Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3458 del 12/02/2020

Cassazione civile sez. II, 12/02/2020, (ud. 11/07/2019, dep. 12/02/2020), n.3458

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2879/2018 proposto da:

M.C., rappresentato e difeso dall’avvocato GIANLUCA

SICCHIERO;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO NOTARILE PADOVA, rappresentato e difeso dall’avvocato

FRANCESCO VOLPE;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il

27/07/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

11/07/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato SICCHIERO Gianluca, difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ordinanza depositata il 27 luglio 2017 la Corte d’appello di Venezia, per quanto ancora rileva, ha rigettato il reclamo proposto dal notaio M.C. avverso la decisione della Commissione amministrativa regionale di disciplina per il Triveneto del 20 gennaio 24 febbraio 2017, che lo aveva condannato al pagamento della sanzione pecuniaria di 10.000,00 Euro, per la violazione della L. 16 febbraio 1913, n. 89, art. 147 (L. not.), in relazione all’art. 31, lett. f) dei Principi di deontologia.

2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che la Commissione regionale di disciplina ha natura amministrativa e non giurisdizionale, con conseguente manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata con riferimento all’art. 102 Cost.; b) che la sanzione disciplinare ha come destinatari gli appartenenti ad un ordine professionale ed è preordinata all’adempimento dei doveri inerenti al corretto esercizio dei compiti loro assegnati, con la conseguenza che ad essa non può attribuirsi natura sostanzialmente penale; c) che, nella specie, non era in contestazione il fatto oggettivo concernente il numero rilevante di atti stipulati dal notaio presso agenzie di mediazione creditizia e immobiliari, corrispondente al 30,30% di tutti gli atti ricevuti; d) che nel momento in cui il notaio svolge ricorrenti prestazioni presso soggetti terzi, organizzazioni o studi professionali, deve ritenersi violato l’obbligo di imparzialità di cui all’art. 31 del codice deontologico notarile, dal momento che è del tutto verosimile che la presenza di un notaio presso siffatte agenzie dipenda dalle indicazioni dell’operatore commerciale che assicura al professionista un flusso di clienti tale da rendere proficuo per lui operare fuori sede; e) che l’art. 147, lett. b), L. not. prevede, tra le sanzioni applicabili, la sospensione fino ad un anno che la Commissione, applicando le circostanze attenuanti generiche, aveva sostituito con la pena pecuniaria di cui all’art. 138-bis L. not., in forza del disposto di cui all’art. 144 L. not., come intuitivamente statuito nella decisione impugnata.

3. Avverso tale sentenza il M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, ai quali ha resistito con controricorso il Consiglio Notarile di Padova. Nell’interesse del M. è stata depositata memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta, in relazione agli artt. 3,25,77 e 102 Cost., nullità della sanzione inflitta da un organo che esercita funzioni giurisdizionali, non individuabile come il giudice naturale e al quale non possono essere attribuite funzioni penali.

Con siffatta censura il ricorrente muove dalla premessa della natura penale della sanzione irrogata e denuncia l’illegittimità costituzionale dell’art. 148 L. not., introdotto dal D.Lgs. 1 agosto 2006, n. 249, art. 32, istitutivo delle commissioni amministrative regionali di disciplina, perchè: a) l’art. 7 della legge delega (28 novembre 2005, n. 246) non aveva attribuito alle commissioni il potere di irrogare sanzioni concretamente penali (violazione dell’art. 77 Cost.); b) il potere attribuito alle commissioni di irrogare sanzioni penali si pone in contrasto con l’art. 102 Cost., dal momento che la giurisdizione penale è riservata all’autorità giurisdizionale ordinaria.

Da tali premesse discenderebbe l’accoglimento del reclamo e l’annullamento della sanzione inflitta.

Con distinta articolazione, il ricorrente censura poi lo svolgimento del giudizio dinanzi alla Corte d’appello, rilevando che anche questa conclusione rivela un eccesso di delega, poichè della L. n. 246 del 2005, art. 7, non ha attribuito competenza penale alle Corti d’appello in sede di reclamo e sottolineando che, anzi, della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 54, sulla cui base è stato emanato il D.Lgs. 1 settembre 2001, n. 150, art. 26, ha riguardo ai giudizi civili.

Aggiunge il ricorrente, in via subordinata, che sarebbe incostituzionale la legge delegata, in quanto consentirebbe, in violazione della legge delega, alle commissioni regionali di disciplina di infliggere sanzioni concretamente penali e alle corti di appello, in sede di reclamo, di infliggere sanzioni concretamente penali.

Il ricorrente individua poi altri parametri per sostenere le sopra ricordate conclusioni, cogliendoli negli art. 3 e 25, oltre che nei già menzionati art. 77 e 102 Cost..

La censura è infondata.

Il ricorso muove dalla non condivisibile premessa, per la quale dalla qualificazione convenzionale della materia penale, ossia operata secondo i canoni, nel caso di specie, desumibili dalle finalità perseguite dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), potrebbero trarsi conseguenze per la applicazione delle norme interne che presuppongono nozioni autonome.

