Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3518 del 09/02/2017


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Cassazione civile, sez. II, 09/02/2017, (ud. 09/11/2016, dep.09/02/2017),  n. 3518

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15185-2012 proposto da:

I.G. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA CARLO CATTANEO 22, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO

ILARDI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.C. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA FRANCESCO CRISPI 36, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO

BIANCHI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCIA

DE GUIDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2456/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 01/06/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/11/2016 dal Consigliere Dott. GRASSO GIUSEPPE;

udito l’Avvocato Ettore Ilardi con delega depositata in udienza

dell’Avv. Francesco Ilardi difensore della ricorrente che si riporta

al ricorso;

udito l’Avv. De Guidi Lucia difensore del controricorrente che ha

chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS PIERFELICE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Roma, Sez. distaccata di Ostia, con sentenza n. 191/03, rigettò la domanda proposta da I.G. nei confronti di C.C., con la quale, premettendo di essere proprietaria di un box e che dello stesso si era appropriato il convenuto, immutando la catena che ne occludeva l’apertura, aveva chiesto condannarsi quest’ultimo a rimuovere l’apposta catena e a risarcire i danni. Alla difesa del C., il quale si era proclamato proprietario, l’attrice aveva contrapposto anche acquisto per usucapione.

Con sentenza depositata l’1/6/2011 la Corte di appello di Roma rigettò l’appello proposto dalla primigenia attrice.

La I. ricorre per cassazione avverso la sentenza d’appello.

Il C. resiste con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il ricorso viene sottoposta al vaglio di legittimità una congerie di lamentele, confusa, largamente aspecifica ed irrilevante ed anche non autosufficiente, senza che restino apprezzabili le ragioni delle doglianze e la loro correlazione con le ipotesi tassative di cui all’art. 360 c.p.c..

Deve, infatti, essere ricordato che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa, condizionata dalla loro formulazione tecnica, con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità, il che impone una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato possa apprezzarsi all’interno delle categorie logico – giuridiche previste dall’art. 360 c.p.c.. Pertanto deve ritenersi inammissibile la formulazione di una critica, tanto generica, che sommaria, volta, in definitiva, ad evidenziare la non condivisione del decisum d’appello.

Nè la preclusione può essere superata, formulando, come nel caso al vaglio, una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili univocamente ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito (cfr., di recente, Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 19959 del 22/09/2014). Senza che, peraltro, risulti essere stata efficacemente attinta la ratio decidendi del Giudice di merito.

La Corte territoriale confermò la decisione di primo grado, dopo aver sconfessato la tesi dell’odierna ricorrente, secondo la quale l’illeggibilità della firma del giudice in calce alla sentenza avrebbe reso questa nulla e ritenuto che costei aveva promosso un ordinario giudizio petitorio, negando sussistenza ai due titoli dedotti: il contratto di compravendita tra la I. e Z.D. aveva ad oggetto la nuda proprietà solo di un appartamento e la separata dichiarazione della Z., con la quale costei affermava di aver venduto anche la nuda proprietà di un posto auto, non poteva assimilarsi ad un contratto di compravendita nel rispetto del requisito di forma previsto dall’art. 1350 c.c., n. 1; pur consentita la tardiva allegazione di acquisto per usucapione, andava escluso che la riferita attestazione potesse costituire titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà del box, trattandosi di possesso iniziato solo dal 2000.

Non ha, pertanto, concludenza la lamentata (primo motivo) mancata menzione delle non meglio precisate richieste dell’appellante e, in particolare, di quella di condanna ex art. 96 c.p.c., del tutto priva di senso, essendo la predetta soccombente, con l’asserita violazione degli artt. 112, 132 e 161, c.p.c., senza che consti la correlazione con almeno una delle ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c..

La confusione ed imperscrutabilità si fa massima nel secondo motivo, con il quale, in relazione ai nr. 3), 4) e 5) dell’art. 360 c.p.c., viene dedotta la violazione di sole norme processuali (artt. 112, 132 e 161 c.p.c.), nonchè l’omessa pronuncia su punti non dichiarati decisivi e controversi.

Si afferma che la controparte in appello non avrebbe più insistito nella “documentata proprietà (…) del box”, che sarebbe stata priva di supporto probatorio. A parte la mancanza di autosufficienza, non è dato cogliere ove consista lo specifico della censura.

