Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3556 del 10/02/2017


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Cassazione civile, sez. un., 10/02/2017,  n. 3556

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19154-2015 proposto da:

D.C.J.E. (detto anche D.C.J.),

D.C.G., elettivamente domiciliati in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato

MASSIMILIANO DESALVI, per deleghe in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

D.C.R.A.L., elettivamente domiciliata in ROMA, presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dagli avvocati DANIELE SCHENA e TIZIANA MEVIO, per delega in calce

al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1987/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 11/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/10/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

uditi gli avvocati Pier Paolo MONTONE per delega dell’avvocato

Massimiliano Desalvi e Daniele SCHENA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. FUZIO RICCARDO,

che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

FATTI DELLA CAUSA

1. D.C.J.E. e D.C.G. hanno proposto ricorso per cassazione contro D.C.R.A.L. avverso la sentenza dell’Il maggio 2015, con la quale la Corte d’Appello di Milano ha rigettato il loro appello contro la sentenza del Tribunale di Sondrio del 6 marzo 2013, la quale, provvedendo sulla domanda, proposta dall’intimata nel settembre del 2008, aveva deciso alcune questioni pregiudiziali di rito, fra cui quella di sussistenza della giurisdizione sotto un duplice profilo, e una questione di merito, e rimesso la controversia in istruttoria per la decisione definitiva.

2. La domanda proposta dall’intimata aveva avuto ad oggetto, in via preliminare, la richiesta, nel caso di contestazione di un dedotto giudicato statunitense che le aveva riconosciuto lo status di figlia naturale del defunto D.C.D., l’accertamento della sua efficacia ai sensi della L. n. 28 del 1995, artt. 65 e 67 e in via principale e comunque (previo riconoscimento della paternità in capo al de cuius) l’accertamento di detto status, nonchè, previo accertamento della sua qualità di erede universale del de cuius, la condanna dei qui ricorrenti alla restituzione, ai sensi dell’art. 532 c.c., pro quota dei beni facenti parte dell’eredità del medesimo, previa riduzione delle disposizioni testamentarie effettuate dal de cuius in favore dei convenuti.

3. Al ricorso per cassazione – che prospetta cinque motivi, di cui il primo ed il quarto inerenti a questioni di giurisdizione, ragione per cui ne è stata rimessa la decisione alle Sezioni Unite – ha resistito con controricorso D.C.R.A.L..

4. I ricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare si rileva che la resistente ha inviato a mezzo posta un atto di costituzione – in aggiunta a quello originario – di un nuovo difensore, munito di procura rilasciata su di esso. L’atto, assimilabile ad una memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c., deve considerarsi irrituale quanto alla modalità di deposito, in quanto è stato depositato a mezzo posta: ciò, giusta il consolidato principio di diritto secondo cui: “L’art. 134 disp. att. c.p.c., comma 5 a norma del quale il deposito del ricorso e del controricorso, nei casi in cui sono spediti a mezzo posta, si ha per avvenuto nel giorno della spedizione, non è applicabile per analogia al deposito della memoria, poichè quest’ultimo è diretto esclusivamente ad assicurare al giudice ed alle altre parti la possibilità di prendere cognizione dell’atto con il congruo anticipo – rispetto alla udienza di discussione – ritenuto necessario dal legislatore e che l’applicazione del citato art. 134 finirebbe con il ridurre, se non con l’annullare, con lesione del diritto di difesa delle controparti” (da ultimo, Cass. (ord.) n. 7704 del 2016). La conclusione non cambierebbe se l’atto depositato non si considerasse assimilabile ad una memoria e si reputasse solo come atto di deposito di un atto processuale, la procura: infatti, non è previsto allo stato il deposito di atti a mezzo posta, ai sensi dell’art. 372 c.p.c..

1.1 Si deve, inoltre, aggiungere – nella logica dell’assimilazione dell’atto ad una memoria – che la procura risulterebbe rilasciata irritualmente, in quanto non è applicabile al giudizio, che è iniziato nel 2008, il primo inciso dell’art. 83 c.p.c., comma 3 là dove consente che la procura venga rilasciata su una memoria: vi osta il regime transitorio della L. n. 69 del 2009, art. 58, comma 1 il cui art. 45 ha introdotto la modifica.

2. Ancora in via preliminare si deve rilevare che, nel giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza impugnata, era stata ravvisata la necessità dell’intervento obbligatorio del pubblico ministero, in ragione della circostanza che oggetto della sentenza di primo grado impugnata era stata anche la decisione di questioni di carattere preliminare inerenti anche all’azione di riconoscimento della paternità che era stata introdotta dalla qui resistente. La Corte meneghina aveva in conseguenza rimesso sul ruolo la controversia e disposto la comunicazione degli atti ai sensi dell’art. 71 del c.p.c. Il Pubblico Ministero, all’esito, non era intervenuto. Il ricorso per cassazione non è stato notificato al Pubblico Ministero, ma l’omissione non è rilevante, giusta il principio di diritto secondo cui: “Con riferimento al ricorso per cassazione proposto da una parte e non notificato al P.M. presso il giudice a”a quo” in un procedimento in cui è previsto l’intervento dello stesso, la mancanza di notifica – che non costituisce motivo di inammissibilità, improcedibilità o nullità del ricorso – non rende neppure necessaria l’integrazione del contraddittorio tutte le volte che (come nel caso di specie), non avendo il P.M. il potere di promuovere il procedimento, le sue funzioni si identificano con quelle svolte dal procuratore generale presso il giudice “ad quem” e sono assicurate dalla partecipazione di quest’ultimo al giudizio di impugnazione; mentre, la suddetta integrazione è necessaria nelle sole controversie in cui il P.M. è titolare del potere di impugnazione, trattandosi di cause che avrebbe potuto promuovere o per le quali il potere di impugnazione è previsto dall’art. 72 cod. proc. civ. (Cass. sez. un. n. 9743 del 2008).

3. Tanto premesso, rileva il Collegio che appare, altresì, necessario interrogarsi, anche per evidenti ragioni di nomofilachia, sull’ammissibilità del ricorso in relazione al disposto dell’art. 360 c.p.c., comma 3. Queste le ragioni.

3.1. Com’è noto dell’art. 360 cod. proc. civ., il comma 3 introdotto con il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma della L. 14 maggio 2005, n. 80, art. 1, comma 2) – prevede che “Non sono immediatamente impugnabili con ricorso per cassazione le sentenze che decidono di questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio. Il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può essere proposto, senza necessità di riserva, allorchè sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente, il giudizio”. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 25774 del 2015, abbandonando un principio precedentemente enunciato in senso contrario, hanno affermato che “La sentenza, con cui il giudice d’appello riforma o annulla la decisione di primo grado e rimette la causa al giudice “a quo” ex artt. 353 o 354 c.p.c., è immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione, trattandosi di sentenza definitiva, che non ricade nel divieto, dettato dall’art. 360 c.p.c., comma 3, di separata impugnazione in cassazione delle sentenze non definitive su mere questioni, per tali intendendosi solo quelle su questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito che non chiudono il processo dinanzi al giudice che le ha pronunciate”.

