Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34580 del 30/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 30/12/2019, (ud. 02/10/2019, dep. 30/12/2019), n.34580

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvat – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 24989/2018 R.G. proposto da:

CAD D. & C. Spedizioni s.r.l., in persona del legale

rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. Giuseppa Maria

Teresa Lamicela, dall’Avv. Giuseppe Francesco Lovetere e l’Avv.

Marialucrezia Turco, elettivamente domiciliata in Roma, via

Barberini, n. 47;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Dogane, in persona del direttore p.t., rappresentata e

difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ope legis

in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Lombardia 367/2018, depositata il 29 gennaio 2018.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 2 ottobre 2019

dal Cons. Salvatore Leuzzi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Umberto De Augustinis, che ha concluso chiedendo il rigetto

del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avv. Giuseppe Lovetere;

udito per l’Avvocatura Generale dello Stato l’Avv. Anna

Collabolletta.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La società Film s.p.a., per mezzo dell’odierna ricorrente quale rappresentante indiretto, con bolletta del 29 marzo 2012, importava dalla Cina una partita di carburi metallici pronti per la pressatura, sotto la nomenclatura NC 3824 30 00 90, con dazio del 5.3%. A seguito di accertamento, con analisi di campioni, la partita risultava essere una miscela di carburo di tungsteno e polvere metallica sicchè veniva riclassificata alla Taric 3824 30 00 10, con aliquota del 5.3% e dazio antidumping supplementare con aliquota al 33%.

La controversia instaurata dall’importatrice, ai sensi del D.P.R. n. 43 del 1973, artt. 65 e ss., si concludeva presso la Direzione Regionale competente con la conferma della classifica proposta dall’Ufficio.

Successivamente l’Ufficio delle Dogane emetteva provvedimento di rideterminazione dei tributi dovuti, rettificando la dichiarazione doganale.

Difettando il pagamento, l’Ufficio procedeva alla rettifica ed emetteva atto di contestazione di sanzioni amministrative e avviso di accertamento dei maggiori dazi dovuti, notificandoli all’odierna ricorrente.

Con sentenza n. 9623 del 2015, la CTP rigettava le impugnazioni avverso l’avviso di accertamento e l’atto di contestazione relativi all’importazione di cui sopra.

La CTR della Lombardia confermava la sentenza di primo grado.

La ricorrente ha affidato il proprio ricorso a cinque motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle dogane.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia sul motivo d’appello relativo all’illegittimmità della rettifica della classificazione doganale per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, e del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5-bis, “in quanto fondata su un provvedimento mai portato a conoscenza della società, e conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”.

Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del Reg. CE n. 2268 del 2004, art. 1, come modificato dal Reg. CE n. 1275 del 2005, art. 1, e delle regole generali per l’interpretazione della Nomenclatura Combinata nn. 1 e 6, contenute nelle Disp. preliminari al Reg. CEE n. 2658 del 1987, Tariffa, paragrafo A, Allegato I, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente effettuato la classificazione tariffaria del materiale oggetto delle bollette.

Con il terzo motivo di ricorso, si censura la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 5,16 e 17, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente trascurato di motivare in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo necessario alla irrogazione della sanzione in capo all’odierna ricorrente.

Con il quarto motivo di ricorso, la ricorrente censura la nullità della sentenza per omessa pronuncia sul motivo d’appello relativo all’illegittimità delle sanzioni irrogate per violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 5 e 10, stante l’assenza di colpevolezza del rappresentante indiretto, con conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Con il quinto motivo di ricorso, si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, e della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR trascurato di considerare che le sanzioni non sono irrogabili quando la violazione sia dipesa da incertezza normativa.

Il primo motivo è infondato e va respinto.

In effetti, pur evocando il motivo di ricorso consistente nella nullità della sentenza per mancata notifica del provvedimento della Direzione Regionale n. 10 del 2012, la CTR non si sofferma su di esso nel corpo della motivazione.

Ciò, tuttavia, non inficia la sentenza, palesandosi sufficiente rammentare che, secondo pacifico insegnamento della giurisprudenza di legittimità, non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (v. in tal senso Cass. n. 5351 del 2007). Nel caso di specie il rigetto da parte della CTR del gravame proposto dal rappresentante indiretto, all’esito dell’esame nel merito dei motivi che ne erano posti a fondamento, comporta evidentemente l’implicito rigetto della eccezione preliminare di nullità della sentenza. In buona sostanza, la quest’ultima ha assunto una decisione comportante l’implicito rigetto dell’eccezione formulata dalla parte (cfr., tra le molte, Cass. n. 17956 del 2015; Cass. n. 20311 del 2011).

