Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34538 del 27/12/2019

Cassazione civile sez. I, 27/12/2019, (ud. 30/10/2019, dep. 27/12/2019), n.34538

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25778/2015 proposto da:

R.F.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via

Montezebio 28, presso lo studio dell’avvocato Bernardi Giuseppe, che

lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

T.M., in proprio e quale legale rappresentante di T.

& Partners – Studio legale Associato; A.G., + ALTRI

OMESSI, elettivamente domiciliati in Roma, Via Dei Tre Orologi 10/e,

presso lo studio dell’avvocato Ranieri Massimo, che li rappresenta e

difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 8610/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 01/10/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/10/2019 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata in data 1 ottobre 2014 la Corte d’Appello di Roma ha confermato integralmente la sentenza del Tribunale di Roma n. 5234/2008 con cui è stata rigettata la domanda proposta dall’avv. R.F.M., finalizzata a far accertare l’esistenza di un rapporto associativo atipico del medesimo con lo studio professionale T. e ad ottenere la condanna dell’avv. T.M., legale rappresentante dello “studio Legale T. – Associazione Professionale” nonchè dei suoi associati al pagamento in favore dell’attore della somma di Euro 697.739,20 (oltre agli onorari incassati dallo studio con fatture da emettere successivamente al 28.2.2001), corrispondente al 30% degli onorari dovuti dai clienti comuni dell’attore e dello studio T..

Il giudice di secondo grado ha valutato l’insussistenza di elementi idonei a dimostrare l’esistenza di un rapporto associativo, seppur atipico, ritenendo, in primo luogo, non verosimile che l’avv. R. avesse acquistato la qualità di socio dello studio in base ad un accordo intercorso con uno solo dei soci, senza alcun intervenuto deliberativo (anche solo in ratifica) da parte degli altri soci.

Sono stati, inoltre, valorizzati come elementi ostativi al riconoscimento di un rapporto associativo l’inesistenza di un fondo comune e la mancanza di una partecipazione dell’avv. R. al rischio di impresa.

Il giudice d’appello, ha, altresì, ritenuto non provata alcuna attività di assistenza professionale svolta dall’avv. R. a favore del clienti dello studio T., indicati nel documento 11 allegato all’atto di citazione.

Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione R.F.M. affidandolo a tre motivi.

L’avv. T.M., in proprio e nella qualità di legale rappresentante dello “studio Legale T. – Associazione Professionale” nonchè gli altri associati A.G., + ALTRI OMESSI si sono costituiti in giudizio con controricorso.

Il ricorrente ha depositato la memoria ex art. 380 bis1 c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente R. ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli artt. 1322,1362,1363,1343 c.c. e art. 112 c.p.c..

Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello ha ridotto il rapporto tra lo stesso e lo studio T. entro lo schema del contratto di prestazione d’opera professionale per il solo rilievo che lo stesso rapporto non fosse perfettamente riconducibile nè al contratto di società nè al rapporto di partecipazione in associazione, così incorrendo nella violazione della norma sulla autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c., comma 2, nonchè delle norme di interpretazione del contratto di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. e della norma sulla causa del contratto, che impone di valutare il concreto assetto di interessi che le parti hanno voluto regolare.

Il giudice di secondo grado ha ragionato secondo il criterio della sussunzione nel “tipo”, non accertando se quel regolamento non fosse da considerare un contratto atipico, e come tale meritevole di tutela.

In realtà, i giudici di merito non hanno considerato che tra le parti era stato instaurato un rapporto associativo atipico in virtù del quale l’avv. R. aveva conferito, oltre alla propria professionalità ed al proprio studio con sede in (OMISSIS), il portafoglio clienti, mentre l’altro associato aveva conferito la propria professionalità ed i componenti del proprio studio.