3.2. Come emerge dalla complessiva motivazione della sentenza (ed anche dal riferimento a Cass. sez. un. n. 23891 del 2010, che concerneva un caso di decisione di un giudice speciale emessa in grado d’appello, affermativa della giurisdizione e nel contempo decisiva di questioni inerenti il merito), il principio è stato chiaramente enunciato con riferimento all’ipotesi in cui la sentenza di cui discorre la norma si formi all’interno del giudizio di appello, cioè esclusivamente per effetto della decisione adottata dal giudice investito dell’appello di pronunciare una sentenza sulla questione di merito o di rito. Gli stessi ragionamenti risultano adeguati rispetto all’ipotesi in cui il giudice sia eccezionalmente abilitato a pronunciare in unico grado una sentenza immediatamente ricorribile in Cassazione e decida a sua volta di pronunciare una sentenza su questione. La citata sentenza, invece, non ha svolto rilievi specifici sull’ipotesi, che qui ricorre, in cui una sentenza non definitiva venga pronunciata in primo grado ed essendo stata essa appellata in via immediata, abbia luogo la decisione del giudice d’appello. Risulta, dunque, non ancora approfondito il problema dell’eventuale applicabilità dell’art. 360 c.p.c., comma 3, alla decisione, che il giudice d’appello renda su una sentenza appellata in via immediata ai sensi dell’art. 340 c.p.c. (e naturalmente non lo faccia rimettendo la causa al primo giudice). Si rileva, d’altro canto, che questo approfondimento non è stato fatto da una decisione che – avallando implicitamente una soluzione positiva del problema – ebbe ad affermare, “in applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 3, come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2”, che “non è immediatamente impugnabile con ricorso per cassazione la sentenza con la quale la Corte d’appello abbia confermato la sentenza non definitiva del Tribunale dichiarativa della giurisdizione del giudice ordinario, trattandosi di pronuncia che, limitandosi a decidere sulla questione pregiudiziale insorta, non è idonea a definire, neppure parzialmente, il giudizio” (Cass. sez. un. n. 20569 del 2014). L’applicazione del principio di cui a questa sentenza indurrebbe ad escludere l’ammissibilità del ricorso in esame. La mancanza di un approfondimento dell’indicato problema, in unione al fatto che l’arresto del 2015 non se n’è occupato expressis verbis, giustifica, però, che vi si proceda ora in questa sede.

3.3. Mette conto, in proposito, di prendere le mosse dall’espressione usata dall’art. 360 c.p.c., comma 3 quando allude alle “sentenze che decidono di questioni insorte, senza definire, neppure parzialmente il giudizio”. Essa contiene una nozione, quella di “assenza di definizione anche parziale del giudizio”, la quale si rivela non solo idonea ad assumere rilievo agli effetti dell’individuazione del se e quando nell’ipotesi di pronuncia del giudice d’appello su una sentenza impugnata in via immediata ai sensi dell’art. 340 c.p.c., quella pronuncia possa, in relazione al suo contenuto, reputarsi compresa nel disposto della norma. Peraltro, detta nozione si presta ad essere intesa in due diversi modi, che possono condurre a soluzioni opposte di quel problema.

3.3.1. Il primo modo di leggere la ricordata espressione (quando ci si riferisce a sentenza pronunciata in grado di appello, essendo la problematica in esame estranea all’ipotesi di pronuncia in unico grado) suppone che il giudizio cui la norma si riferisce sia solo il giudizio d’appello ed evidentemente il giudizio d’appello per come devoluto dall’impugnazione.

Questo modo di intendere il riferimento al giudizio implica che la norma comprenda solo l’ipotesi di definizione con una sentenza parziale, da parte del giudice d’appello e per sua iniziativa, di una questione di merito o di rito nel senso della infondatezza, cui si accompagni la disposizione della prosecuzione del giudizio per la definizione della residua parte del giudizio in grado d’appello stesso, ai sensi dell’art. 279 c.p.c., n. 4, applicabile al giudizio di appello ai sensi dell’art. 359 c.p.c., di modo che la mancanza di definizione anche solo parziale del giudizio concerne il giudizio stesso in quanto esso è pendente nella sua interezza in grado di appello ed è in esso che il giudice d’appello pronuncia la sentenza cui allude il terzo comma dell’art. 360 c.p.c..

3.3.2. Il secondo modo suppone, invece, che si tratti non soltanto del giudizio svoltosi nel grado di appello in cui la decisione viene pronunciata, ma del giudizio come tale, cioè in quanto, in ipotesi, pendente anche aliunde, cioè nella sua interezza.

Tale modo implica che la norma possa comprendere anche l’ipotesi in cui il giudizio non sia definito perchè: a) pende in primo grado per quell’altra parte, diversa da quella decisa in appello, per cui era stata disposta la prosecuzione dal giudice di primo grado all’atto della pronuncia della sentenza parziale appellata in via immediata ai sensi dell’art. 340 c.p.c.; b) pende per quella stessa parte, ma nel senso della pendenza del termine di impugnazione per l’appello contro la decisione su di essa intervenuta in primo grado ed appellata ai sensi dello stesso art. 340 c.p.c.; c) pende ancora per quella stessa parte, ma ormai, a seguito di appello contro tale decisione e, quindi, in grado appello, senza che si sia potuta avere, per questioni temporali, una decisione congiunta con la decisione resa sull’appello immediato avverso la parziale.

Questo secondo modo di intendere il riferimento al giudizio risulta, dunque, idoneo a comprendere, oltre all’ipotesi identificabile alla stregua del primo modo, ora indicata, anche le ipotesi ora indicate, che, in definitiva, ricorrono allorquando sia stata emessa una sentenza non definitiva su questione preliminare di rito o di merito dal giudice di primo grado ed essa, anzichè essere stata assoggettata a riserva di impugnazione con l’appello contro la sentenza definitiva, a norma dell’art. 340 c.p.c., sia stata invece impugnata in via immediata davanti al giudice dell’appello e questo pronunci la sua decisione sull’appello. E’ in tale ipotesi che si iscrive il ricorso in esame.

3.4. Ora, i contenuti della decisione sull’appello in questo caso possono essere diversi, perchè:

a) l’appello può essere definito con una pronuncia di rito, di inammissibilità o improcedibilità o che dia rilievo ad altra ragione di rito impediente la decisione sull’oggetto dell’impugnazione, con la conseguenza del consolidamento, in mancanza di impugnazione in Cassazione di detta pronuncia, della decisione parziale emessa dal primo giudice; b) l’appello può, invece, essere deciso “nel merito” con riferimento ai motivi dell’impugnazione e rigettato, con conseguente conferma della decisione parziale di primo grado impugnata, se del caso anche per ragioni e motivazioni diverse, di modo che risulti nuovamente decisa la questione di rito o di merito già risolta dal primo giudice; c) l’appello può essere deciso sempre con riferimento al merito dell’impugnazione, ma con la riforma della sentenza di primo grado non definitiva e, quindi, con il riconoscimento della fondatezza della questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito.

3.5. Nei casi sub a) e sub b) occorre rilevare che, quanto al residuo oggetto del giudizio, resta confermata l’esigenza della sua prosecuzione, già disposta dal primo giudice quando adottò la sentenza non definitiva poi appellata in via immediata, oppure da riprendere, nel caso di sospensione ai sensi del quarto comma dell’art. 279 c.p.c..

Va avvertito che le ipotesi sub a) e sub b) si prestano a comprendere, peraltro, anche il caso, in cui la sentenza di primo grado abbia deciso nel senso dell’infondatezza (per ragioni di “merito” o di rito) una delle questioni soggette al regime degli artt. 353 e 354 c.p.c. (di cui si è occupata Cass. sez. un. n. 24774 del 2015), ed il giudice d’appello abbia a confermare in rito o nel merito la decisione parziale di primo grado che sia stata immediatamente appellata.

Anche il caso sub c) si presta a comprendere, sia l’ipotesi in cui la questione decisa con sentenza parziale nel senso della infondatezza dal primo giudice fosse estranea a quelle soggette al regime degli artt. 353 e 354 c.p.c., sia l’ipotesi in cui si tratti di una di esse.

Nel primo caso la sentenza è da considerare certamente definitiva del giudizio davanti al giudice dell’appello, perchè la decisione provvede su tutto ciò che con l’appello a quel giudice era stato devoluto e, quindi, su tutto il giudizio di appello, ma è anche definitiva rispetto al giudizio nella sua interezza, in quanto il suo consolidarsi per difetto di impugnazione, essendo stata decisa la questione di merito o di rito nel senso della fondatezza e, quindi, della idoneità a giustificare una soluzione di rigetto della domanda, acquisisce il valore di giustificare la sua chiusura.

Ne segue che la sentenza nel caso sub c) è certamente estranea all’art. 360 c.p.c., comma 3.

Nel secondo caso, solo all’apparenza si evidenzia una definitività che si correla non alla (idoneità della sentenza alla) definizione del giudizio nella sua interezza, ma alla sua definizione per come devoluto in appello.

