Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3541 del 13/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 13/02/2020, (ud. 17/10/2019, dep. 13/02/2020), n.3541

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28077-2017 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NOMENTANA 256,

presso lo studio dell’avvocato MANUELA VENEZIA, rappresentato e

difeso dall’avvocato RODRIGO AMOROSO;

– ricorrente –

contro

GENERALI ITALIA SPA, quale Impresa designata per la Regione Campania

alla Gestione del Fondo di Garanzia Vittime della Strada, in persona

del procuratore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

SAVOIA 84, presso lo studio dell’avvocato SIMONA FILIPPONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato ERASMO AUGERI;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

F.L., A.V.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4084/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 11/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 17/10/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MARCO

ROSSETTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’esposizione dei fatti di causa sarà limitata alle sole circostanze ancora rilevanti in questa sede.

Nel 2010 C.C. convenne dinanzi al Tribunale di Napoli la società Assicurazioni Generali s.p.a., nella sua veste di impresa designata dal Fondo di garanzia per le vittime della strada, chiedendone la condanna al risarcimento de i danni patiti in conseguenza d’un sinistro stradale ascritto dall’attore a responsabilità di F.L., proprietario e conducente d’un veicolo privo di copertura assicurativa.

2. La Corte d’appello di Napoli, confermando la decisione di primo grado, con sentenza 11 ottobre 2017 n. 4084 ritenne:

-) dimostrata la responsabilità esclusiva del conducente non assicurato;

-) corretta la stima del danno biologico permanente compiuta dal Tribunale;

-) infondata la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacità di guadagno formulata dalla vittima, sul presupposto che questa svolgeva l’attività di fattorino; che aveva riportato un trauma cranico, ma non aveva “nè allegato, nè provato”, non solo la riduzione del reddito, ma nemmeno se ed in che modo la frattura delle ossa facciali poteva incidere sullo svolgimento dell’attività di fattorino.

3. La sentenza d’appello è stata impugnata in via principale da C.C. con ricorso fondato su due motivi, ed in via incidentale dalla Generali Italia s.p.a. (succeditrice, per effetto di varie operazioni societarie, della Assicurazioni Generali s.p.a.), nella veste di impresa designata, con ricorso fondato su un solo motivo.

4. La causa, già fissata per la decisione in camera di consiglio in data 11 luglio 2019, venne rinviata a nuovo ruolo con ordinanza 1.8.2019 n. 20812, a causa della mancanza dell’avviso al difensore della Generali Italia s.p.a..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Va preliminarmente rilevato come non vi sia prova in atti della rituale notifica del ricorso a F.L. (che è litisconsorte necessario) ed a A.V. (che invece non lo è, trattandosi di altra persona danneggiata dal sinistro).

Tuttavia, poichè per quanto si dirà sono infondati sia il ricorso principale che quello incidentale, è superfluo ordinare l’integrazione del contraddittorio ex art. 331 c.p.c., giacchè nessun vantaggio ne potrebbe derivare al litisconsorte pretermesso (ex multis, in tal senso, Sez. U, Ordinanza n. 23542 del 18/11/2015, Rv. 637243 – 01).

1.2. Col primo motivo del ricorso principale il ricorrente lamenta, formalmente invocando il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, la “contraddittorietà” della sentenza e la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c..

Il motivo contiene due censure.

1.2.1. Con una prima censura il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe insanabilmente contraddittoria, per avere dapprima affermato che una lesione della salute che abbia causato postumi permanenti di non piccola entità fa presumere che anche la capacità di guadagno della persona infortunata ne sia risultata ridotta; e poi escluso la sussistenza di un danno patrimoniale derivante dall’incapacità di lavoro per difetto di prova.

1.2.2. Con una seconda censura il ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe violato gli artt. 2727 e 2729 c.c., per avere rigettato la domanda di risarcimento del danno patrimoniale da incapacità di lavoro nonostante l’attore avesse dimostrato l’esistenza e l’entità delle lesioni patite: prova che, in considerazione del grado di invalidità permanente residuato al sinistro (26%) doveva ritenersi largamente sufficiente a dimostrare l’esistenza del suddetto danno.

1.3. Nella parte in cui lamenta la contraddittorietà della sentenza (e quindi, deve ritenersi, la nullità della stessa ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), il motivo è infondato.

Non vi è, infatti, alcuna contraddittorietà tra l’affermare, da un lato, che un danno sia stato provato nella sua esistenza, e il ritenere, dall’altro, che di quel danno non sia stata dimostrata l’entità. Tali principi sono stati ripetutamente affermati da questa Corte (da ultimo, da Sez. 3 -, Ordinanza n. 15737 del 15/06/2018, Rv. 649412 – 01), con giurisprudenza costante, dalla quale il ricorrente non offre alcun valido argomento per discostarsi.