Solo ad abundantiam, peraltro, si constata che le norme richiamate in rubrica dal mezzo di ricorso non appaiono affatto violate. “La L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, che si riferisce solo agli atti di cui il contribuente non abbia già integrale e legale conoscenza, consente di assolvere all’obbligo di motivazione degli atti tributari anche “per relationem”, ovvero mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, che siano collegati all’atto notificato, quando lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, cioè l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento necessari e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, la cui indicazione permette al contribuente ed al giudice, in sede di eventuale sindacato giurisdizionale, di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono le parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento” (Cass. n. 9323 del 2017; Cass. n. 1906 del 2008; Cass. n. 18117 del 2004).

L’avviso di rettifica deve, pertanto, reputarsi legittimamente motivato ove risponda alle prescrizioni del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, ossia riporti nei tratti essenziali, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa, il contenuto di quegli atti presupposti richiamati per relationem ancorchè non allegati (Cass. n. 23985 del 2008).

Ancorchè parte ricorrente lamenti la mancata enucleazione, nel corpo dell’avviso di rettifica, del contenuto della Det. n. 10 del 2012 della Direzione Regionale della Lombardia, detta circostanza è contraddetta dal quadro fattuale e normativo veicolato dalla comunicazione di rettifica del 29 luglio 2013, che della determinazione in parola riproduce il contenuto basilare, sia avuto riguardo alle vicende che hanno condotto alla riclassificazione, sia agli esiti del giudizio del laboratorio di Roma su cui quest’ultima si è incentrata.

Il secondo motivo di ricorso è inammissibile e va disatteso.

Mette in conto osservare che il Reg. CE Consiglio del 26 luglio 2005, n. 1275 del 2005, ha modificato il del Reg. CE n. 2268 del 2004, art. 1, istitutivo del dazio antidumping sulle importazioni di carburo di tungsteno e di carburo di tungsteno fuso originarie della Repubblica popolare cinese; detto art. 1, al paragrafo 1, ora prevede che: “1. E’ istituito un dazio antidumping definitivo sulle importazioni di carburo di tungsteno, di carburo di tungsteno semplicemente miscelato a polvere metallica e di carburo di tungsteno fuso, classificabili ai codici NC 2849 90 30 ed ex 3824 30 00 (codice TARIC 3824 30 00 10), originarie della Repubblica popolare cinese”.

La CTR, premessa una disamina delle regole in punto di classificazioni tariffarie e relative nomenclature, ha osservato che “la classifica dell’Ufficio è conforme a queste regole”, in quanto “basata su ripetuti controlli dei lavoratori chimici pubblici (Milano e Roma) ai quali le parti invitate non hanno voluto presenziare”; non ha ritenuto rilevanti gli esiti dell’analisi di un laboratorio privato” con cui le parti hanno “supportato la loro contestazione”, giacchè non è stato “enunciato il tipo di accreditamento”; ha accertato, infine, che, nella specie, la materia importata era costituita da “carburo di tungsteno semplicemente miscelato”.

In ragione dell’accertamento compiuto, quindi della consistenza dei prodotti importati, siccome riscontrata pure a seguito delle indagini di laboratorio, la CTR ha ritenuto coerente la classificazione tariffaria operatane dall’erario.

Invero, nel “considerando” del Reg. anzidetto, n. 15, si osserva che se il tungsteno “si mescola semplicemente… con una polvere metallica, le sue caratteristiche non cambiano”, dal momento che, pur essendo “la struttura del nuovo tipo di prodotto… leggermente diversa… per via dell’aggiunta di una piccola quantità di cobalto… entrambi i prodotti mantengono le stesse caratteristiche fisiche e chimiche e subiscono esattamente le stesse fasi di trasformazione che portano ad un’identica utilizzazione finale”.

Il considerando n. 19 soggiunge che “la semplice aggiunta di una piccola quantità di cobalto o di qualsiasi altra sostanza indicata al considerando 15 non modifica le proprietà del prodotto” composto di solo tungsteno, in quanto si presta alle “stesse utilizzazioni finali”, dovendo ambedue i materiali “essere ulteriormente trasformati”.

Il considerando n. 22 evidenzia che il nuovo tipo di prodotto frammisto di tungsteno e polvere metallica importato dalla RPC “è applicato per lo stesso scopo del prodotto oggetto delle misure in vigore”, atteso che gli utilizzatori non ravvisano “alcuna differenza tra i due prodotti”.