La peculiarità di tale fattispecie è, infatti, che la sentenza esplica effetti anche sul giudizio nella sua interezza, ma li esplica nel senso che tale giudizio deve ricominciare ex novo. Proprio perchè il giudizio deve ricominciare daccapo (nei casi di cui all’art. 354 c.p.c. davanti al giudice civile, nel caso dell’art. 353 davanti al giudice della giurisdizione dichiarata diversa da quella civile), si può ritenere che, in realtà, una definizione del giudizio allora vi sia anche se lo si consideri nella sua interezza e ciò perchè quello che deve ricominciare risulta, a ben vedere, un giudizio che, in quanto da rinnovarsi, dev’essere nuovamente deciso nella sua interezza.

Può dunque, dirsi, che questa ipotesi si presta ad essere esclusa dall’ambito dell’art. 360 c.p.c., comma 3 come è stato ritenuto da Cass. sez. un. n. 25774 del 2015 anche se si intende il riferimento alla definizione del giudizio nel duplice modo su indicato.

3.6. Per entrambe le ipotesi, poi, la conferma che si è al di fuori dell’art. 360 c.p.c., comma 3 si rinviene comunque nella circostanza che il legislatore, allorquando introdusse quella norma, non abrogò l’art. 129-bis disp. att. c.p.c., il quale, continuando a disporre sugli effetti della proposizione del ricorso per cassazione della sentenza di appello che abbia riformato “alcuna delle sentenze previste dall’art. 279, n. 4, comma 2”, suppone manifestamene che quella sentenza possa essere impugnata in via immediata in Cassazione e non consente in alcun modo di ricondurla all’art. 360 c.p.c., comma 3 pur se essa ha innegabilmente deciso su una questione.

3.7. Nei casi indicati retro sub a) o sub b), una volta che si applichi la distinzione fra definizione del giudizio di appello e definizione del giudizio nella sua interezza, si ha che: al) sotto il primo aspetto, il giudizio di appello, per come devoluto dall’impugnazione ai sensi dell’art. 340 c.p.c., è formalmente definito in via totale, di modo che la fattispecie si collocherebbe al di fuori dell’art. 360 c.p.c., comma 3; a2) sotto il secondo aspetto, al contrario, non si può negare che il consolidamento della decisione di primo grado denegatoria della fondatezza della questione di rito o di merito, che deriverebbe da quello della sentenza confermativa resa dal giudice d’appello (per ragioni di rito impedienti l’esame dell’appello immediato o per ragioni di merito), riguardi una questione che non ha definito nemmeno parzialmente il giudizio: più precisamente, in ragione della sopravvenienza della decisione del giudice d’appello confermativa nel merito, quella questione risulta nuovamente decisa da questo giudice e la decisione non è più riconducibile alla decisione di primo grado, tanto se il giudice d’appello abbia condiviso la sua motivazione quanto se ne abbia enunciato un’altra, ma conducente sempre all’esito di infondatezza della questione. In ragione della sentenza del giudice d’appello che definisca in rito l’appello immediato, parimenti l’efficacia consolidata della sentenza parziale di primo grado irritualmente impugnata non è tale da definire neppure parzialmente il giudizio.

Ne segue che in entrambi i casi, la sentenza del giudice d’appello, quanto alla mancanza di decisione anche solo parziale del giudizio, parrebbe perfettamente equiparabile alla sentenza che egli, investito di un appello contro sentenza di primo grado definitiva dell’intero giudizio, rendesse di sua iniziativa sulla questione sulla base dell’art. 359 c.p.c., che giustifica anche davanti a lui l’applicabilità dell’art. 279 c.p.c., n. 4: sentenza che si è visto essere riconducibile all’art. 360, comma 3.

Per tali ragioni parrebbe, dunque, essersi in presenza di una sentenza che, non diversamente da quella resa dal giudice di primo grado, ha comunque l’effetto di non determinare, nemmeno parzialmente, la definizione del giudizio nella sua interezza.

Al contrario, la sentenza definisce il giudizio, se per tale si intende il solo giudizio di appello.

3.8. Alla stregua di un’interpretazione teleologica si potrebbe pensare che, avendo il legislatore inteso escludere che davanti alla Corte di cassazione pervengano ricorsi relativi a decisioni che non hanno nemmeno parzialmente definito il giudizio, la situazione che si coglie nella pronuncia della sentenza del giudice d’appello confermativa per ragioni di rito o di merito della sentenza parziale su questione resa dal giudice di primo grado e impugnata in via immediata ai sensi dell’art. 340 c.p.c., non essendosi fatta riserva di appello, meriti lo stesso trattamento della sentenza parziale su questione resa dal giudice d’appello di sua iniziativa a seguito di un appello avverso una sentenza definitiva di primo grado.

Il dato oggettivo che il giudizio, cioè l’oggetto della controversia con riguardo alla domanda che con esso è stata introdotta, non risulta anche in questo caso deciso, definito, secondo la formulazione usata dalla legge, indurrebbe a concludere che la sentenza non sia ricorribile per cassazione, ma possa esserlo solo con la sentenza che definisce anche parzialmente il giudizio.

Solo se il riferimento alla definizione del giudizio lo si intende correlato esclusivamente alla definizione del giudizio per come devoluto al giudice d’appello, al contrario la sentenza si colloca al di fuori dell’art. 360 c.p.c., comma 3.

3.9. Ma, poichè la norma consente di per sè sia l’una che l’altra esegesi, occorre ricercare aliunde le ragioni per scegliere quella corretta.

3.10. Ritengono le Sezioni Unite che vi siano almeno quattro ragioni, che depongono a favore della lettura dell’art. 360, comma 3, nel senso che l’ipotesi di cui si discorre non sia compresa nella sua previsione, cioè a favore dell’opzione per cui la mancanza di definizione del giudizio debba intendersi riferita al solo giudizio di appello.

3.10.1. La prima di esse discende dalla sede in cui la norma del terzo comma si colloca. Essa è quella di una disposizione che ha ad oggetto l’individuazione delle sentenze ricorribili per cassazione.

Poichè il comma 3 si connota come un’eccezione alla regola generale espressa dall’art. 360, comma 1, quando in esso il legislatore allude alla non impugnabilità delle “sentenze che decidono di questioni insorte senza definire neppure parzialmente il giudizio”, si deve ritenere che intenda riferirsi – ai sensi del primo comma della norma – ad una sentenza emessa in grado d’appello o in unico grado, che decida della questione senza definire il giudizio, perchè essa è insorta nel grado in cui la sentenza è pronunciata. L’insorgenza che determina la decisione dipende dal fatto che il giudice di quel grado ritenga di pronunciare solo sulla questione.

Ne segue che, poichè, nell’ipotesi di impugnazione immediata ai sensi dell’art. 340 c.p.c. non è il giudice d’appello a poter scegliere di decidere sulla questione, ma è l’impugnazione, l’appello immediato, a imporgli di decidere sulla decisione relativa ad una questione, detta ipotesi sembra collocarsi al di fuori di quanto previsto dalla norma.

3.10.2. La seconda ragione si rinviene alla stregua del principio interpretativo che impone di leggere la norma in modo coerente con il suo scopo.

Poichè il legislatore, che ha introdotto dell’art. 360, il comma 3 lo ha fatto lasciando immutata la previsione dell’art. 340 c.p.c. e, quindi, la possibilità di impugnare immediatamente in appello la sentenza parziale resa dal giudice di primo grado, escludere che la sentenza confermativa (per ragioni di rito o di merito) di essa, resa dal giudice d’appello, possa essere immediatamente impugnata in Cassazione, valorizzando la sua indubbia attitudine a non definire nemmeno parzialmente il giudizio nella sua interezza, determinerebbe un’evidente contraddizione.

Non si comprenderebbe come sia consentito di ridiscutere la sentenza parziale resa dal primo giudice immediatamente con l’appello e, poi, intervenuta la decisione del giudice d’appello, si precluda alla parte che veda confermata la decisione, di esercitare ancora il diritto di impugnazione con il ricorso per cassazione.

