Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3530 del 14/02/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 3530 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: CARRATO ALDO

SENTENZA
sul ricorso 8146-2013 proposto da:
AFARONE GIUSEPPE ZFRGPP66S15G942N, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA CIPRO 63 presso la famiglia FERRI PACIOTTI, rappresentato e difeso dall’avvocato FERRI MARIANO,
giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
80415740580 in persona del Ministro pro tempore, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

A

A tk

Data pubblicazione: 14/02/2014

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta
e difende ope legis;

-controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso il decreto n. cron 11842 della CORTE D’APPELLO di
CATANZARO del 26/06/2012, depositato il 02/10/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/01/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ALDO CARRATO.

Ric. 2013 n. 08146 sez. M2 – ud. 09-01-2014
-2-

a

– ricorrenti incidentale –

Ritenuto in fatto
Il sig. Zafarone Giuseppe chiedeva, con ricorso depositato il 4 luglio 2011, alla Corte
d’appello di Catanzaro, il riconoscimento dell’equa riparazione, ai sensi della legge
24 marzo 2001, n. 89, per la irragionevole durata di un giudizio amministrativo

pendente al momento della proposizione del suddetto ricorso, invocando, la
condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze al risarcimento dei danni non
patrimoniali subiti per la irragionevole durata del predetto giudizio.
Nella costituzione del resistente Ministero, l’adita Corte di appello, con decreto
depositato il 2 ottobre 2012, accertava l’irragionevole ritardo del giudizio
amministrativo presupposto nella durata di anni otto e mesi 11 e condannava
l’Amministrazione convenuta al pagamento, in favore dello Zafarone, della somma di
euro 1.783,33 (liquidando l’importo di euro 200,00 per ogni anno di ritardo, con il
computo ulteriore della residua frazione; condannava, inoltre, la convenuta
Amministrazione alla rifusione della metà delle spese giudiziali (da distrarsi in favore
dei difensore antistatario), che compensava per la residua metà.
Avverso il suddetto decreto (non notificato) ha proposto ricorso per cassazione il sig.
Zafarone Giuseppe con atto notificato il 28 marzo 2013, sulla base di un unico
complesso motivo. L’intimato Ministero ha resistito in questa sede con controricorso,
contenente anche ricorso incidentale riferito ad un unico motivo.
Considerato in diritto
1. – In via preliminare, il Collegio rileva che non è di ostacolo alla trattazione del
ricorso la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della
Procura generale presso questa Corte.

instaurato con atto depositato il 26 febbraio 1999 dinanzi al T.A.R. Basilicata, ancora

Invero, l’art. 70, secondo comma, c.p.c., quale risultante dalle modifiche introdotte
dall’art. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico ministero «deve intervenire
nelle cause davanti alla Corte di cessazione nei casi stabiliti dalla legge». A sua volta

legge n 69, al primo comma dispone che «Il pubblico ministero presso la Corte di
cessazione interviene e conclude: a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze
dinanzi alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici
della Corte di cessazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla
sezione di cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura
civile». L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita
sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di
consiglio».

Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante dalla legge
di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo comma, la sostituzione
dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e la modificazione degli artt. 380-bis,
secondo comma, e 390, primo comma, del medesimo codice, per adeguare la
disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della partecipazione del pubblico
ministero alle udienze che si tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo
comma, al secondo comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente
articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di
fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire
dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.