In particolare, l’esistenza di un tale rapporto atipico era desumibile dalle scritture redatte dal rag. T., dalle quali risultava che gli onorari riconosciuti dallo studio T. all’avv. R. erano quantificati nella misura del 30% delle somme effettivamente corrisposte da alcuni clienti assistiti congiuntamente, tra cui rientravano le pratiche “F.lli C.” e “AGIC”, nonchè dal telefax inviato dallo studio T. al R. avente ad oggetto “importi anticipati a FMR (ossia R.F.M.) su provvigioni”.

Il giudice d’appello ha svalutato il comportamento complessivo delle parti, in spregio alla norma sull’interpretazione del contratto di cui all’art. 1362 c.c., comma 2, svalutando tutti i documenti prodotti dal ricorrente.

2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1343 c.c., art. 1322 c.c., comma 2, art. 2102 c.c., L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 4.

E’ stato, inoltre, dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero la partecipazione dell’avv. R. al rischio di impresa ed alle perdite.

Lamenta il ricorrente, in ordine al rilievo della Corte d’Appello secondo cui l’insussistenza del rapporto associativo con lo studio deriverebbe dalla mancata ratifica da parte degli altri soci dell’accordo concluso dallo stesso con l’avv. T., di non essere diventato socio dello studio, ma di aver solo raggiunto un’intesa per assistere in forma condivisa alcuni suoi clienti. Rileva che la disciplina dell’associazione professionale non richiede per la conclusione di un accordo di tal sorta una delibera dei soci, ma solo che il legale rappresentante dello studio stipuli il contratto.

Espone, altresì, il ricorrente, che a differenza di quanto osservato dalla Corte di merito, non occorre la costituzione di un fondo comune nè nell’associazione in partecipazione, nè nel caso di associazione di professionisti a norma della L. n. 247 del 2012, art. 4 nè nel contratto di società, in cui è richiesto un patrimonio sociale.

Non occorre neppure ai fini dell’instaurazione di un rapporto associativo un’intesa ai fini della ripartizione delle spese, essendo sufficiente che ciascuno degli associati apporti un contributo con l’intenzione di gestire uno o più affari congiuntamente ripartendo gli utili.

Nel caso di specie, il ricorrente ha conferito, oltre alla sua professionalità, il suo prestigioso studio in (OMISSIS) ed il proprio importante portafoglio clienti.

L’avv. R. ha, inoltre, partecipato alle spese, essendo stata sempre a suo carico la gestione dello studio legale sito in (OMISSIS) ed essendo comunque stati prodotti in giudizio documenti attestanti la sua partecipazione alle spese.

In ordine al rischio d’impresa, evidenzia che la partecipazione a tale rischio in un rapporto associativo tra professionisti non può che essere tarato e commisurato al mancato pagamento degli onorari, di talchè se per qualsiasi motivo i clienti dell’avv. R. non avessero versato l’onorario nè lo stesso nè lo studio T. avrebbe conseguito l’utile.

3. Il primo ed il secondo motivo, da esaminare congiuntamente in quanto strettamente connessi, presentano profili di infondatezza ed inammissibilità.

Va, in primo luogo, osservato che la Corte d’Appello, nell’individuare la natura del rapporto intercorso tra l’avv. R. e lo studio T., non è affatto incorsa nella violazione degli artt. 1322,1343 c.c. e art. 1363 c.c. e ss., avendo provveduto ad esaminare gli elementi qualificanti del rapporto dedotto in giudizio con riferimento alla disciplina della società semplice. Del resto, ciò era stato auspicato proprio dal ricorrente nel secondo motivo d’appello, nel quale, come emerge dalla sintesi non contestata dello stesso motivo contenuta a pag. 9 della sentenza impugnata, l’appellante, odierno ricorrente, aveva chiesto di provare l’esistenza di un “accordo di gestione congiunta dell’attività professionale con riferimento alla disciplina della società semplice”.

