Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3454 del 12/02/2020

Cassazione civile sez. I, 12/02/2020, (ud. 11/12/2019, dep. 12/02/2020), n.3454

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5548/2019 proposto da:

T.A.C., elettivamente domiciliata in Roma, Via

Toscana 10, presso lo studio dell’avvocato Rizzo Antonio, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato De Vellis Valeria,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

A.G., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza di Spagna

31, presso lo studio dell’avvocato Rossello Cristina, che lo

rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2387/2018 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 29/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/12/2019 da Dott. TRICOMI LAURA.

Fatto

RITENUTO

CHE:

T.A.C. propone ricorso per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Palermo in epigrafe indicata, con due mezzi. A.G. replica con controricorso.

Per quanto interessa il presente giudizio, la Corte di appello di Palermo, nell’ambito di un giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, aveva confermato la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda volta alla conservazione del diritto ad utilizzare il cognome maritale; aveva altresì ritenuto inammissibile la censura svolta in merito alla pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 3, e succ. mod. criticando la decisione di rigetto della domanda di conservazione del cognome maritale dalla stessa avanzata sia nel proprio interesse, che nell’interesse della figlia minore F.E. e sostiene che la Corte di appello non si sarebbe attenuta ai criteri normativi sulla scorta dei quali la domanda andava valutata.

A parere della ricorrente la disciplina evocata non richiede come presupposto per il riconoscimento un interesse “straordinario”, come ritenuto dalla Corte di appello, ma un interesse meritevole di tutela e ribadisce che questo ricorreva sia per se medesima, che per la figlia minore.

Quindi, in relazione al personale interesse, invoca i profili di identità sociale e di vita di relazione e sostiene che la “meritevolezza” riguarda le esigenze di indole morale e sociale all’evidenza apprezzabili, ma non necessita di alcun carattere di straordinarietà (fol. 10 del ricorso). Si sofferma quindi su circostanze di fatto che, a suo dire, la Corte di appello avrebbe ignorato nel formulare la sua valutazione, segnatamente: il fatto che, pur essendosi sposata a 38 anni, si era costruita nell’ambiente sociale di riferimento una identità personale e sociale esclusivamente come ” A.E.”; la circostanza che da 23 anni (7 di fidanzamento e 16 di matrimonio) era così conosciuta nel suo attuale ambiente sociale ed amicale. Si duole che la Corte territoriale, trascurando il pregiudizio morale ed esistenziale e facendo riferimento ad una “straordinarietà” dell’interesse normativamente non richiesta, abbia violato la disposizione di legge.

Quanto all’interesse della figlia, ribadita la censura in merito all’erroneità della valutazione secondo il parametro della straordinarietà dell’interesse, ha sottolineato l’interesse della minore meritevole di tutela a che la madre continui a utilizzare il cognome maritale, rimarcando il disagio ed il pregiudizio che la contraria determinazione avrebbe potuto provocarle nell’ambiente scolastico, nel quale la madre aveva sempre speso il cognome maritale, circostanza sulla quale aveva articolato prova istruttoria non ammessa.

1.2. Il motivo è infondato.

In tema di cognome maritale l’art. 143 bis c.c. prevede che la moglie aggiunga al proprio cognome quello del marito e lo conservi durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze.

Tale disposizione innanzi tutto evidenzia che, quello che è stato definito dalla dottrina come un diritto/dovere, consegue esclusivamente al rapporto di coniugio; esplicita quindi che non vi è più, come avveniva in passato, la perdita del cognome personale della donna – che, pertanto, continua quindi ad individuarla -, ma solo l’aggiunta del cognome maritale; evidenzia, quindi che questo effetto del matrimonio è circoscritto temporalmente alla perduranza del rapporto di coniugio, tanto da integrarne una esplicita deroga l’ultrattività dell’effetto nel caso in cui il matrimonio si sia concluso per il decesso dell’altro coniuge.

Questi principi sono confermati, a contrario dalla disciplina dettata dalla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 3, in tema di divorzio, ove è detto “Il tribunale, con la sentenza con cui pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela.”, di guisa che l’eccezionale deroga alla perdita del cognome maritale è discrezionale e richiede la ricorrenza del presupposto dell’interesse.

Tale complessa disciplina è frutto del principio cui l’ordinamento familiare è ispirato e che privilegia la coincidenza fra denominazione personale e status.

La possibilità di consentire con effetti di carattere giuridico-formali la conservazione del cognome del marito, accanto al proprio, dopo il divorzio, è da considerarsi una ipotesi straordinaria affidata alla decisione discrezionale del giudice di merito secondo criteri di valutazione propri di una clausola generale, ma che non possono coincidere con il mero desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa quanto alla sua rilevanza giuridica. Nè può escludersi che il perdurante uso del cognome maritale possa costituire un pregiudizio per il coniuge che non vi acconsenta e che intenda ricreare, esercitando un diritto fondamentale a mente dell’art. 8 C.E.D.U., un nuovo nucleo familiare che sia riconoscibile, come legame familiare attuale, anche nei rapporti sociali e in quelli rilevanti giuridicamente.