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l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall’art. 81 del citato decreto-

Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto nell’art. 75, comma 2,
citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art.
376, primo comma, c.p.c.), consenta di ritenere, non solo, che la detta sezione è
abilitata a tenere pubbliche udienze e non solo adunanze camerali, ma anche che

partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facoltà
dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70, terzo comma,
c.p.c., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato adottato in
data 25 settembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza pubblica è stata
ritualmente celebrata senza la partecipazione del rappresentante della Procura
generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia
integrale del ruolo di udienza era stata trasmessa, ravvisato un interesse pubblico
che giustificasse la propria partecipazione ai sensi del citato art. 70, terzo comma,
c. p.c. .
2. Ciò posto, rileva il collegio che, con l’unico motivo dedotto, il ricorrente principale
ha denunciato (ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, c.p.c.) la violazione dell’art.
2 della legge n. 89 del 2001 e degli artt. 6 e 13 della C.E.D.U., nonché il vizio di
omessa motivazione ed irragionevolezza della deroga ai parametri giurisprudenziali
di indennizzo, avendo la Corte territoriale operato una quantificazione in misura
eccessivamente inferiore allo standard minimo annuo individuato dalla
giurisprudenza comunitaria e da quella di legittimità.
3. Con il motivo di ricorso incidentale formulato il Ministero dell’Economia e delle
Finanze ha dedotto — in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.- la violazione
dell’ad. 2 della legge n. 89 del 2001, come modificato dall’art. 54, comma 2, del d.l.

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alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la

25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modif., nella legge 6 agosto 2008, n. 133, e
dal d.lgs. n. 104 del 2010 (c.d. codice sul processo amministrativo) prospettando
che, nella fattispecie, la Corte catanzarese avrebbe dovuto dichiarare d’ufficio
l’improponibilità parziale della domanda di equa riparazione, per il periodo

4. Osserva il collegio che, sotto il profilo logico-giuridico, appare pregiudiziale
l’esame del motivo di ricorso incidentale proposto dal resistente Ministero, siccome
attinente alla sollecitata declaratoria di improponibilità parziale della domanda di
equa riparazione formulata dal ricorrente principale, quanto meno con riferimento al
periodo successivo al 25 giugno 2008 e fino alla data di presentazione dell’istanza di
prelievo intervenuta, per la prima volta, nel 2010.
La censura è infondata e deve, quindi, essere respinta per le ragioni che seguono.
Occorre rilevare, sul piano generale, come questa Corte abbia statuito che la
mancata presentazione dell’istanza di prelievo – la quale ha da tempo assunto la
funzione di segnalare al giudice il permanente interesse della parte alla definizione
del giudizio, sovente venuto meno per circostanze sopravvenute alla sua
instaurazione (quali atti di autotutela o sanatoria) o per l’acquiescenza al
provvedimento di concessione o di diniego della richiesta tutela cautelare – rende
improponibile la domanda di equa riparazione nella parte concernente la durata del
giudizio presupposto successiva alla data (del 25 giugno 2008) di entrata in vigore
dell’art. 54 del d.l. n. 112 del 2008 (conv., con modif., nella legge n. 133 del 2008) il
quale ha configurato la suddetta istanza di prelievo come “presupposto processuale”
della domanda di equa riparazione (v. Cass. n. 5914 del 2012 e Cass. n. 8266 del
2012); si è, altresì, chiarito che l’omessa presentazione dell’istanza di prelievo non
determina la vanificazione del diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del

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successivo al 25 giugno 2008, fino alla data di presentazione dell’istanza di prelievo.

processo con riferimento al periodo precedente al 25 giugno 2008 (cfr. Cass. n. 5317
del 2011). A questa conclusione questa Corte è pervenuta, in mancanza di una
disciplina transitoria o di esplicite previsioni contrarie, in applicazione del principio
“tempus regit actum”, e sulla base del rilievo che, altrimenti opinando, l’introduzione

legislativo per cancellare la responsabilità dello Stato per l’irragionevole durata del
processo ed il corrispondente diritto all’equa riparazione del cittadino, riconosciuto e
garantito dall’art. 6, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali e dall’art. 2 della L. n. 89 del 2001.
Il richiamato principio – che il collegio condivide – riguarda l’interpretazione del testo
originario dell’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni,
dalla legge di conversione n. 133 del 2008 (applicabile, “ratione temporis”, nei giudizi
che hanno dato luogo alle citate pronunce di questa Corte), avente il seguente
tenore:” la domanda di equa riparazione non è proponibile se nel giudizio dinanzi al
giudice amministrativo in cui si assume essersi verificata la violazione di cui alla
legge 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1, non è stata presentata un’istanza ai
sensi del rd. 27 agosto 1907, n. 642, ad. 51, comma 2″. Tuttavia, successivamente il