A differenza di quanto affermato dal ricorrente, la Corte d’Appello non ha svolto un’opera interpretativa di sussunzione per “tipo”, non ha ritenuto sussistente tra le parti un rapporto di mera collaborazione professionale solo perchè lo stesso rapporto non rientrava perfettamente in quello di società – o di associazione in partecipazione, peraltro, quest’ultimo, neppure menzionato – ma è indubbio che allo scopo di verificare la sussistenza o meno tra le parti di un rapporto associativo atipico (questo sì espressamente menzionato nel proprio percorso argomentativo), abbia utilizzato alcuni parametri interpretativi trasponendoli dalla disciplina della società semplice.

E’ stato quindi correttamente affermato che, ai fini della configurabilità di un rapporto associativo seppur atipico, rileva, in primo luogo, l’esistenza di un fondo comune – inteso come patrimonio distinto da quello personale dei singoli associati elemento, nel caso di specie, insussistente che, peraltro, caratterizza anche altri enti collettivi come le associazioni non riconosciute, a norma dell’art. 37 c.c..

La Corte di merito ha, inoltre, evidenziato il difetto di un altro elemento qualificante il rapporto associativo, quale la partecipazione alle spese, sulla base di un ragionamento che, in quanto fondato sull’esame dei documenti, attiene alla valutazione in fatto riservata dal giudice di merito, ed è come tale non è sindacabile dal giudice di legittimità (vedi pagg. 11 e 12 sentenza impugnata).

In proposito, tutte le censure svolte dal ricorrente finalizzate alla ricostruzione di una realtà fattuale diversa da quella ritenuta dai giudici di merito si appalesano inammissibili.

Altro elemento correttamente valorizzato dal giudice d’appello è la mancata partecipazione dell’avv. R. al rischio di impresa. Sul punto, il ricorrente ha dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo consistente nel rilievo che nella professione legale il rischio di impresa non può che essere tarato e commisurato al mancato pagamento degli onorari da parte dei clienti, rischio che anche il ricorrente ha sopportato nel caso di specie.

Tale considerazione non è per questo Collegio persuasiva.

Elemento che connota qualsiasi associazione professionale, seppur atipica, è la compartecipazione di tutti gli associati agli utili ed alle perdite. Queste ultime non possono ridursi – come sostenuto dal ricorrente – nel mancato pagamento degli onorari (che rappresentano i ricavi), potendo essere solo conseguenza dell’eventuale superamento, sotto il profilo contabile, dei costi di gestione della complessa attività di uno studio professionale rispetto ai proventi dello studio medesimo.

Tale elemento, secondo la ricostruzione della sentenza impugnata, non è stato minimamente contemplato nell’intesa intercorsa tra l’avv. R. e lo studio T., così come, del resto, la Corte d’Appello ha accertato che nessuna prova è stata fornita dal ricorrente in ordine all’esistenza di un accordo associativo che avrebbe visto il “conferimento” dello studio di (OMISSIS) in cambio in una percentuale del 30 % su tutti gli onorari versati dai clienti assistiti congiuntamente dai professionisti dei due studi professionali.

Ne consegue che tutte le censure formulate anche su quest’ultimo punto dal ricorrente si appalesano inammissibili in quanto finalizzate a sollecitare una rilettura degli elementi di prova già esaminati dai giudici di merito.

Peraltro, l’affermazione contenuta più volte nel ricorso secondo cui la stessa sentenza della Corte d’Appello avrebbe, a pag. 2, ritenuto che “l’attore (l’avv. R.) e l’avv. T. (nella qualità di legale rappresentante dello studio T.) avevano deciso di assistere in forma associata i clienti reperiti dall’odierno attore in territorio (OMISSIS)” è palesemente inesatta, atteso che il giudice di secondo grado, nell’introdurre la vicenda che ha dato origine alla lite di cui è causa, non ha fatto altro che riportare un passaggio introduttivo della sentenza di primo grado nel quale era fedelmente indicato quanto prospettato dallo stesso avv. R.. Inequivocabile è l’espressione:”… Con atto di citazione ritualmente notificato l’attore premesso che….”.