L’unica ragione che potrebbe giustificare la preclusione si dovrebbe rinvenire nel senso che, essendo stata la soluzione nel “merito” della questione condivisa (nel senso della infondatezza) da due giudici, quello di primo grado e quello di appello, l’esclusione dell’impugnazione immediata dipenda dalla circostanza che il legislatore abbia inteso attribuire particolare valore a questa condivisione e, quindi, per tale ragione procrastinare l’ulteriore discussione in Cassazione al momento dell’impugnazione della sentenza definitiva, riconoscendo giustificata una sorta di stabilità nelle more della decisione sulla questione.

Questa giustificazione, peraltro, non potrebbe valere anche con riferimento all’ipotesi in cui l’appello contro la sentenza parziale, resa dal primo giudice, venga rigettato dal giudice d’appello per ragioni di rito: è palese che in questo caso vi sono decisioni distinte dal primo e del secondo giudice. In questa ipotesi, l’argomento decisivo potrebbe essere solo quello per cui la decisione resa dal giudice d’appello non ha deciso sulla questione decisa dal primo giudice ma sulla ritualità dell’appello contro la sentenza resa da quel giudice e, dunque, come s’è adombrato sopra, è per questo che si è fuori dalla nozione di sentenza che decida su questione, evocata dall’art. 360 c.p.c., comma 3.

3.10.3. Una terza ragione si potrebbe rinvenire in buona sostanza nella difficoltà di immaginare, in relazione alla fattispecie della sentenza del giudice d’appello confermativa della sentenza parziale di primo grado immediatamente impugnata, il modus operandi – alla stregua del secondo inciso dell’art. 360 c.p.c., comma 3 – della sua impugnazione in Cassazione, “allorchè sia impugnata la sentenza che definisce, anche parzialmente il merito”.

Tanto se, dopo la pronuncia della sentenza parziale di primo grado, il giudizio di primo grado sia proseguito e non sia stato ancora deciso, quanto se esso sia stato sospeso a norma dell’art. 279 c.p.c., comma 4, quanto se frattanto sia stata pronunciata la sentenza definitiva e penda il termine di impugnazione in appello o essa sia stata appellata, è palese che il ricorso per cassazione potrebbe essere proposto solo quando sopravvenga la sentenza definitiva del giudizio per effetto di una pronuncia in appello, perchè a sua volta solo quest’ultima potrebbe essere impugnata in Cassazione.

Conseguentemente: aa) nel caso di prosecuzione del giudizio in primo grado, occorrerebbe attendere che sia pronunciata la sentenza definitiva dal primo giudice, che essa sia appellata e che il giudice d’appello decida su di essa; bb) nel caso di sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 279 c.p.c., comma 4, occorrerebbe attendere che, all’esito della riassunzione del giudizio stesso (possibile dopo la sentenza che definisce il giudizio di appello sulla sentenza parziale e da farsi a sensi dell’art. 125-bis disp. att. c.p.c.), venga pronunciata la sentenza definitiva dal giudice di primo grado, che essa venga appellata e che su di essa abbia luogo la decisione del giudice d’appello; cc) analogamente, ove sia stata pronunciata la sentenza definitiva di primo grado e penda il termine per l’impugnazione ovvero l’impugnazione sia avvenuta, ma non si sia ancora avuta la decisione, occorrerà attendere che sopravvenga (nel primo caso dopo l’impugnazione) la decisione del giudice di appello.

In tutte tali ipotesi, naturalmente, l’impugnazione della sentenza di conferma della sentenza parziale resa dal primo giudice sarà soggetta alla regola dell’interesse ad impugnare e sarà possibile se la sentenza definitiva del giudice d’appello, con il suo esito, non faccia venir meno quell’interesse.

In tutte le ipotesi è evidente che l’operare del principio della previsione dell’impugnazione congiunta con l’impugnazione della sentenza che definisce anche solo parzialmente il giudizio risulta da una dinamica complessa, ma di possibile realizzazione, che suppone necessariamente che la sentenza definitiva di primo grado sia stata impugnata davanti al giudice d’appello, non essendo possibile certo ipotizzare che l’art. 360, comma 3, quando allude alla sentenza definitiva con cui potrebbe impugnarsi la parziale confermativa alluda a quella che rivesta tale natura in primo grado.

Vi osta la mancanza di una previsione che consenta la proposizione di un ricorso per cassazione congiunto contro la sentenza parziale confermativa di quella resa dal primo giudice e contro la sentenza definitiva di primo grado, con una sorta di ricorso per saltum contro la seconda.

Non dirimente appare, invece, un argomento basato sull’interesse ad impugnare, prospettato da una dottrina in sede di commento alla sentenza n. 24474 del 2015. L’argomento è che potrebbe verificarsi il caso in cui, contro la sentenza definitiva resa dal giudice di primo grado, colui che abbia visto pronunciare in senso a lui sfavorevole sentenza di conferma in appello di sentenza parziale su questione resa dallo stesso primo giudice, potrebbe non avere ragioni di impugnazione, nel senso che la decisione definitiva resa dal primo giudice sulle altre questioni su cui il giudizio era proseguito (o venga deciso a seguito di riassunzione dopo sospensione) sia per lui, perchè abbia risposto bene alle sue difese, condivisibile e, dunque, non più criticabile (ancorchè riguardo al suo oggetto antecedentemente vi fosse stata contestazione).

Effettivamente, in tal caso, il soccombente sulla parziale confermativa, che invece dissenta solo da tale decisione, non avrebbe il mezzo per sottoporla a discussione, perchè non potrebbe impugnare se non argomentando un appello infondato nel suo stesso interiore convincimento – la decisione definitiva di primo grado e, quindi, provocare la decisione definitiva del giudice d’appello. Resterebbe solo la possibilità che l’appello sulla definitiva del giudice di primo grado venga proposto dalla controparte o da altre parti. L’argomento non è, però, dirimente.

A parte la possibilità di impugnare la definitiva anche se si sia convinti che essa abbia deciso bene le altre questioni oggetto della materia del contendere ed a parte la possibilità, che pure si potrebbe immaginare, di giustificarne l’impugnazione solo come mezzo per ottenere una sentenza definitiva del giudice d’appello che consenta di impugnare la parziale confermativa da lui resa, si deve rilevare che la situazione ravvisata dalla dottrina in discorso è possibile si verifichi anche per effetto del meccanismo dell’art. 340 c.p.c., cioè allorquando la sentenza parziale pronunciata dal giudice di primo grado nel senso della infondatezza della questione pur idonea astrattamente a definire il giudizio, sia stata assoggettata a riserva di impugnazione e, successivamente la sentenza definitiva decida sul resto della controversia in modo che il soccombente sulla parziale, che aveva fatto la riserva, non abbia ragioni per censurare la decisione definitiva.

Anche in tal caso il soccombente sulla parziale dovrebbe impugnare la definitiva senza far valere ragioni contro di essa che non siano quella che essa si basa comunque sulla decisione resa sulla parziale, anch’essa congiuntamente impugnata. Eppure non è dubitabile che quel soccombente possa impugnare le due sentenze in realtà svolgendo censura diretta solo sulla parziale, nella prospettiva che, cadendo essa, la questione venga risolta nel senso della fondatezza e, quindi, in modo da definire il giudizio nella sua interezza.

La differenza è, allora, che in questo caso comunque l’impugnazione congiunta cui allude dell’art. 340 c.p.c., il comma 2 è possibile in via diretta. Nel caso della sentenza confermativa di una sentenza parziale, emessa dal giudice d’appello, viceversa, per realizzarsi l’impugnazione congiunta occorrerebbe prima che si verifichi l’impugnazione della sola sentenza definitiva e che su di essa il giudice d’appello decida.

Ora, il legislatore della riforma introduttiva dell’art. 360 c.p.c., comma 3 nulla ha previsto al riguardo e l’interprete sarebbe costretto ad immaginare un meccanismo del tutto farraginoso qual è quello dell’impugnazione della sentenza di primo grado definitiva con motivi di ci non si convinti, al solo fine di ottenere una sentenza definitiva di appello per poi esercitare l’impugnazione congiunta di cui alla norma.