quadro normativo di riferimento è mutato, giacché l’art. 3, comma 23, dell’Allegato 4
al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’ari 44 della legge 18 giugno 2009, n.
69, recante “delega al Governo per il riordino del processo amministrativo”) – in
vigore dal 16 settembre 2010 -, ha stabilito che, all’art. 54, comma 2, del d.l. n. 112
del 2008, le parole “un’istanza ai sensi del r.d. 17 agosto 1907, n. 642, ad. 51,
comma 2”, sono sostituite dalle seguenti: “l’istanza di prelievo di cui all’ad. 81,
comma 1, del codice del processo amministrativo, ne’ con riguardo al periodo
anteriore alla sua presentazione”. Sulla scorta di questo nuovo assetto normativo,

– 7 –

del suddetto presupposto processuale si sarebbe risolta in un mero espediente

dunque, si desume che il novellato art. 54, prevede che la domanda di equa
riparazione non è proponibile se nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo in cui
si assume essersi verificata la violazione di cui allOart. 2, comma 1, della L. 24 marzo
2001, n. 89, non sia stata presentata l’istanza di prelievo di cui all’art. 81, comma 2,

presentazione. Da ciò si evince, pertanto, che, con riferimento alle istanze di equa
riparazione per processi amministrativi pendenti alla data del 16 settembre 2010
(come quello dedotto nel caso di specie), il nuovo testo dell’art. 54, comma 2, del d.l.
n. 112 del 2008 (come convertito, con modif. nella L. n. 133 del 2008), condiziona la
proponibilità della domanda di indennizzo, anche per il periodo anteriore alla
presentazione, nell’ambito del giudizio presupposto, dell’istanza di prelievo. In altri
termini, per effetto del nuovo testo del citato art. 54 del D.L. n. 112 del 2008
(come convertito, con modif., nella L. n.133 del 2008), conseguente alle
modifiche apportate dal decreto legislativo recante l’approvazione del codice
del processo amministrativo, in vigore dal 16 settembre 2010, deve trovare
applicazione il principio di diritto (cfr. Cass. n. 3740 del 2013 e Cass. n. 25447 del

2013) secondo cui per i processi pendenti, a quella data, davanti al giudice
amministrativo, in cui si assume essersi verificata la violazione del diritto alla
ragionevole durata, la domanda di equa riparazione, ai sensi della L. n. 89 del
2001, non è proponibile se, nel giudizio presupposto, non sia stata presentata
l’istanza di prelievo, senza che sia possibile operare una distinzione tra
porzioni di durata dell’unico processo amministrativo in ragione del momento
di entrata in vigore del testo originario del citato art. 54 o delle sue modifiche.

Alla stregua di tali complessive ragioni, quindi, avendo la Corte territoriale accertato
che era stata presentata, nel giudizio amministrativo presupposto (ancora pendente

_

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del codice del processo amministrativo, né con riguardo al periodo anteriore alla sua

al momento della proposizione del ricorso ex art. 2 della legge n. 89 del 2001),
nell’interesse dei ricorrenti, l’istanza di prelievo nel 2010 (come attestato dallo stesso
Ministero ricorrente), non si sarebbe potuta porre alcuna questione di proponibilità
della domanda di equa riparazione e ciò, in virtù di quanto appena in precedenza