1.4. Nella parte in cui lamenta la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., il motivo è inammissibile.

Lo stabilire, infatti, se una persona infortunata abbia o non abbia perso la capacità di lavoro e di guadagno, ed in che misura il suo reddito si sia eventualmente ridotto, è un tipico apprezzamento di fatto, riservato al giudice di merito e non censurabile in sede di legittimità.

Nè la violazione delle norme sulle presunzioni può dirsi sussistente sol perchè il giudice di merito abbia, o non abbia, ritenuto che da un certo fatto noto possa risalirsi per via di deduzioni logiche ad un fatto ignorato.

Questa valutazione, infatti, costituisce un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità.

La violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., come già ripetutamente affermato da questa Corte, potrebbe essere censurata in sede di legittimità soltanto in un caso: allorchè ricorra il cosiddetto “vizio di sussunzione”, vale a dire allorquando il giudice di merito, dopo aver qualificato come “gravi, precisi e concordanti” gli indizi raccolti, li ritenga però inidonei a fornire la prova presuntiva; oppure, all’opposto, quando dopo aver qualificato come “non gravi, imprecisi e discordanti” gli indizi raccolti, li ritenga nondimeno sufficienti a fornire la prova del fatto controverso (ex multis, in tal senso, Sez. U -, Sentenza n. 1785 del 24/01/2018, p. 4.1, lett. (bb), della motivazione; nonchè Sez. 3 -, Sentenza n. 19485 del 04/08/2017, Rv. 645496 – 02).

1.4. E’ opportuno aggiungere, a fronte della allegazione del ricorrente secondo cui, al cospetto d’una invalidità permanente del 26%, il danno da riduzione della capacità di guadagno sarebbe “in re ipsa”, che il grado di invalidità permanente residuato ad un infortunio è solo un indizio, di per sè non decisivo, dal quale il giudice di merito può ricavare in via indiretta l’effettiva esistenza di una compromissione della capacità di lavoro e di guadagno.

Un indizio, però, non necessariamente “grave” ai sensi dell’art. 2729 c.c., e la cui decisività va apprezzata con riferimento alle specificità del caso concreto: ed in particolare al lavoro svolto dalla vittima.

Non vi è, infatti, alcuna corrispondenza biunivoca tra entità del danno alla salute ed entità del danno patrimoniale da incapacità lavorativa che da quella lesione possa essere derivato. Lesioni anche minime, infatti, possono pregiudicare per sempre lo svolgimento dell’attività lavorativa (si pensi all’abbassamento del visus di 1/10 per un pilota di aerei di linea); così come, all’opposto, lesioni anche molto gravi possono risultare di fatto anche prive d’incidenza sull’attività di lavoro (si pensi alla perdita d’un arto inferiore per un notaio).

Pertanto è onere di colui il quale domanda il risarcimento del danno da incapacità lavorativa allegare e provare quale lavoro svolgesse al momento dell’infortunio; quale fosse il suo reddito; quale l’incidenza che i postumi hanno avuto sulla concreta gestualità lavorativa e sull’esecuzione del mansionario affidatogli.

Nel caso di specie, per contro, la Corte d’appello ha ritenuto non solo che di tutte le suddette circostanze fosse mancata la prova, ma che l’attore non avesse “nemmeno allegato” quale concreto pregiudizio od impedimento la frattura delle ossa facciali avesse arrecato alla sua attività di fattorino; nè quale fosse il suo reddito al momento dell’infortunio; nè se dopo l’infortunio tale reddito si fosse ridotto; nè se, dopo l’infortunio, esisteva il serio rischio che il suo reddito potesse ridursi in futuro.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.2. Col secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 137 codice delle assicurazioni.

Sostiene che egli per ottenere il risarcimento del danno patrimoniale da incapacità di lavoro non aveva alcun onere di dimostrare quale fosse il proprio reddito; infatti, anche in assenza di tale prova, egli avrebbe avuto diritto a vedersi liquidare il danno in esame sulla base del triplo della pensione sociale, ai sensi dell’art. 137 codice delle assicurazioni, il quale costituirebbe una “soglia minima di risarcimento”, spettante a tutti coloro non solo che non possano, ma anche che non vogliano o non abbiano saputo dimostrare l’entità del reddito perduto.

2.2. Il motivo è manifestamente infondato.

Questa Corte ha già ripetutamente affermato che il triplo della pensione sociale (oggi, più correttamente, “assegno sociale” L. 8 agosto 1995, n. 335, ex art. 3, comma 6), previsto dall’art. 137 cod. ass., non costituisce affatto una soglia minima di risarcimento, ma un criterio residuale di liquidazione del danno applicabile quando la persona infortunata non abbia un reddito, oppure abbia un reddito così esiguo, incostante o provvisorio, da lasciar presumere che in futuro quel reddito sarebbe certamente aumentato.