In altre parole, nel sistema CEDU ciò che importa è che siano assicurate le garanzie previste dalla Convenzione per la materia penale, mentre non si pretende affatto che, a fini diversi rispetto a quelli di assicurare tale statuto, nell’ambito del diritto interno, siffatta nozione abbia la medesima latitudine.

In altre parole, l’autonomia della nozione è reciproca, una volta assicurate le garanzie CEDU.

Per questa ragione tutte le questioni prospettate con riferimento alla attribuzione di una competenza penale alle commissioni e al giudice civile, alla luce di tutti i parametri costituzionali evocati, non colgono nel segno, in quanto i modi di definizione delle controversie e la ripartizione degli affari giudiziari rientrano, anche volendo supporre la natura penale delle sanzioni di cui si discute, nelle scelte discrezionali del legislatore domestico, salva, si ripete, la necessità di assicurare le pertinenti garanzie convenzionali.

In ogni caso, in generale, il Collegio condivide le conclusioni reiteratamente raggiunte da questa Corte, anche a sezioni unite, quanto alla non riconducibilità della responsabilità disciplinare nell’ambito della materia penale (v., ad es., Cass., Sez. Un., 26 ottobre 2017, n. 25457) e, per quanto in questa sede più direttamente rileva, alla natura amministrativa delle commissioni regionali di disciplina (Cass. 31 gennaio 2017, n. 2526 e, di recente, Cass., Sez. Un., 18 gennaio 2019, n. 1415).

Ne discende che il procedimento davanti alla Corte d’Appello non si può configurare come un secondo grado, ma più propriamente è da intendere come un mezzo di tutela giurisdizionale che assicura il riesame del merito rispetto alla decisione dell’organo amministrativo Cass. n. 1415 del 2019 appena citata ha significativamente aggiunto che “In questa logica la scelta del legislatore delegato di aver escluso – solo formalmente – la ricorribilità per cassazione per motivi implicanti la possibile nullità del procedimento e della sentenza (che costituisce l’ambito proprio della categoria dei vizi riconducibili dell’art. 360 c.p.c., n. 4), deve, pur sempre, coordinarsi con le regole costituzionali del giusto processo e, quindi, con la ineliminabile tutela delle garanzie riconducibili alla piena effettività dell’esercizio del diritto di difesa e al contraddittorio (che rivestono, per l’appunto, un ruolo centrale ed ineludibile nelle garanzie da preservare nella dinamica processuale e che si identificano, senza dubbio, con i più importanti “principi regolatori del giusto processo” ai quali pone riferimento anche l’art. 360-bis c.p.c., n. 2)). In questa ottica è evidente che la mancata possibilità, nel procedimento in discorso, di denunciare in cassazione ad esempio – un vizio di omessa pronuncia su uno o più capi dell’impugnazione proposta davanti alla Corte di appello o la nullità insanabile di un pregresso vizio processuale o la stessa nullità dell’ordinanza decisoria della predetta Corte determinerebbe un evidente vulnus alla tutela degli appena richiamati principi fondamentali dell’ordinamento processuale ormai direttamente costituzionalizzati, che risultano pienamente armonizzati con le norme della Convenzione EDU (e, in particolare, con i suoi artt. 6 e 13)”.

2. Con il secondo motivo si lamenta violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c..

La doglianza, con la quale si censura l’omessa motivazione sulle richieste istruttorie e il mancato esame degli atti prodotti, è infondata, dal momento che: a) le prime non sono affatto decisive, per quanto si dirà nell’esame del terzo motivo, a proposito del significato di imparzialità (non viene contestata la redazione degli atti fuori studio, sicchè non rileva la circostanza che questi siano stati predisposti nello studio notarile); b) i documenti – prodotti dallo stesso M. e legittimamente acquisiti al materiale sul quale fondare la decisione sono stati esaminati (come dimostra il quarto motivo del reclamo), anche se non nel senso auspicato dal ricorrente.

3. Con il terzo motivo si lamenta falsa applicazione dell’art. 147, lett. b), L. not. e dell’art. 31 dei Principi di deontologia notarile, alla luce degli artt. 2727 e 2697 c.c., nonchè violazione del D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 1 e della L. 11 novembre 2011, n. 180, art. 1, comma 5, lett. g) e art. 2, comma 1, lett. a).

Il ricorrente, dopo avere ribadito che l’art. 26 L. not., nella formulazione precedente all’entrata in vigore della L. 4 agosto 2017, n. 124, nel vietare l’apertura di un recapito fuori del collegio di appartenenza, comprimeva illegittimamente la concorrenza fra notai, osserva: a) che l’art. 31, lett. f) dei Principi citati si pone in contrasto con la successiva disciplina della concorrenza, mascherando, sotto lo schermo della tutela della imparzialità del notaio, un divieto diretto a realizzare la spartizione territoriale del mercato; b) il cit. art. 31 realizza una presunzione di parzialità che si pone in contrasto con l’art. 2727 c.c. e costringe il notaio ad una probatio diabolica.

