Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3512 del 12/02/2020

Cassazione civile sez. VI, 12/02/2020, (ud. 13/11/2019, dep. 12/02/2020), n.3512

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 7882-2018 R.G. proposto da:

C.M.C., rappresentata e difesa, per procura speciale

in calce al ricorso, dall’avv. Elmina LATELLA ed elettivamente

domiciliata in Roma, alla piazza Verbano, n. 8, presso lo studio

legale dell’avv. Simona CELEBRE;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 119/01/2017 della Commissione tributaria

regionale della BASILICATA, depositata il 15/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 13/11/2019 dal Consigliere Dott. LUCIOTTI Lucio.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte:

costituito il contraddittorio camerale ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., come integralmente sostituito dal D.L. n. 168 del 2016, art. 1-bis, comma 1, lett. e), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 197 del 2016, osserva quanto segue:

In controversia avente ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento con cui l’amministrazione finanziaria recuperava a tassazione ai fini IVA, IRAP ed IRPEF un maggior reddito d’impresa accertato induttivamente, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, e art. 41, per l’anno d’imposta 2005, con la sentenza in epigrafe indicata la CTR della Basilicata accoglieva l’appello agenziale avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, sostenendo la legittimità dell’accertamento fiscale condotto per l’anno d’imposta 2005, in relazione al quale la contribuente omise la presentazione della dichiarazione fiscale, rilevando altresì che l’attività d’impresa era cessata il 31 ottobre di quell’anno senza alcuna indicazione di rimanenze, nonostante risultassero effettuati acquisti negli anni 2003 e 2004 rispettivamente per Euro 64.261,00 ed Euro 33.264,00, nonchè la mancanza di prove contrarie offerte dalla contribuente che si era limitata ad allegare la propria adesione ad un programma di contrasto alla povertà.

Avverso tale sentenza la contribuente propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui replica l’intimata con controricorso con cui propone eccezione di inammissibilità del ricorso per tardività.

Tale eccezione, che va esaminata preliminarmente, è infondata e va rigettata in quanto nel calcolare il termine di impugnazione della sentenza d’appello (depositata in data 15/02/2017) la difesa erariale non ha tenuto conto della sospensione semestrale di cui al D.L. n. 50 del 2017, art. 11, comma 9, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 97 del 2017, che prevede, per le controversie ricomprese tra quelle definibili ai sensi del comma 1 della citata disposizione, come quella in esame, sono sospesi per sei mesi i termini di impugnazione delle pronunce giurisdizionali spiranti nel periodo ricompreso tra il 24 aprile 2017 e il 30 settembre 2017 (nella specie scadente il 15/09/2017).

Passando, quindi, all’esame dei motivi di ricorso, con il primo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 2, e art. 41, sostenendo che aveva errato la CTR a ritenere sussistenti sub specie elementi presuntivi di un maggior reddito d’impresa e del tutto ingiustificata l’applicazione di una redditività pari al 30 per cento al volume di affari accertato.

Il motivo è infondato perchè in contrasto con il consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, il potere-dovere dell’Amministrazione è disciplinato non già dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, bensì dall’art. 41, ai sensi del quale, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, l’Ufficio determina il reddito complessivo del contribuente medesimo; a tal fine, esso può utilizzare qualsiasi elemento probatorio e può fare ricorso al metodo induttivo, avvalendosi anche di presunzioni cd. supersemplici – cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui al D.P.R. citato, art. 38, comma 3 -, le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio” (Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 14930 del 15/06/2017, Rv. 644593; conf. a Cass., Sez. 5, Sentenza n. 3115 del 13/02/2006; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 20708 del 03/10/2007).

Orbene, nel caso di specie, in cui è incontroverso che la contribuente omise di presentare la dichiarazione dei redditi per l’anno d’imposta 2005 (essendovi tenuta anche se cessò l’attività il 31 ottobre di quell’anno), dalla sentenza impugnata emerge che l’amministrazione finanziaria accertò il maggior reddito d’impresa sulla base della “media presuntiva di ricavi in base agli anni precedenti, rapportata a mesi 10” considerando anche l’assenza di rimanenze finali, nonostante i cospicui acquisiti di merce effettuati, e, quindi, ricorrendo ad elementi presuntivi idonei a giustificare l’accertamento, non contraddette da prove contrarie offerte dal contribuente.

Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la “omessa/erronea motivazione circa un fatto decisivo” per il giudizio, sostenendo che la CTR non aveva “adeguatamente valutato gli elementi comunque offerti dalla parte”, tra cui la situazione di indigenza venutasi a creare a seguito del fallimento dell’unico cliente (“Caseificio C. s.n.c.”), come risultante dalla sua partecipazione al programma “COPES”, di contrasto alla condizioni di povertà e di esclusione sociale, promosso dalla Regione Basilicata.

Deducendo l’inadeguata valutazione da parte dei giudici di appello delle controprove fornite da essa contribuente il motivo è inammissibile sia perchè si risolve nella richiesta a questa Corte di una non consentita rivalutazione delle risultanze processuali, id est un nuovo giudizio di merito (Cass. n. 16526 del 2016; n. 91 del 2014; n. 5024 del 2012), sia perchè in base alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è consentito denunciare in Cassazione soltanto il vizio specifico relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che sia stato oggetto di discussione tra le parti, ed abbia carattere decisivo, e pertanto il ricorrente non può limitarsi a denunciare l’omesso esame – e men che mai l’erronea valutazione – di elementi istruttori, ma deve indicare l’esistenza di uno o più fatti specifici, il cui esame è stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui essi risultino, il “come” ed il “quando” tali fatti siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti e la loro decisività (cfr. Cass., Sez. U. n. 8053 del 2014; v. anche Cass. n. 7472 del 2017, n. 27415 del 2018).

Orbene, nessuno di tali indicazioni, compresa quella di decisività delle controprove che la ricorrente deduce di aver offerto ai giudici di merito, ovvero della documentazione attestante lo stato di sofferenza in cui versava la ditta (e cioè “protesti, decreti ingiuntivi, richieste di rateizzazione finanche delle utenze” – ricorso, pag. 7), è possibile rinvenire nel motivo di ricorso in esame in cui, oltre al generico riferimento a detta documentazione, senza ulteriori specificazioni, la ricorrente fa riferimento alla “documentazione comprovante la partecipazione al programma “COPES””, di cui peraltro la CTR ha tenuto conto ritenendola controprova inidonea.

In estrema sintesi il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata alle spese processuali liquidate come in dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2020

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