Infine, anche le censure svolte in ordine all’allegata violazione dei criteri di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. si configurano come inammissibili.

In proposito, va osservato che l’interpretazione di un rapporto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., o di motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell'”iter” logico seguito per giungere alla decisione. Pertanto, onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa. (Cass. n. 10554 del 30/04/2010, n. 22102 del 19/10/2009).

Nel caso di specie, il ricorrente con l’apparente doglianza della violazione dei criteri d’interpretazione contrattuale, ha, in realtà, prospettato una diversa interpretazione del contenuto del rapporto intercorso con lo studio T..

4. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 Cost. in connessione all’art. 2 Cost., all’art. 2 T.U.E. e all’art. 1 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Lamenta il ricorrente che considerare il rapporto intercorso tra le parti come mero contratto di collaborazione professionale sarebbe irragionevole, sproporzionato, nonchè lesivo della sua dignità umana e professionale, tenuto conto dell’apporto dallo stesso fornito all’associazione (studio (OMISSIS)no, portafoglio clienti e professionalità).

5. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1375 c.c..

Lamenta il ricorrente che la Corte d’Appello non ha considerato la strategia processuale dello studio T. volta ad eludere l’obbligo di corrispondere all’avv. R. il 30 % di quanto incassato, sull’erroneo rilievo che non vi fosse prova nè dell’avvenuto pagamento, nè, per altro verso, della stessa assistenza professionale prestata dall’avv. R.. Rileva che le attività professionali rispetto alle quali lo stesso ha richiesto di conseguire il 30% sono state prestate a favore di suoi clienti e non a favore di clienti dello studio T..

Evidenzia il ricorrente, in ordine al rilievo della Corte di merito secondo cui l’incarico professionale da parte del cliente F.G. fu conferito direttamente allo studio T., che, anche ammettendo ciò, lo studio avrebbe posto in essere un comportamento contrario a buona fede, trattandosi di circostanza non contestata in giudizio che F.G. era un cliente dell’avv. R..

6. Il terzo ed il quarto motivo, da esaminarsi congiuntamente in quanto strettamente collegati, sono inammissibili.

Va osservato che il ricorrente ha ritenuto che la Corte di merito sia incorsa nella violazione dell’art. 3 Cost. in connessione all’art. 2 Cost., all’art. 2 T.U.E. e all’art. 1 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea e dell’art. 1375 c.c. ponendo sempre come base del proprio ragionamento una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dai giudici di merito, che non è consentita in sede di legittimità.

Anche con riferimento alla gestione e all’assistenza dei clienti (tra cui F.G.) – in relazione alla quale il giudice di secondo grado ha ritenuto che, alla luce dell’esame dei documenti acquisiti nel corso del processo, non fosse stata provata dall’avv. R. alcuna attività di assistenza professionale in favore dei clienti dello studio T. indicati nel doc. 11 degli allegati dell’atto di citazione – il ricorrente non ha fatto altro che formulare censure di merito.

In particolare, viene prospettata dal ricorrente una realtà effettuale diversa da quella accertata dalla Corte d’Appello, ovvero che le attività professionali rispetto alle quali l’avv. R. ha chiesto di conseguire il 30 % erano state prestate a favore di propri clienti e non di clienti dello studio T.. Anche con riferimento a F.G., il ricorrente ha svolto una censura di merito deducendo che “Risulta per tabulas, nè si tratta di circostanza contestata nel corso del giudizio, che F.G. fosse un cliente dell’avv. R.”.

Anche la dedotta violazione del principio di buona fede, per avere il F. conferito direttamente l’incarico allo studio T., si fonda quindi sull’allegazione di circostanze fattuali diverse da quelle accertate dalla Corte d’appello, che ha ritenuto l’estraneità del R. alle attività di assistenza legale prestate (dallo studio T.) a favore anche di tale cliente.

Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come in dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 12.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso principale dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 30 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2019

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