodia cautelare si è protratta per oltre duecento giorni rispetto ai termini fissati dalla legge; e la trascuratezza del magistrato si è dimostrata proprio nella fase dibattimentale, nella quale egli disponeva di tutti gli elementi idonei alla valutazione complessiva della vicenda. La privazione della libertà personale costituirebbe di per sè un fatto tanto grave da non poter immaginare che il relativo illecito disciplinare sia ritenuto di scarsa rilevanza, tanto più che nel caso in esame non vi era alcun impedimento al pieno e regolare assolvimento dei propri compiti da parte del magistrato incolpato.

3. Osserva la Corte che i due motivi di ricorso, pur nella loro diversità, devono essere trattati congiuntamente in considerazione dell’intima connessione che li unisce.

3.1. La motivazione della sentenza della Sezione disciplinare del C.S.M. qui impugnata può essere divisa in due parti: la prima (di cui al punto n. 5.1.) riguarda la contestazione di mancata scarcerazione dell’imputato nel periodo che va dalla prima udienza tenuta in data 14 maggio 2012 fino alla data dell’udienza dibattimentale; la seconda riguarda il periodo successivo allo svolgimento del dibattimento, avvenuto in data 11 giugno 2012, fino a quando la scarcerazione non fu effettivamente disposta (25 gennaio 2013, punto n. 5.2. della sentenza).

Quanto al primo periodo la Sezione disciplinare è pervenuta ad una pronuncia assolutoria piena, mentre quanto al secondo la sentenza ha assolto il Dott. D.B. per essere il fatto di scarsa rilevanza.

3.2. Ritengono queste Sezioni Unite che il ricorso sia infondato in relazione alla prima parte della decisione, ma che la motivazione debba essere sul punto corretta.

La Sezione disciplinare ha affermato che, con riguardo al periodo che va dalla prima udienza fino alla data del dibattimento, sia configurabile la grave violazione di legge ascrivibile a negligenza dell’incolpato, potendosi tuttavia pervenire ugualmente alla sua assoluzione sulla base delle argomentazioni in precedenza riportate.

L’esito assolutorio si impone invece, ad avviso di questa Corte, in considerazione dell’errato computo dei termini di custodia cautelare di fase contenuto nella contestazione disciplinare.

La sentenza impugnata, infatti, ha ritenuto che il termine di fase fosse pari a sei mesi; per cui, essendo stato disposto il giudizio dibattimentale con decreto di citazione diretta in data 8 novembre 2011, quel termine era da considerare scaduto in data 8 maggio 2012, cioè addirittura prima che il fascicolo in questione fosse assegnato al Dott. D.B.. Va però tenuto in considerazione che l’imputato C. era stato tratto a giudizio con l’accusa di furto aggravato (art. 624 c.p. e art. 625 c.p., n. 4) con espressa contestazione della recidiva specifica, reiterata e infraquinquennale ai sensi dell’art. 99 c.p., comma 4. Ai fini dell’applicabilità delle misure coercitive, l’art. 280 c.p.p., comma 1, stabilisce come condizione che si proceda “per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni”; il precedente art. 278, ai fini dell’individuazione della pena per l’applicazione delle misure cautelari personali, dispone che non si tenga conto, fra l’altro, della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione, però, “delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle a effetto speciale”, dovendosi intendere per circostanze ad effetto speciale “quelle che importano un aumento o una diminuzione della pena superiore ad un terzo” (art. 63 c.p., comma 3). Si pone, dunque, il problema di stabilire se la contestazione della recidiva nei termini suindicati a carico dell’imputato C. potesse o meno avere un qualche effetto sui termini di custodia cautelare di fase.

La giurisprudenza penale di questa Corte ha insegnato, con la sentenza delle Sezioni Unite 24 febbraio 2011, n. 20798 (dep. il 24 maggio 2011, P.G. in proc. Indelicato), che la recidiva è da ritenere circostanza aggravante ad effetto speciale quando comporta un aumento di pena superiore ad un terzo; e l’art. 99 c.p., comma 4, dispone, com’è noto, un aumento della pena nella misura di metà nel caso di cui al comma 1 e di due terzi nei casi di cui al comma 2. Ne consegue che la recidiva specifica, reiterata e infraquinquennale deve ritenersi, in base alla citata giurisprudenza, una circostanza aggravante ad effetto speciale che, in quanto tale, rileva anche ai fini dell’art. 278 c.p.p.; per cui la pena edittale per il reato di furto aggravato (da due a sei anni di reclusione, art. 625 c.p., comma 1), dovendosi calcolare anche la contestata recidiva, supera necessariamente la soglia massima dei sei anni di reclusione, ricadendo, di conseguenza, nell’ipotesi di cui all’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b), n. 2), (termine di un anno), anzichè in quella di cui alla medesima lett. b), n. 1), come contestato nell’incolpazione disciplinare (termine di sei mesi).