La valutazione della ricorrenza delle circostanze eccezionali che consentono l’autorizzazione all’utilizzo del cognome del marito è rimessa al giudice del merito giacchè “di regola non è ammissibile conservare il cognome del marito dopo la pronuncia di divorzio, salvo che il giudice di merito, con provvedimento motivato e nell’esercizio di poteri discrezionali, non disponga diversamente.” (in tema Cass. n. 21706 del 26/10/2015; Cass. n. 3869 del 08/02/2019).

La Corte territoriale si è attenuta a questi criteri e la decisione risulta immune da vizi.

In particolare ha ritenuto, motivatamente, che nessun interesse davvero meritevole di tutela sia stato allegato dalla T. al mantenimento del cognome maritale unitamente al proprio, perchè “sostanzialmente rivolto alla conservazione e/o affermazione della notorietà derivatale dall’ex marito nelle frequentazioni sociali, ossia tra quelle stesse persone che, come evidenziato dal Tribunale, non possono ignorare le vicende della coppia” (fol. 7 della sent. imp.) ed ha rimarcato che l’uso consuetudinario del cognome maritale comune a tutte le donne divorziate nel corso del coniugio – “non può assumere maggior merito per la notorietà dell’uomo con cui è stata sposata, perchè l’interesse a ciò sotteso sarebbe senza dubbio effimero” (fol. 7 cit.) e che “la T. nulla allega che possa far ritenere la sua situazione “straordinaria”, limitandosi, si ripete a rilevare l’uso del cognome maritale nelle relazioni sociali acquisite”.

Ha quindi considerato anche altre circostanze, ritenute significative per escludere la ricorrenza di un interesse meritevole di tutela, tra cui il fatto che la T. si era sposata a 38 anni, deducendo da ciò che avesse già acquisito una propria identità come T.C. anche al di fuori della stretta cerchia familiare – considerato anche il pregresso impegno lavorativo come dipendente bancaria -, che il matrimonio era durato 12 anni e che la convivenza matrimoniale era durata ancora meno, per la crisi coniugale intervenuta dopo pochi anni.

In proposito la Corte territoriale ha rimarcato anche la novità, e quindi l’inammissibilità, della deduzione della donna volta a ricomprendere nel periodo rilevante anche il fidanzamento e la convivenza prematrimoniale, inammissibilità che va confermata anche nel presente grado.

Anche con riferimento alla posizione della figlia F.E. la Corte di appello ha accertato che “alcuno specifico e “straordinario” interesse” della minore è stato allegato dalla madre, giacchè “la condizione della minore dedotta in giudizio è, infatti, del tutto uguale a quella di figli di coppie divorziate e sta ai genitori sostenerle nel suo paventato (ma non comprovato) possibile disagio” (fol. 8).

La censura, che inammissibilmente insiste anche sulla circostanza della durata del fidanzamento e della convivenza, dà segno anche di non avere colto la ratio decidendi, laddove critica l’utilizzo del parametro di meritevolezza in termini di “straordinarietà” dell’interesse.

Dal complesso della motivazione si evince chiaramente che il riferimento ad un interesse “straordinario” è utilizzato dalla Corte territoriale per evidenziare – in linea con i principi enunciati – la necessità che l’interesse fatto valere e potenzialmente meritevole di tutela debba essere connotato in termini specifici e personali e non possa essere retratto esclusivamente nell’uso normale – e legittimo del cognome nelle relazioni sociali acquisite in ragione del matrimonio e durante lo stesso, che è l’unico interesse sostanzialmente dedotto dalla ricorrente sia in suo favore, che della figlia minore.

2.1. La ricorrente, con un secondo motivo, impugna la sentenza di secondo grado anche con riferimento alla pronuncia sullo status, criticando la scelta di scindere la pronuncia sulla domanda del cognome maritale da quella sullo status.

2.2. Il motivo è inammissibile perchè non coglie la ratio decidendi.

La Corte di appello infatti ha respinto l’impugnazione della pronuncia di primo grado sullo status ritenendola inammissibile, giacchè nulla era stato contestato sul punto e nessuna domanda era stata formulata con specifico riguardo alla pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio (fol. 8 della sent. imp.).

La doglianza non si confronta affatto con detta statuizione e ciò ne rende palese l’inammissibilità.

3. In conclusione il ricorso va rigettato, infondato il primo motivo ed inammissibile il secondo.

Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

Va disposto che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass. S.U. n. 23535 del 20/9/2019).

PQM

– Rigetta il ricorso;

– Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00=, oltre Euro 200,00= per esborsi, spese generali liquidate forfettariamente nella misura del 15% ed accessori;

– Dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza siano omesse le generalità delle parti e dei soggetti in essa menzionati, a norma del D.Lgs. n. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52;

Dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2020

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