3.10.4. Vi è, in fine, come quarta ragione, da considerare che l’avere il legislatore lasciato immutata la norma dell’art. 129-bis disp. att. c.p.c., acquisisce un sostanziale valore, nel senso di escludere l’intentio legis di ricomprendere nella fattispecie dell’art. 360 c.p.c., comma 3 l’ipotesi di sentenza del giudice d’appello confermativa della sentenza parziale resa dal primo giudice ed appellata in via immediata: invero, la norma, là dove continua ad alludere all’ipotesi del “se sia stato proposto ricorso per cassazione contro sentenza d’appello che abbia riformato alcuna delle sentenze previste dall’art. 279 cit. cod., n. 4” e prevede un potere di sospensione del giudice d’appello, intende anche dettare una regola in senso contrario, cioè escludere che una sospensione possa darsi se la sentenza sia stata di conferma, così rivelando implicitamente che il legislatore della riforma dell’art. 360, comma 3, ha dato per scontata la possibilità che il ricorso per cassazione sia proponibile anche contro di essa, perchè estranea al disposto di quella norma.

Se, nell’introdurre dell’art. 360 c.p.c., il comma 3 l’intento del legislatore fosse stato quello di vietare l’impugnazione immediata della sentenza confermativa di quella non definitiva di primo grado resa dal giudice d’appello, sarebbe stato coerente che quello stesso legislatore, specie di fronte agli altri indici contrari che si sono individuati, intervenisse sull’art. 129-bis mutandone l’esordio, che induce il convincimento che la fattispecie colà disciplinata si inserisce in una di normale ricorribilità delle sentenze rese dal giudice d’appello sull’appello immediato ai sensi dell’art. 340 c.p.c. Invero, la permanente previsione del “se” ha questo significato.

3.11. Le complessive considerazioni svolte inducono allora a ritenere, in definitiva, che il dubbio sull’esegesi del terzo comma dell’art. 360, quando allude alla “sentenze che decidono su questioni, senza definire neppure parzialmente il giudizio”, debba sciogliesi nel senso che il legislatore abbia inteso riferirsi non alla mancanza di definizione del giudizio nella sua interezza e, quindi, nella sua complessiva situazione di pendenza, bensì alla mancanza di definizione del giudizio per come devoluto al giudice d’appello.

Ne discende che il ricorso in esame deve ritenersi ammissibile alla stregua del seguente principio di diritto: “L’art. 360 c.p.c., comma 3, quando allude alle “sentenze che decidono questioni insorte senza definire, neppure parzialmente, il giudizio”, intende riferirsi con il termine “giudizio” al giudizio devoluto a giudice d’appello e non al giudizio nella sua complessiva situazione di pendenza. Ne consegue: a) che la norma si applica esclusivamente all’ipotesi in cui il giudice d’appello, ai sensi dell’art. 279 c.p.c., comma 2, n. 4, applicabile al giudizio di appello ai sensi dell’art. 359 c.p.c., pronunci una sentenza parziale su una delle questioni di cui allo stesso art. 279, nn. 1, 2 e 3 senza definire il giudizio d’appello ed impartisca provvedimenti per l’ulteriore prosecuzione del giudizio stesso; b) che la norma non intende riferirsi, invece, all’ipotesi in cui, a seguito di appello immediato ai sensi dell’art. 340 c.p.c. contro una sentenza resa dal giudice di primo grado ai sensi dell’art. 279 c.p.c., n. 4 il giudice di appello rigetti nel merito o in rito l’appello, così confermando la statuizione del primo giudice, con la conseguenza che in questo caso la sentenza è immediatamente ricorribile per cassazione”.

3.12. Il ricorso in decisione dev’essere, pertanto, considerato ammissibile, perchè la sentenza impugnata, non essendo soggetta al regime dell’art. 360 c.p.c., comma 3, è stata correttamente impugnata in via immediata.

p.4. Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 3: il difetto della giurisdizione per intervenuta sentenza cilena; violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 64, 65, 66 e 67”.

Il motivo concerne le ragioni, con le quali la corte territoriale ha disatteso il motivo di appello con cui i qui ricorrenti si erano doluti della decisione di primo grado, là dove si era rifiutata di prendere atto dell’efficacia che su un’azione identica a quella esercitata e, quindi, in modo da precludere l’azione esercitata dinanzi al giudice italiano, avrebbe dispiegato una pronuncia, intervenuta in primo grado da parte del Tribunale Civile di Santiago del Cile (che aveva rigettato un ricorso della D.C.R., diretto ad ottenere “l’ampliamento dell’ordinanza dichiarativa di possesso effettiva emessa in data 21 marzo 1983 in ragione di figlia” di D.C.D. e di inclusione della stessa quale figlia del dante causa) e quella di rigetto dell’appello su di essa, emessa dalla Corte di Appello di Santiago del Cile.

La corte meneghina, dopo avere disatteso – con richiamo alla L. n. 218 del 1995, art. 67, u.c. – la motivazione con cui il Tribunale di Sondrio aveva negato, l’efficacia di quei provvedimenti stranieri per difetto di delibazione, ha rigettato con altra motivazione il motivo di appello, con considerazioni che si sono sviluppate nel punto 1), la cui esposizione inizia dal rigo 15 della pagina 4 e termina al rigo 2 della pagina 6.

In tale esposizione, la sentenza impugnata ha enunciato due motivazioni in ordine gradato.

Con la prima ha affermato che dalla documentazione prodotta (il fascicolo della procedura cilena) non solo non emergevano elementi sufficienti per ritenere che l’azione decisa davanti al giudice cileno fosse di identico contenuto rispetto a quella esercitata davanti al giudice italiano, ma che anzi doveva escludersi che si evidenziasse finanche una relazione di connessione o di pregiudizialità.

Solo “a conferma” e, quindi, in modo aggiuntivo all’autonoma motivazione enunciata, la corte milanese ha soggiunto che gli appellanti non erano stati parti del giudizio cileno, per inferirne che a maggior ragione non si configurava una identità degli effetti pratici perseguiti con i provvedimenti richiesti nell’uno e nell’altro caso.

Ancora in via aggiuntiva ha, poi, osservato che sempre l’assenza della qualità di parte in capo agli appellanti ed odierni ricorrenti non li legittimava a chiedere il riconoscimento dell’efficacia delle pronunce cilene nel giudizio italiano.

4.1. L’illustrazione del primo motivo a critica della motivazione in questione procede con cinque paragrafi indicati dalla lettera a) alla lettera e).

4.2. Quanto alle argomentazioni svolte sub a) e b) (rispettivamente la prima alla pagina 12 ed alla 13, la seconda in quest’ultima e nelle prime quattro righe della pagina 14), di deve rilevare che esse non contengono una effettiva censura della prima ratio decidendi, in quanto non ci si preoccupa in alcun modo di svolgere enunciazioni che siano volte a dimostrare, con la necessaria specificazione dell’oggetto del giudizio cileno, le ragioni giuridiche per cui esso sarebbe stato identico a quello del giudizio italiano, ed inoltre di individuare negli atti prodotti riguardo al primo di quanto evidenzierebbe detta identità. In sostanza, ci si disinteressa di quanto la sentenza impugnata ha affermato riguardo al contenuto dei provvedimenti cileni, ma soprattutto si omette di censurare l’affermazione conseguente, con cui la sentenza ha escluso non solo che vi fosse detta identità, ma finanche la connessione o pregiudizialità fra i giudizi.

Infatti, in modo palesemente travisante l’asserto della Corte territoriale, si lamenta che “i ricorrenti non hanno chiesto il riconoscimento del “fascicolo””, come se quella corte l’avesse affermato, si ripete la richiesta formulata con il ricorso cileno dalla resistente senza trarne alcuna deduzione e, quindi, in modo palesemente privo di assoluta rispondenza con il decisum della sentenza stessa, si dice che il giudice italiano “non ha il potere (di) sindacare sulla parzialità o meno del fascicolo di un Giudice straniero” e che “eventualmente avrebbe dovuto accertare e verificare la correttezza della produzione secondo la legge cilena”.