La censura è infondata.

Quanto alla ricostruzione della vicenda, osserva la Corte che non è in contestazione il fatto oggettivo relativo al numero rilevante di atti stipulati dal notaio presso agenzie di mediazione creditizia e immobiliare (nel 2015, circa il 30,30% degli atti ricevuti).

In tale contesto, le censure in fatto sono del tutto fuori fuoco (e si conferma per tale via, la decisione sul secondo motivo di ricorso).

In diritto, una volta che la regola della imparzialità venga declinata, alla stregua dell’art. 31 del codice deontologico, non come concreto esercizio di equidistanza nella redazione degli atti, ma in termini preventivi e di garanzia dell’immagine della categoria come dovere di astensione, nella fase della assunzione dell’incarico, da comportamenti che influiscano sulla designazione, la presenza consistente presso vari recapiti stabili di organizzazioni diviene rilevante.

Ciò, si ripete, non come fatto espressivo di concreta parzialità (e tanto consente di superare i temi della presunzione, che il ricorrente costruisce attorno ad un fatto noto da provare – la concreta parzialità, appunto, che invece non assume rilievo), nè come indice di concorrenza, nonostante il riferimento della sentenza all’accaparramento di clientela, che va inteso, con riferimento alla portata della norma deontologica, come concorso consapevole del notaio in una scelta etero-diretta del professionista, vista come elemento idoneo a turbare le condizioni che ne assicurano l’imparzialità.

In altri termini, il riflesso sugli esiti economici di tale condotta rappresenta l’effetto indiretto della scelta di garantire la terzietà del notaio e non una non ponderata regolamentazione restrittiva delle attività economiche.

4. Con il quarto motivo si lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 144 e 147 L. not., per avere la Corte territoriale applicato l’art. 144 cit., che alla sospensione sostituisce la sanzione pecuniaria in caso di attenuanti, senza avvedersi che la previsione opera per tutti i casi diversi dall’art. 147 cit., che, invece, al proprio interno contiene tutte le graduazioni in materia di sanzione in relazione alla gravità del caso concreto.

In disparte il tema dell’interesse a dolersi della applicazione di una sanzione pecuniaria rispetto a quella della censura – alla quale, secondo il ricorrente, ammettendo di voler partire dalla sanzione base della sospensione, si sarebbe dovuti giungere -, si osserva: a) che l’applicazione della sospensione rispetto alla censura appare fondata sulla valutazione – che emerge dal complesso della motivazione del provvedimento impugnato – della gravità della condotta, desumibile dai dati quantitativi sopra ricordati; b) l’art. 147 cit. prevede, in linea generale, come sanzione delle condotte descritte, la censura o la sospensione, aggiungendo che la destituzione è sempre applicata se il notaio, dopo essere stato condannato per due volte alla sospensione per la violazione del presente articolo, vi contravviene nuovamente nei dieci anni successivi all’ultima violazione.

L’art. 144 cit., dal canto suo, dispone che, se nel fatto addebitato al notaio ricorrono circostanze attenuanti ovvero quando il notaio, dopo aver commesso l’infrazione, si è adoperato per eliminare le conseguenze dannose della violazione o ha riparato interamente il danno prodotto, la sanzione pecuniaria è diminuita di un sesto e sono sostituiti l’avvertimento alla censura, la sanzione pecuniaria, applicata nella misura prevista dall’art. 138-bis, comma 1, alla sospensione e la sospensione alla destituzione.

Ciò posto, l’ordinanza 18 luglio 2017, n. 27099, invocata dal ricorrente, si è occupata non del modo di operare delle attenuanti generiche, con riguardo alla generalità delle sanzioni disciplinari, ma del fatto che, in taluni casi (art. 147, comma 2, L. not.), deve essere necessariamente disposta la destituzione.

Siffatta scelta legislativa è stata intesa da questa Corte, nel senso che, in tali ipotesi, “il trattamento sanzionatorio è insensibile alla eventuale “lievità” in concreto del fatto costituente illecito disciplinare, essendo la sanzione prevista dalla legge in modo inderogabile, sulla base di una presunzione iuris et de iure di gravità del fatto. In altre parole, in presenza della recidiva reiterata infradecennale richiamata dall’art. 147, comma 2, della Legge citata, va sempre applicata la sanzione della destituzione, non potendosi, pur quando ricorrano circostanze attenuanti, addivenirsi alla sostituzione della sanzione della destituzione con quella della sospensione”.

In altri termini, la specialità dell’art. 147 L. not. non è assoluta, ma riguarda il caso della destituzione. L’art. 147 cit., invece, non contiene alcuna norma speciale, rispetto all’art. 144, rispetto al modo nel quale operano le attenuanti generiche rispetto alla sospensione o alla censura. Ne discende che l’unica norma applicabile non può che essere l’art. 144.

5. In conclusione, il ricorso va rigettato. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2020

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