Questi essendo la cornice normativa e il quadro ermeneutico, appare evidente che il ricorrente ambisca a fornire – benchè ciò si mostri eccentrico rispetto al contesto processuale prescelto – la prova di caratteristiche dei prodotti differenti da quelle accertate dai giudici d’appello, mirando a ravvisare una densità, una fisionomia, una consistenza materiale e chimica dei prodotti diversa da quella appurata dalla CTR anche in ragione delle indagini di laboratorio in precedenza espletate. Segnatamente, la ricorrente aspira a far appurare che i prodotti rappresentati – secondo l’accertamento della CTR – da un composto di tungsteno con semplice aggiunta di polveri metalliche, siano in realtà polveri pronte per la pressatura, a dimensione granulare e scorrevole.

In tal guisa, la ricorrente, pur denunciando la violazione di legge, promuove in realtà una ricostruzione della fattispecie concreta difforme da quella accertata dai giudici d’appello. Ma questa Corte ha più volte affermato il principio, secondo il quale “in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” se non nei limiti del vizio di motivazione come indicato dall’art. 360, comma 5, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. in L. n. 134 del 2012, (Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015).

Il giudice del gravame si è posto in una visuale di piena coerenza con l’orientamento consolidato di questa Corte (v. ex multis Cass. n. 17477 del 2007; Cass. n. 19547 del 2017), limitandosi a dare libera prevalenza ad alcuni elementi di prova al posto di altri e a offrirne idonea contezza argomentativa. Nè la parte processuale può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poichè la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (da ultimo ed ex multis v. Cass. n. 29404 del 2017); con la proposizione del mezzo di impugnazione, il ricorrente non può, infatti, spingersi a contrapporre un difforme apprezzamento in fatto rispetto a quello reso dai giudici del merito, in base ad un’analisi, in sè coerente, degli elementi di valutazione disponibili, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità (Cass. n. 9097 del 2017).

Il terzo e il quarto motivo, suscettibili di trattazione unitaria in virtù di intima connessione, sono infondati e vanno disattesi.

Nel caso di specie la Film s.p.a. è stata pacificamente assistita in dogana dalla odierna ricorrente quale rappresentante indiretto.

Questa Corte ha ancor di recente osservato che “In tema di dazi all’importazione, poichè l’obbligazione del contribuente sorge in conseguenza del mero fatto oggettivo della dichiarazione in dogana, ai sensi dell’art. 202 codice doganale comunitario, comma 3, di cui al Reg. (CEE) 12 ottobre 1992, n. 2913 del 1992, soggetto passivo della medesima è, oltre all’importatore e al suo rappresentante indiretto, qualsiasi soggetto che abbia partecipato alle formalità doganali sapendo, o dovendo ragionevolmente sapere, che l’introduzione della merce era irregolare” (Cass. n. 4389 del 2019).

Sempre di recente questa Corte ha evidenziato che “Lo spedizioniere che sia anche rappresentante indiretto dell’importatore risponde in solido con quest’ultimo dell’obbligazione doganale per il semplice fatto di avere presentato la dichiarazione, atteso che il combinato disposto del Reg. n. 2913/92/CEE, art. 201, commi 3 e 4, prevede specificamente la responsabilità sia di chi, come lo spedizioniere rappresentante indiretto, fa la dichiarazione in dogana a nome proprio, sia dell’importatore, per conto del quale la dichiarazione è fatta” (Cass. n. 17496 del 2019).

La pretesa di parte ricorrente di smarcarsi dalla responsabilità cozza, pertanto, con un principio sedimentato. D’altronde, il quadro normativo è netto e perspicuo. Segnatamente il cit. art. 202, comma 3, dispone che “sono debitori” dell’obbligazione doganale”: (1) la persona che ha proceduto all’introduzione irregolare della merce, quindi l’importatore; (2) “le persone che hanno partecipato a questa introduzione sapendo o dovendo, secondo ragione, sapere che essa era irregolare”, nonchè (3) “le persone che hanno acquisito o detenuto la merce considerata e sapevano o avrebbero dovuto, secondo ragione, sapere allorquando hanno acquisita o ricevuta che si trattava di merce introdotta irregolarmente”.