Si sostiene ancora, sempre senza spiegare come, dove e perchè con la sopra ricordata motivazione la corte lombarda lo avrebbe fatto, che il giudice italiano non può sindacare la modalità di adozione del provvedimento straniero e, quindi, si addebita ad essa di non avere considerato “che il fascicolo è stato oggetto di ricostruzione (come chiaramente evincibile dalla domanda principale dell’attrice) e (che) non è certo compito del giudice italiano sindacare sulla corretta o parziale ricostruzione di detto fascicolo”.

Si afferma ancora che quella corte avrebbe “aprioristicamente sostenuto (anche se solo per inciso) che la decisione cilena non fosse definitiva senza procedere al dovuto accertamento” e senza che la resistente avesse provato di aver presentato ricorso alla Cassazione cilena contro il provvedimento della corte d’appello di Santiago del Cile e che si trattava di “un provvedimento di volontaria giurisdizione per il quale non è previsto il “passaggio in giudicato””.

Queste deduzioni sono effettuate in modo assolutamente assertivo e, non solo senza individuare a quale inciso ci si riferisca, ma, soprattutto senza allegare neppure come e perchè dai provvedimenti cileni sarebbe emerso ipoteticamente il contrario rispetto al misterioso inciso.

L’ultima deduzione, cioè che si sarebbe trattato di provvedimento inidoneo al giudicato integra, poi, un assunto che, indipendentemente dalla motivazione resa dalla corte milanese, contraddirebbe di per sè la postulazione della preclusione della giurisdizione italiana nel giudizio di cui trattasi.

Nel punto b) si dice che la Corte territoriale avrebbe erroneamente asserito che la mancanza del “decreto di possesso” sarebbe stata preclusiva al giudizio di accertamento dell’identità della materia tra i due giudizi: ma la sentenza impugnata non ha affatto effettuato una simile affermazione. Ha desunto la mancanza di identità esaminando comunque ciò che risultava prodotto.

4.2.1. Articolata in questi termini la censura risulta inammissibile sia perchè, nei suoi complessivi passaggi omette di criticare la motivazione della sentenza impugnata, sia perchè in taluni di essi addebita alla sentenza affermazioni che non ha fatto e, dunque, non si correla alla sua effettiva motivazione (in termini, da ultimo, Cass. sez. un. n. 22226 del 2016).

4.3. Accantonando per ora l’esame della censura svolta sub c) e passando a quella sub d), si rileva che in essa si dichiara di criticare l’affermazione della sentenza impugnata circa l’esclusione di identità e di risultati pratici tra quella che si dice “azione di ampliamento del possesso dei beni ereditari cilena” e “le azioni di petizione di eredità e di riduzione”, proposte nell’ordinamento italiano, ma la critica viene rivola espressamente solo contro l’affermazione della sentenza milanese che “alla luce della suddetta documentazione, non vi è evidenza dell’identità tra i risultati pratici perseguiti o le richieste rivolte all’Autorità cilena e le domande avanzate innanzi al giudice italiano”, e, quindi, procede con l’enunciazione che “ciò è in aperto contrasto con il provvedimento di cui avrebbe dovuto essere effettuato il riconoscimento”, cui segue l’enunciazione: a) che con il ricorso al tribunale cileno era stato chiesto di “ampliare l’ordinanza dichiarativa di possesso effettivo emessa i data 21 marzo 1983 in ragione della qualità di figlia del dante causa”, cioè che la resistente fosse immessa nel possesso dei beni ereditari di Davide D.C., in modo da poter disporre dei beni immobili ereditati; b) che il Tribunale rigettava il ricorso (e, peraltro, non si dice perchè); c) che con l’atto di richiesta di riesame e di appello – di cui si riporta un brano – si evidenziava ce la qui resistente aveva due anni all’atto dell’apertura della successione del de cuius e che era evidente che non fosse stata inclusa nella citata ordinanza, nonostante rivestisse la qualità di erede e che il possesso dell’eredità, secondo la legge cilena evocata, si acquisisse nonostante l’ignoranza in capo all’erede; d) che l’appello veniva respinto (e anche qui non se ne indica la ragione).

Dopo tali argomentazioni l’illustrazione assume in modo del tutto assertivo che l’azione svolta davanti al giudice cileno avrebbe avuto lo stesso scopo dell’azione esercitata davanti al giudice italiano e che “appare evidente, a detta di chi scrive, che i procedimenti azionati in Cile (….) avevano lo stesso petitum e la stessa causa petendi dl procedimento azionato avanti al Tribunale di Sondrio, o, comunque, identico scopo”. Quindi, evoca l’affermazione, fatta da Cass. sez. un. n. 21108 del 2012 ai fini dell’esegesi della L. n. 218 del 1995, art. 7 in tema di litispendenza internazionale, che “(….) ai fini di una corretta lettura della norma in esame, sembra utile il richiamo alla L. n. 218 del 1995, art. 64, comma 1, lett. e), che fra le condizioni per il riconoscimento delle sentenze straniere indica, fra le altre, quella per cui la sentenza straniera non deve essere contraria ad altra pronunziata dal giudice italiano, passata in giudicato. Orbene, considerato che all’evidenza la contrarietà fra sentenze è ravvisabile quando si determinino risultati fra loro incompatibili ovvero gli effetti dell’una siano neutralizzati da quelli dell’altra, è da ritenere che, ove interpretato il citato art. 7 in relazione alla prescrizione dettata dall’art. 64, la nozione di litispendenza internazionale richieda (naturalmente oltre all’identità delle parti) l’identità dei risultati pratici perseguiti, e ciò indipendentemente dal “petitum” immediato delle singole domande e dal titolo specificamente fatto valere”.

4.3.1. La censura così articolata è inammissibile.

A parte l’evidente contraddittorietà dell’invocazione del precedente di queste Sezioni Unite, imperniato sul concetto di identità di risultati pratici, dopo l’affermazione che invece le azioni avevano identità di petítum e di causa petendi, ed a parte l’ulteriore contraddizione della prospettazione con la precedente affermazione che il giudizio cileno era di volontaria giurisdizione e, dunque, inidoneo al giudicato, si rileva che:

a1) la motivazione della sentenza impugnata non è affatto considerata nella sua interezza e nelle affermazioni fatte prima di quella brevissima che si evoca e particolarmente nel riferimento all’avere il provvedimento del 22 luglio 2005 ribadito “che è disposta la devoluzione”, di modo che nuovamente anche tale censura non si correla alla motivazione della sentenza impugnata;

a2) nulla si dice sulle ragioni del rigetto del reclamo e, dunque, si omette l’indicazione specifica di esso nei termini richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 6, che comportavano o la riproduzione diretta di quanto ritenuto rilevante o la riproduzione indiretta, con precisazione della parte dell’atto cui si intendeva fare riferimento;

a3) restando del tutto omessa ogni spiegazione del come e del perchè nella specie – anche dando rilievo all’evocata motivazione della sentenza n. 21108 del 2012 – le due azioni avessero identità di risultati pratici perseguiti, la relativa affermazione risulta del tutto assertiva e, quindi, assolutamente priva della necessaria specificità (sul principio di necessaria specificità del motivo di ricorso per cassazione, si veda, seguita da numerose conformi, Cass. n. 4741 del 2005).

4.4. Nel paragrafo e) si svolge un’ulteriore censura, di violazione della L. n. 218 del 1995, art. 67, lamentandosi che la corte territoriale non si sarebbe pronunciata “sul preliminare accertamento della ritualità delle contestazioni al riconoscimento delle pronunce cilene (in merito all’istanza L. n. 218 del 1995, ex art. 67 formulata dai ricorrenti)”, che i ricorrenti avevano formulato in via subordinata.