data di presentazione della suddetta istanza di prelievo.
Per tali motivi la doglianza dedotta con il motivo di ricorso incidentale deve essere
respinta.
5. Passando all’esame del motivo proposto con il ricorso principale, rileva il collegio
che lo stesso è fondato nei termini che seguotno.
Si deve, infatti, porre in risalto che la Corte di merito, sull’incontestato presupposto
che la durata irragionevole del giudizio amministrativo era corrispondente ad otto
anni e undici mesi, ha riconosciuto una misura annua dell’indennizzo effettivamente
inferiore a quella individuata dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento ai
processi amministrativi. Infatti, la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 6655
del 2012) ha statuito che, in tema di equa riparazione per irragionevole durata
del processo ai sensi dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, la presunzione di
danno non patrimoniale é notoriamente connessa a situazioni soggettive
provocate da un giudizio durato troppo a lungo, la cui connotazione in termini
di irragionevolezza non è condizionata dalla circostanza che il ricorso (nella
specie amministrativo, inerente a rivendicazioni di categoria), abbia posto
riferimento ad un presumibile modesto valore della posta in gioco (la quale,
perciò, non costituisce una valida ragione per ridurre sensibilmente l’importo
dell’indennizzo). Per tali ragioni si deve ritenere (cfr. Cass. n. 17883 del 2013) come

congrua la determinazione dellTindennizzo annuo nella misura pari ad euro 500,00

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_

chiarito, nemmeno limitatamente al periodo successivo al 25 giugno 2008, fino alla

(importo minimo, ordinariamente non derogabile, ritenuto ragionevole anche dal
nuovo art. 2 bis, comma 1, della legge n. 89 del 2001, come introdotto dall’art. 55,
comma 1, lett. b) del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., nella legge n. 134 del
2012, che, ancorché non applicabile “ratione temporis” nella fattispecie, costituisce

Conseguentemente, in accoglimento della formulata censura dedotta con il ricorso
principale, può, previa cassazione del decreto impugnato e non essendo necessari
ulteriori accertamenti di fatto (ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c.), provvedersi a
decidere direttamente la causa nel merito in questa sede, con il riconoscimento della
fondatezza della domanda proposta nell’interesse del ricorrente dinanzi alla Corte di
appello di Catanzaro, con la conseguente condanna del Ministero dell’Economia e
delle Finanze al pagamento, a titolo di indennizzo per la causale dedotta in giudizio,
della complessiva somma di euro 4.360,00 (euro 500,00 x 8 anni + euro 360 per i
residui 11 mesi), oltre agli interessi legali dalla domanda al saldo.
6. Alla suddetta pronuncia consegue, altresì, la condanna dello stesso soccombente
Ministero al pagamento delle spese dell’intero giudizio (v. Cass. n. 6938 del 2003),
che si liquidano come in dispositivo, avuto riguardo all’operata rideterminazione
dell’importo dovuto al ricorrente.
E’ risaputo (cfr. Cass. n. 12963 del 2007 e Cass. n. 26985 del 2009), in proposito
che, in materia di liquidazione delle spese giudiziali, il giudice del gravame, mentre
nel caso di rigetto dell’impugnazione non può, in mancanza di uno specifico motivo di
impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali del grado
precedente, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a
provvedere, anche d’ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua
dell’esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all’art. 336

certamente un idoneo

c.p.c., la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo
della pronuncia che ha statuito sulle spese.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso incidentale ed accoglie il ricorso principale; cassa il decreto

domanda proposta nell’interesse del ricorrente principale e, per l’effetto, condanna il
Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento, in favore dello stesso, della
somma di euro 4.360,00, a titolo di equa riparazione per l’irragionevole durata del
giudizio amministrativo presupposto, oltre interessi legali dalla domanda al saldo.
Condanna, altresì, lo stesso Ministero al pagamento delle spese dell’intero giudizio,
che liquida, quanto al grado di merito, in euro 873,00, di cui euro 50,00 per esborsi,
euro 445,00 per diritti ed euro 378,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli
accessori di legge, e, quanto al giudizio di cassazione, in euro 392,50, di cui euro
292,50 per compensi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte
suprema di Cassazione, in data 9 gennaio 2014.

impugnato, in relazione al ricorso accolto, e, decidendo nel merito, accoglie la

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