Si è stabilito, in particolare, che la liquidazione del danno patrimoniale da incapacità lavorativa, patito in conseguenza di un sinistro stradale da un soggetto percettore di reddito da lavoro, deve avvenire ponendo a base del calcolo il reddito effettivamente perduto dalla vittima, e non il triplo della pensione sociale. Il ricorso a tale ultimo criterio, ai sensi dell’art. 137 cod. ass., può essere consentito solo quando il giudice di merito accerti, con valutazione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, che la vittima al momento dell’infortunio godeva sì un reddito, ma questo era talmente modesto o sporadico da rendere la vittima sostanzialmente equiparabile ad un disoccupato (Sez. 3 -, Ordinanza n. 25370 del 12/10/2018, Rv. 651331 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8896 del 04/05/2016, Rv. 639896 – 01).

2.3. Questi principi non sono affatto in contrasto con la decisione di questa Corte 8.3.2017 n. 5786, invocata dal ricorrente.

Da tale sentenza, infatti, il ricorrente con non corretto criterio ermeneutico estrapola un isolato passaggio (quello dove si afferma che il danno alla capacità di lavoro può essere liquidato “in difetto di una precisa dimostrazione del reddito non perseguibile, in base al parametro, costituente soglia minima di risarcimento, del triplo della pensione sociale”), per trarne la conclusione che la vittima di un infortunio anche quando non abbia provato nè il lavoro svolto, nè se era in procinto di svolgere un lavoro, nè il reddito goduto, nè il reddito atteso, avrebbe comunque diritto al risarcimento del danno da riduzione della capacità di lavoro, da liquidarsi capitalizzando, proporzionalmente al grado di invalidità permanente, un reddito pari al triplo della pensione sociale.

Tale conclusione è tuttavia insostenibile ove si legga il passo sopra trascritto alla luce del complessivo contesto nel quale quell’obiter dictum è inserito.

Da tale lettura complessiva emerge che là dove quella sentenza parla di “soglia minima di risarcimento” fa riferimento alla sola ipotesi in cui la vittima, al momento dell’infortunio, non aveva alcun reddito, ma era tuttavia in possesso di “una qualificazione professionale acquisita e non ancora esercitata”. La sentenza vuol dire, in definitiva, che il danno alla capacità lavorativa sofferto dai soggetti non percettori di reddito deve essere liquidato in misura non inferiore al triplo della pensione sociale. Non vuole, invece, affatto dire che la persona infortunata la quale, al momento dell’infortunio, avesse goduto d’un reddito inferiore al triplo della pensione sociale, abbia diritto al risarcimento in misura pari a quest’ultima; e tanto meno vuol dire che il risarcimento del danno spetti ope legis in misura pari al triplo della pensione sociale anche a chi non abbia minimamente assolto l’onere della prova.

3. Il ricorso incidentale.

3.1. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, la Generali lamenta, ai sensi degli art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, la violazione degli artt. 100,163,132 c.p.c..

Sostiene una tesi così riassumibile:

-) essa si costituì in giudizio nella veste di impresa designata, ai sensi dell’art. 287 codice delle assicurazioni;

-) la sentenza impugnata, tuttavia, sia nell’epigrafe, sia nel dispositivo, ha indicato come parte la società “Generali Assicurazioni”, senza precisare che si trattava dell’impresa designata per conto del Fondo di garanzia per le vittime della strada;

-) di conseguenza la sentenza suddetta è “inopponibile al Fondo di garanzia vittime della strada”, e pertanto non consentirà alla Generali di recuperare da quest’ultimo le somme che eventualmente non dovesse recuperare dal responsabile, come già detto privo di assicurazione.

3.2. Il motivo è infondato.

E’ sin troppo noto il principio per cui i negozi giuridici e gli atti giudiziari vanno letti, qualificati ed interpretati nella loro integralità, tenendo conto di tutti i segmenti che li compongono.

Nel caso di specie, dalla lettura integrale della sentenza emerge senza dubbio alcuno che la Generali venne convenuta ai sensi dell’art. 287 cod. ass., (cfr. pag. 2, terzo capoverso, della sentenza impugnata), e non vi era dunque bisogno di ulteriori formule sacramentali per affermare tale sua qualità.

4. Le spese.

4.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno compensate integramente tra le parti, in considerazione della soccombenza reciproca.

4.2. Il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico d’ambo le parti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

(-) rigetta il ricorso principale;

(-) rigetta il ricorso incidentale;

(-) compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di C.C. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di Generali Italia s.p.a. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 17 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2020

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