4.4.1. La censura è innanzitutto incomprensibile per mancanza di chiarezza.

La sentenza ha escluso che quelle pronunce dispiegassero effetti preclusivi dell’azione dinanzi al giudice italiano e non è dato comprendere se si lamenti che comunque ci si sarebbe dovuti pronunciare su un’istanza ai sensi del citato art. 67 al di fuori della postulazione di quegli effetti, cioè come se si fosse proposta quell’istanza anche, sebbene in subordine, in via autonoma. La deduzione non rispetta, comunque, l’art. 366 c.p.c., n. 6 atteso che non si indicano in modo chiaro i termini dell’istanza cui si allude.

4.5. Resta da dire del paragrafo di cui alla lett. c), il cui esame si era accantonato: in esso si censura la motivazione enunciata dalla sentenza quanto alla mancata partecipazione dei ricorrenti al giudizio cileno, come causa ostativa alla richiesta di riconoscimento dei provvedimenti in esso emessi.

Senonchè, tale motivazione è stata enunciata – come s’è già ricordato – in via aggiuntiva rispetto a quella relativa all’inidoneità del decisum di quei provvedimenti a precludere lo svolgimento del giudizio italiano e, pertanto, una volta consolidatasi tale motivazione, in ragione del rigetto delle censura già rassegnate, essa diventa inammissibile per difetto di interesse.

4.6. Il primo motivo è, conclusivamente, dichiarato inammissibile nella sua totalità per le distinte ragioni innanzi esposte.

5. Con un secondo motivo si prospetta “error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: la nullità dell’ordinanza di rimessione in istruttoria del 30/1/2011 per violazione delle norme attinenti la ripartizione tra giudice monocratico e giudice collegiale con conseguente nullità degli atti successivi (compresa la sentenza del Tribunale di Sondrio n. 78/2013) e nullità del procedimento” e si procede, poi, alla sua illustrazione prospettando nel paragrafo a) la violazione degli artt. 50-bis, 158, 188, 189, 279 e 280 c.p.c., nel paragrafo b) quella degli artt. 125 e 156 c.p.c., nel paragrafo c) quella degli artt. 18 e 275 c.p.c. e nel paragrafo d) la violazione nuovamente dell’art. 50-bis c.p.c..

Il motivo si riferisce alla vicenda, occorsa in primo grado, della rimessione della controversia in istruttoria con un provvedimento del 30 novembre 2011, che sarebbe stato nullo, donde la nullità della successiva fase processuale di primo grado, perchè adottato dal giudice istruttore senza averne il potere, essendo stata la causa rimessa al collegio, trattandosi di causa a decisione collegiale.

Quanto si illustra nel paragrafo a), per sostenere che l’istruttore avrebbe esercitato un potere che spettava al collegio, al di là dell’inosservanza dell’art. 366 c.p.c., n. 6 (derivante dalla mancanza di indicazione della sede, in cui i vari provvedimenti ed atti di parte evocati potrebbero essere esaminati in questo giudizio di legittimità, atteso che non si indica di averli prodotti e neppure se ne indica la presenza nel fascicolo d’ufficio di primo grado, in ipotesi acquisito nel giudizio di secondo grado e inserito nel fascicolo di esso, di cui si è richiesta la trasmissione, siccome ammette Cass. sez. un. n. 22726 del 2011, sottolineando, però, che in tal modo si può evitare di produrre l’atto processuale ai sensi dell’art. 369, secondo comma, n 4 c.p.c., ma sempre restando fermo l’onere di indicazione ex art. 366, n. 6), che renderebbe la censura inammissibile, impinge in inammissibilità perchè basato su un presupposto che ignora quanto la sentenza impugnata evidenzia nei righi dal nono all’undicesimo della pagina 7, là dove scrive che la rimessione in decisione a seguito della quale venne pronunciato il provvedimento di rimessione del giudizio nella fase istruttoria, non era stato adottata dall’istruttore con una rimessione al collegio, ma davanti a sè, ancorchè la causa fosse a decisione collegiale.

Ne segue che, pur essendosi verificata la violazione della regola che imponeva la rimessione al collegio, l’istruttore esercitò un potere che aveva, perchè lui stesso era stato investito della decisione ed anzi la rimessione in istruttoria, alla quale successivamente seguì la rimessione della causa per la decisione al collegio, sortì l’effetto di evitare che la causa fosse decisa senza l’osservanza della regola collegiale.

Il motivo è, pertanto, infondato perchè – indipendentemente dalla correttezza astratta o meno delle deduzioni su cui si fonda – ignora la detta circostanza.

Tanto si osserva non senza doversi rimarcare che l’illustrazione non si preoccupa nemmeno di argomentare alla stregua dell’art. 360-bis c.p.c., n. 2, cioè di allegare che la pretesa violazione delle norme del procedimento abbia determinato i pregiudizi di cui a detta norma, il che, comunque, proprio perchè la causa era stata rimessa in decisione in violazione della regola di decisione collegiale, non si sarebbe potuto configurare, atteso che era in ogni caso prioritaria, ai sensi dell’art. 162 c.p.c., l’esigenza di rimediare alla nullità così verificatasi e rinnovare la rimessione in decisione.

6. Con il terzo motivo si denuncia “error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; nullità del procedimento (e della sentenza) per violazione del contraddittorio” ed il motivo, che si dice relativo alla posizione del solo D.C.J., concerne la motivazione espressa al punto 8 dalla sentenza impugnata, con cui è stato disatteso il motivo di appello, con il quale si era lamentato che il giudice istruttore in primo grado avesse emesso due provvedimenti senza fissare l’udienza in contraddittorio con il medesimo, che era costituito, provvedendo su istanze di posticipazione dell’udienza formulate dall’attrice per procedere alla rinnovazione della notificazione nei riguardi della convenuta D.C.G..

6.1. Il motivo è privo di fondamento, atteso che, come ha rilevato la sentenza impugnata, pretende di denunciare la violazione della regola del contraddittorio senza allegare quale pregiudizio sarebbe derivato al ricorrente, il che era tanto più necessario tenuto conto che l’art. 291 c.p.c. prevede che il giudice debba provvedere d’ufficio a disporre la rinnovazione della notificazione nulla in mancanza di costituzione del convenuto. In particolare, il ricorrente non deduce che cosa avrebbe potuto ed inteso osservare sull’istanza di rinvio per la rinnovazione della notificazione e ciò era indispensabile per dimostrare l’incidenza effettiva della formale mancanza del contraddittorio sul diritto di difesa da esso tutelato.

La censura di violazione di una norma del procedimento, infatti, tranne i casi in cui il legislatore mostra di apprezzarla in senso contrario, non si può sostanziare nella mera deduzione che la norma non è stata osservata, ma esige che si dimostri da parte di chi la deduce che l’inosservanza gli ha recato pregiudizio. Ed è questo che è sostanzialmente sotteso anche alla norma dell’art. 360-bis c.p.c., n. 2.

7. Con un quarto motivo si prospetta “violazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1 e 3; il difetto della giurisdizione; violazione e falsa applicazione della L. n. 218 del 1995, artt. 3, 5 e 50”.

Vi si censura la sentenza impugnata, là dove ha disatteso il motivo di appello con cui si era denunciato il difetto di giurisdizione sulla controversia:

a) a norma della L. n. 218 del 1995, art. 5 perchè l’azione era finalizzata ad aggredire effettivamente solo beni situati in Cile ed in modo fittizio si era fatto riferimento a beni situati in Italia, competendo comunque all’attrice di dimostrarne l’esistenza ed il possesso in capo ai convenuti;

b) a norma dell’art. 50 della stessa legge, perchè non vi era la prova che il de cuius fosse cittadino italiano al momento del decesso e difettavano gli altri criteri di collegamento indicati dalla norma.

7.1. Va rilevato che la sentenza impugnata ha ritenuto assorbente ai fini della giurisdizione la ricorrenza del criterio di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 50, lett. a), svolgendo un’ampia motivazione, per disattendere l’assunto degli allora appellanti che non sussistesse prova dell’essere il de cuius cittadino italiano al momento del decesso. Tale motivazione è enunciata dal 14 rigo della pagina 8 sino al dodicesimo della pagina 9.