La medesima giurisprudenza penale, del resto, ha insegnato che il mutamento della qualificazione giuridica del fatto non influisce sui termini di custodia cautelare delle fasi esaurite, con la conseguenza che, qualora con la sentenza di primo grado venga esclusa l’esistenza di un’aggravante, i termini di custodia cautelare per la fase di primo grado vanno commisurati in relazione alla qualificazione giuridica del fatto contenuta nel provvedimento che dispone il giudizio, mentre il contenuto del dispositivo della sentenza di primo grado rileva ai fini della commisurazione della custodia cautelare per quel che attiene alla fase successiva (così, da ultimo, la sentenza 26 giugno 2018, n. 44938, dep. 8 ottobre 2018, imputato F., in linea con la sentenza 8 gennaio 2010, n. 8840, dep. 5 marzo 2010, imp. Esposito). In altri termini, ciò significa che ai fini del computo dei termini di fase di cui all’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. b), si deve tener presente il reato così come contestato; ossia, nella specie, il reato di furto aggravato con l’ulteriore contestazione della recidiva.

La conclusione di tale ragionamento è, perciò, che l’assoluzione del Dott. D.B. dall’incolpazione in questione, per il periodo che va dall’assegnazione del fascicolo fino all’udienza dibattimentale, è da ritenere correttamente affermata dal Giudice disciplinare con la formula della insussistenza dell’addebito, ma all’esito del diverso percorso motivazionale appena illustrato; ossia senza che si possa profilare a carico del Magistrato alcuna violazione delle norme sulla custodia cautelare. Ne consegue l’irrilevanza di tutte le argomentazioni messe in campo dalla sentenza disciplinare per dimostrare come vi fosse stato sì un errore, ma non così grave da rendere tale negligenza inescusabile.

3.3. Il ricorso del Ministro della giustizia è invece fondato in relazione alla seconda parte della motivazione della sentenza in esame, che ha ad oggetto quanto è avvenuto dal giorno della celebrazione del dibattimento a carico dell’imputato (11 giugno 2012) fino a quello dell’effettiva sua scarcerazione (25 gennaio 2013).

A questo proposito è necessario sottolineare che la sentenza impugnata ha seguito un articolato percorso logico. Essa ha posto in luce, innanzitutto, che la derubricazione del reato da furto aggravato a furto semplice comportava l’inapplicabilità della misura coercitiva degli arresti domiciliari, posto che l’art. 624 c.p. prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni e che il citato art. 280 c.p.p., come si è visto, consente l’applicazione delle misure coercitive solo in relazione ai delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni. Dopo di che la sentenza ha affrontato il problema della recidiva riconosciuta dal Dott. D.B. all’esito del dibattimento, ai fini dell’innalzamento della pena e della conseguente applicabilità della misura coercitiva anche in caso di furto semplice.

Questa disquisizione, però, è stata poi in sostanza del tutto superata dalle ulteriori considerazioni compiute nel prosieguo della motivazione. La Sezione disciplinare, infatti, ha posto in luce come il Dott. D.B., concludendo il dibattimento con una sentenza di condanna alla pena di mesi dieci di reclusione per il reato di furto e mesi sei di arresto per la contravvenzione di cui all’art. 707 c.p. – reati entrambi dei quali l’imputato C. era stato ritenuto responsabile – avrebbe dovuto disporre la scarcerazione del medesimo, di lì a pochi giorni, per l’intervenuta espiazione della pena. Poichè, infatti, le misure coercitive non possono essere applicate per le contravvenzioni, il Magistrato avrebbe dovuto considerare a tale fine la sola pena detentiva di mesi dieci di reclusione; pena che andava a scadere il 26 giugno 2012. Ragione per cui, ha proseguito la Sezione disciplinare, il Magistrato era incorso anche nella violazione dell’art. 300 c.p.p., comma 4; violazione che, pur non essendo stata contestata formalmente, lo era stata “in fatto”, tanto che il Dott. D.B. si era anche difeso sul punto, ammettendo in sostanza di aver commesso un errore. La sentenza ha perciò concluso nel senso che la detenzione cautelare (anche se domiciliare) dell’imputato si sarebbe dovuta concludere comunque alla data del 26 giugno 2012; con la conseguenza che erano sussistenti entrambi gli illeciti contestati, di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a) e g).