Si contesta che la illeggibilità della firma del giudice non sia causa di nullità, senza scalfire il ragionamento della Corte di merito, la quale aveva escluso una tale evenienza non essendo dubbia la riferibilità dell’atto, in mancanza di prova contraria (Sez. 1, n. 6456 del 17/7/1996, Rv. 498598; Sez. 1, n. 11831 del 5/8/2003, Rv. 565671; Sez. 5, n. 16843 del 5/5/2013, Rv. 627073).

Si contesta, inoltre, quale vizio della sentenza la mancata riproduzione delle conclusioni delle parti (e col ricorso la censura inammissibilmente assume il connotato nuovo di denunzia di mancato esame), senza tener conto, della motivazione resa sul punto dalla Corte di merito, la quale ha rigettato la prospettazione facendo osservanza dell’interpretazione maturata in sede di legittimità (Sez. 2, n. 10853 del 5/5/2010, Rv. 613124; Sez. 3, n. 18609 del 22/9/2015, Rv. 636980).

Si giudica frutto di extrapetizione la valutazione della domanda d’usucapione, che avrebbe dovuto essere intesa di tipo ordinario (ventennale), avendo la dante causa posseduto il box dal 1976 al 2000 e dovendosi sommare ad esso il possesso della ricorrente, durato fino al 2001 e, comunque, l’acquisto avrebbe dovuto essere inteso a titolo derivativo, senza essersi tenuto conto della mancata contestazione della controparte alla domanda di acquisto per usucapione. Anche questa contorta lamentela è da ritenere aspecifica ed inconcludente: oltre a non cogliere l’insanabile contraddizione nell’assumere di aver acquisito la proprietà a titolo derivativo e allo stesso tempo a titolo originario per usucapione ordinaria da un unico dante causa, la motivazione della sentenza resta non scalfita, avendo affermato, nel rispetto della regola legale che attraverso il negozio è possibile operare acquisto a non domino, col concorrere, unitamente agli altri presupposti, del maturarsi del pacifico ed ininterrotto possesso per un decennio da parte dell’acquirente (art. 1159 c.c.). La proprietà e gli altri diritti reali di godimento appartengono alla categoria dei c.d. diritti autodeterminati, individuati in base alla sola indicazione del loro contenuto, sicchè nelle relative azioni la “causa petendi” si identifica con il diritto e non con il titolo che ne costituisce la fonte; pertanto, una volta introdotto il giudizio per il riconoscimento dell’usucapione abbreviata di cui all’art. 1159 – bis c.c., il giudice, ove ne sussistano i presupposti, può accogliere la domanda di usucapione ordinaria senza incorrere nel vizio di extrapetizione, nè tale domanda può ritenersi inammissibile ove sia proposta per la prima volta in grado di appello, se il decorso del più ampio termine sia stato oggetto di specifiche allegazioni e prove ufficialmente introdotte in causa (Sez. 2, n. 12607 del 24/5/2010, Rv. 613297).

Non è neppure dato cogliere in che sia consistita la dedotta accondiscendenza della controparte, la quale si era affermata proprietaria del locale.

Il terzo motivo, oltre a contestare vizi motivazionali su punti neppure dichiarati decisivi e controversi, lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., senza specificità alcuna. A rimostranze dirette tardivamente contro la sentenza di primo grado, si mischiano rimproveri alla condotta processuale della controparte, e, indi, sommarie, approssimative e magmatiche accuse di inadeguatezza del vaglio istruttorio, restando, tuttavia, sempre indenne la ratio decidendi della sentenza gravata.

Infine, con quello che viene indicato come quarto motivo, denunziante la violazione degli art. 132, 161, 112 e 116 c.p.c., con inammissibile generico riferimento all’intiero art. 360 c.p.c., si assume la mancata presa in considerazione delle conclusioni, senza tener conto che le stesse erano rimaste travolte dalla soccombenza.

L’epilogo impone condannarsi parte ricorrente al rimborso delle spese legali in favore di quella resistente. Spese che, tenuto conto della natura e del valore della causa, possono liquidarsi siccome in dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese legali, che liquida nella complessiva somma di 3.200 Euro, di cui 200 Euro per spese, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 9 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2017

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