Essa, che procede, con enunciazioni analitiche, che non si fondano soltanto sul certificato di nascita del de cuius, è criticata dai ricorrenti con tre righe di deduzioni, nelle quali si sostiene che “non vi è prova che il de cuius fosse cittadino italiano al momento della morte, non essendo sufficiente il certificato di nascita ma dovendo l’attrice dimostrare la cittadinanza in capo al de cuius al momento della morte in Cile”.

Poichè l’ampia motivazione resa dalla corte meneghina è ignorata, palese è l’inammissibilità del motivo con riferimento alla censura di violazione dell’art. 50 citato e ciò sia perchè essa non si correla alla motivazione, sia per genericità e difetto di specificità (venendo in rilievo i già ricordati principi di diritto di cui a Cass. sez. un. n. 22226 del 2016 e Cass. n. 4741 del 2005).

Che poi sull’azione di petizione di eredità la giurisdizione sia regolata in via esclusiva dall’art. 50 della legge citata è principio che è stato già affermato da Cass. sez. un. n. 25875 del 2008.

Le censure tese a dimostrare la violazione degli artt. 3 e 5 della stessa legge sono inammissibili (e nemmeno merita riferirle), in quanto la giurisdizione è stata affermata ai sensi dell’art. 50 e, del resto, la relativa motivazione si consolida in ragione dell’inammissibilità della censura relativa alla sua violazione.

8. Con un ultimo motivo si denuncia, in fine, “violazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: omesso esame circa la legittimazione attiva, la legittimazione passiva e l’integrità del contraddittorio”.

Il motivo, pur essendo dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 applicabile nel testo introdotto dalla riforma del 2012, non si correla a quel paradigma, come si evidenzia già per l’omessa indicazione di uno o più fatti decisivi, bensì di concetti giuridici.

Se si procede alla sua lettura e si cerca di intendere l’effettiva portata (alla stregua di Cass. sez. un. n. 17931 del 2013), si rileva in primo luogo che la censura relativa alla legittimazione attiva si astiene dall’indicare come e con quale motivazione la Corte territoriale avrebbe erroneamente riconosciuto la legittimazione attiva della resistente e tanto basterebbe ad evidenziarne l’inammissibilità, perchè carattere necessario di qualsiasi motivo di impugnazione è l’individuazione della motivazione con cui la decisione impugnata sarebbe incorsa nel vizio che si intende denunciare.

Se si considera l’assunto svolto, esso si sostanzia nella deduzione che l’attrice non avrebbe la legittimazione, perchè non contemplata dal testamento e non sarebbe chiamata alla successione legittima, salvo poi, in modo contraddittorio, dire che avrebbe “tutt’al più la qualità di legittimaria”. Si dice, quindi, che il legittimario preterito sarebbe legittimato all’azione di petizione di eredità solo dopo avere esperito l’azione di riduzione, che nella specie sarebbe prescritta.

8.1. Ora, tali enunciazioni ignorano la motivazione con cui la sentenza impugnata ha evidenziato che oggetto dell’azione è anche la richiesta di accertamento della qualità di figlia naturale in capo alla resistente, cui si è dato corso per avere il Tribunale in primo grado escluso l’opponibilità ai ricorrenti di una pronuncia resa da una corte statunitense di accertamento di quella qualità. E’ palese che l’accertamento all’esito dell’istruzione della qualità di figlia naturale renderebbe la resistente erede legittima e la corte territoriale ha ritenuto che tale accertamento sarebbe preliminare rispetto alla decisione sulla petizione di eredità.

Tutto ciò è ignorato dai ricorrenti, sicchè la censura è ulteriormente inammissibile, non senza doversi rilevare che la sentenza impugnata ha anche osservato che la questione della prescrizione dell’azione di riduzione non faceva parte del decisum della sentenza parziale impugnata.

8.2. La censura relativa alla legittimazione passiva è priva di fondamento.

Essa inizia con l’assunto che, “se è vero quanto affermato dal Tribunale circa l’importanza di decidere in ordine alla titolarità della legittimazione attiva in capo all’attrice, è altrettanto vero che il medesimo esame avrebbe dovuto essere effettuato circa la titolarità della legittimazione passiva in capo ai convenuti, trattandosi parimenti, di questione pregiudiziale e/o preliminare”. Di seguito si dice che ciò non è stato fatto in violazione dell’art. 533 c.c., lamentandosi che non vi sia stata decisione sul presupposto del possesso dei beni ereditari in capo ai ricorrenti. L’illustrazione continua per la pagina 32 e fino alle prime cinque righe della pagina 33, ma imputando l’omessa decisione al tribunale, per poi concludersi con l’assunto che “sul punto la Corte d’Appello di Milano ha completamente omesso di pronunciarsi sulla base del falsa presupposto che l’argomento non sarebbe stato trattato in primo grado”.

Questa affermazione, che è fatta senza, peraltro, individuare la relativa motivazione nella sentenza impugnata, si presta a due distinte interpretazioni.

Una prima sottende che la corte territoriale avrebbe falsamente ritenuto che il Tribunale non si fosse occupato del problema, mentre se ne era occupato e, dunque, l’aveva decisa. Questa prima esegesi della deduzione è in manifesta contraddizione con la precedente prospettazione che il Tribunale non si sarebbe pronunciato sul difetto di legittimazione.

Una seconda implica l’intendere che la questione sia stata discussa e non decisa dal Tribunale. Ma allora, se è stato così, poichè compete esclusivamente al giudice individuare la questione di merito o di rito che fa oggetto di una sentenza parziale che ne nega la fondatezza, non è dato comprendere come possa censurarsi l’ipotetica affermazione della corte territoriale. Se anche la Corte territoriale avesse erroneamente affermato che della questione non si era discusso in primo grado, la sua affermazione non equivarrebbe a negazione che fra le questioni discusse e, dunque, oggetto della materia del contendere, vi fosse quella di legittimazione passiva dei ricorrenti sotto il profilo indicato.

La censura, prestandosi alla duplice lettura presenta così una irrisolta ambiguità, la quale, peraltro, dev’essere sciolta a favore della seconda esegesi considerando che a pagina sette del ricorso, nell’esposizione del fatto, si dice che come motivo di appello numero sei, era stata dedotta “omessa pronuncia su altre eccezioni preliminari e pregiudiziali; l’eccezione di difetto di legittimazione passiva in capo ai convenuti”.

Poichè allora è lo stesso ricorso a dire che il Tribunale non aveva pronunciato sulla questione, diventa decisivo verificare se l’affermazione che la corte territoriale avrebbe omesso di pronunciarsi sulla base del falso presupposto che l’argomento non era stato trattato in primo grado, trovi risconto nella sentenza impugnata.

Ora, essa non trova riscontro nella sentenza, la quale nei righi 1920 della pagina 9 dice espressamente “che il Tribunale non si è pronunciato sul difetto di legittimazione passiva dei convenuti in merito all’azione di petizione di eredità”. Dunque, la sentenza ha rilevato non che la questione non era stata trattata (il che, se fosse stato contrario al vero, avrebbe significato, in mancanza di censura, un giudicato interno negativo dell’inerenza alla materia del contendere della questione), ma invece che essa non era stata decisa e per questo, poi, non risulta essersene occupata, essendo essa rimasta tra le questioni da decidesi ancora in primo grado.

8.3. La censura sulla integrità del contraddittorio è inammissibile, perchè non solo non si preoccupa di criticare in modo specifico la motivazione resa dalla sentenza impugnata nelle ultime tre righe della pagina 9 e nelle prime undici della pagina 10, ma è prospettata in modo del tutto assertorio e si fonda su una scheda olografa, riguardo alla quale non rispetta l’onere di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6.

9. Conclusivamente va dichiarata la giurisdizione del giudice italiano ed il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano ai sensi del D.M. n. 55 del 2014.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte dichiara la giurisdizione del giudice italiano e rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti alla rifusione alla resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro tredicimiladuecento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 25 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2017

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