3.4. La successiva motivazione della sentenza in esame, però, non è coerente rispetto alla corretta ricostruzione fin qui ricordata e non resiste alle censure del ricorso.

Giova ricordare, a questo proposito, che la giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha più volte ribadito, proprio in relazione all’incolpazione disciplinare conseguente alla mancata tempestiva scarcerazione degli imputati per decorrenza dei termini di custodia cautelare, una serie di principi che è opportuno richiamare.

E’ stato detto, al riguardo, che il magistrato ha il dovere di vigilare costantemente sul decorso dei termini di custodia cautelare (in tal senso già la sentenza 12 gennaio 2011, n. 507); che la libertà personale è un bene oggetto di espressa previsione costituzionale (art. 13 Cost.), la cui violazione è sanzionabile come illecito disciplinare (sentenza 29 luglio 2013, n. 18191); che la responsabilità disciplinare non viene meno per il fatto che vi siano carenze organizzative nell’ufficio giudiziario di appartenenza (sentenze 4 maggio 2017, n. 10794, e 25 luglio 2019, n. 20182); che non rileva, ai fini dell’applicazione dell’esimente della “scarsa rilevanza del fatto”, che l’imputato si trovasse agli arresti domiciliari, atteso che tale misura costituisce, comunque, una privazione della libertà personale equivalente alla custodia cautelare in carcere ai sensi dell’art. 284 c.p.p., comma 5; che, parimenti, sono del tutto ininfluenti sia la mancata richiesta di una riparazione per l’ingiusta detenzione da parte dell’imputato, sia la circostanza, di mero fatto, che l’episodio non abbia avuto alcuna risonanza pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa (sentenze 6 aprile 2017, n. 8896, 3 ottobre 2018, n. 24135, 19 febbraio 2019, n. 4887, 26 giugno 2019, n. 17120).

La Sezione disciplinare non ha fatto buon governo di questi principi.

La sentenza impugnata, infatti, dopo aver ritenuto sussistenti tutte le condizioni di legge integranti l’illecito contestato, ha finito poi con lo svalutare le proprie stesse precedenti affermazioni, dando rilievo decisivo a circostanze alle quali non potevano essere attribuite simili conseguenze. Ed infatti, ferma restando l’evidente contrarietà delle conclusioni alle quali è giunto il giudice disciplinare rispetto ai principi costantemente ribaditi da queste Sezioni Unite, la sentenza impugnata ha fatto leva su due argomenti principali: da un lato l’inidoneità della vicenda in esame a compromettere l’immagine ed il prestigio del magistrato, e dall’altro la sussistenza di una serie di elementi di fatto che consentivano di ritenere il fatto di scarsa rilevanza.

Occorre rilevare, invece, che l’indebita protrazione della custodia cautelare per un numero così cospicuo di giorni – dovendosi calcolare, nella specie, il periodo che va dal 26 giugno 2012 al 25 gennaio 2013 – è tale da escludere di per sè che possa qualificarsi l’addebito disciplinare in termini di scarsa rilevanza, anche in confronto con i suindicati precedenti; nè risulta che siano stati prospettati, neppure in astratto, quei gravissimi impedimenti all’assolvimento del dovere di garantire il diritto alla libertà personale degli imputati sottoposti a custodia cautelare ai quali fa riferimento, tra le altre, la sentenza n. 17120 del 2019 di queste Sezioni Unite.

E’ opportuno rilevare, infine, che l’ultima parte della sentenza impugnata – nel dare rilievo ad una serie di elementi che riguardano il profilo personale del Dott. D.B., del quale la Sezione disciplinare ha posto in luce l’eccellente professionalità, dimostrata dalla elevata produttività e dall’unanime apprezzamento del foro spezzino nei suoi confronti – finisce col confondere l’oggettività dell’episodio contestato con la personalità del Magistrato incolpato; mentre è chiaro che il disvalore di un certo comportamento assunto nella sua obiettività non può venire meno in considerazione del pur indubbio prestigio del quale il Magistrato stesso abbia sempre goduto.

4. In conclusione, il ricorso è accolto nei sensi di cui in motivazione.

La sentenza impugnata è cassata in relazione e il giudizio è rinviato alla Sezione disciplinare del C.S.M., in diversa composizione personale, la quale deciderà alla luce dei principi giurisprudenziali suindicati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia alla Sezione disciplinare del C.S.M., in diversa composizione personale.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020

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