La piana analisi della norma pone in luce che la consapevolezza (“sapendo o dovendo, secondo ragione, sapere”, “sapevano o avrebbero dovuto, secondo ragione, sapere”) della irregolarità della introduzione della merce, quindi l’afferente stato soggettivo – profilo sul quale, ancorchè non ne abbia affatto fornito la prova, la ricorrente insiste nel terzo motivo di ricorso – rileva unicamente per “le persone” che “hanno partecipato” all’introduzione irregolare” o che “hanno acquisito o detenuto la merce considerata” (cioè introdotta irregolarmente), mai per “la persona che ha proceduto” ad una “introduzione irregolare”: la ratio nitida si rinviene agevolmente nella impossibilità logica di ravvisare una ignoranza della provenienza della merce nella “persona che ha proceduto a tale introduzione irregolare” perchè chi procede all’introduzione” di una merce conosce perfettamente l’origine della stessa e, quindi, la conseguente soggezione di quella “a dazi all’importazione”, oltre che – come affermato nella sentenza 17 luglio 1997 n. 97, resa nel procedimento C-97/95, dalla Corte di Giustizia CE – nelle esigenze di rafforzamento dell’obbligo dell’importatore di vigilare sull’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione da parte dell’esportatore” al fine di evitare “abusi”.

Dal rilievo che precede discende che vanamente la ricorrente invoca il suo stato soggettivo atteso che essa è la il soggetto che ha sdoganato la merce, effettuando la dichiarazione presso gli Uffici doganali, non già una persona che ha accidentalmente e per contingenza “partecipato” a quell’operazione (v. in questo senso Cass. n. 24675 del 2011; v. anche Cass. n. 4389 del 2019 cit.).

Lo stato soggettivo di consapevolezza della irregolarità della introduzione della merce in capo alla CAD è nel caso di specie del tutto irrilevante. Grava, infatti, sull’importatore e sul suo rappresentante indiretto l’obbligo di vigilare “sull’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione dall’esportatore, al fine di evitare abusi” (Cass. n. 24675 del 2011), cosa che, in ipotesi, non risulta essere stata fatta dalla CAD.

L’affermazione dell’obbligo in questione si rispecchia nel p. 57 della sentenza della Corte di giustizia 17 luglio 1997, causa C-97/95, Pascoal & Filhos (richiamata da Cass. n. 24675 del 2011 cit.), la quale espressamente paventa che, se la buona fede dell’importatore fosse capace di esentarlo comunque da responsabilità, “(…) l’importatore sarebbe indotto a non verificare più l’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione da parte dell’esportatore, nè la buonafede di quest’ultimo, il che darebbe luogo ad abusi”.

Si noti che, sebbene la sentenza della Corte di giustizia si riferisca al regolamento CEE n. 1697/79 del Consiglio, del 24 luglio 1979, l’attualità del pericolo paventato dalla Corte di giustizia e dell’obbligo affermato da questa Corte trovano riscontro nell’art. 220 CDC, par. 2, lett. b), secondo cui “la buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale”.

Si tratta, in questo caso, di una diligenza qualificata, da ragguagliare, giusta l’art. 1176 c.c., comma 2, alla “natura dell’attività esercitata”; in particolare, l’esercizio professionale dell’attività di rappresentante indiretto dell’importatore da parte della società contribuente comporta ineludibilmente che lo sforzo diligente ad essa richiesto si estenda al controllo esigibile dell’esattezza delle informazioni fornite dall’esportatore allo Stato di esportazione (Cass. n. 5199 del 2013; Cass. n. 6621 del 2013).

Infondato è anche il quinto motivo di ricorso.

Nel caso di specie, a fronte di una chiara composizione della merce sdoganata, formata di tungsteno frammisto a polveri metalliche, la CTR ha ritenuto corretta e conseguente la classificazione operatane dall’ufficio e avallata dal giudice di primo grado. Pertanto, anche in ragione di quanto esposto sopra, nel respingere il secondo motivo di ricorso, difettano in nuce gli elementi sintomatici elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr., da ultimo, Cass. n. 15452 del 2018) per potersi fondatamente discutere di “oggettiva incertezza normativa tributaria”, quale causa di esenzione dalla responsabilità amministrativa del contribuente, mancando quella condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria (Cass. n. 10662 del 2018) che implica, a valle, l’impossibilità, esistente in sè ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie o, se si tratta del giudice di legittimità, del fatto di genere già categorizzato dal giudice di merito (Cass. n. 23845 del 2016).

Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura espressa in dispositivo. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012), art. 1, comma 17, (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle dogane delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.300,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti, del contributo unificato dovuto per il ricorso principale a norma del cit. art. 13, art. 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2019

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