Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34527 del 27/12/2019

Cassazione civile sez. I, 27/12/2019, (ud. 10/09/2019, dep. 27/12/2019), n.34527

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16181/2015 proposto da:

Veneto Banca S.c.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Sistina n. 42,

presso lo studio dell’avvocato Galoppi Giovanni, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato Lillo Antonella, giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Fimpa S.p.a., oggi Fimpa s.r.l., in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Francesco Denza

n. 50/a, presso lo studio dell’avvocato Laurenti Nicola, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Fabiani Franco, giusta

procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2263/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 17/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

10/09/2019 dal cons. FIDANZIA ANDREA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Verbania – con sentenza n. 553/2011, depositata in data 8 agosto 2011 – nelle cause riunite proposte dalla FIMPA s.p.a. nei confronti di Banca Popolare di Intra s.p.a. (poi incorporata da Veneto Banca S.c.p.A.) aventi ad oggetto la restituzione delle somme indebitamente versate all’istituto di credito sui c/c nn. (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) in conseguenza della capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori e dell’applicazione di spese di chiusura conto in assenza di specifica convenzione, di interessi ultra legali in assenza della relativa determinazione e con rinvio agli “usi piazza” ovvero pattuiti, ma applicati su di un montante viziato dalla pratica anatocistica, di commissioni di massimo scoperto non pattuite, di interessi usurari in alcuni periodi dell’anno – ha rigettato la domanda attorea per intervenuta prescrizione del diritto di ripetizione dell’indebito per il c/c n. (OMISSIS), e, con riferimento ai (OMISSIS) e (OMISSIS), ha accertato il credito della società attrice nei confronti della Banca per rispettivamente Euro 98.500,00 ed Euro 75.054,98.

La Corte d’Appello di Torino, con sentenza depositata il 17 dicembre 2014, ha rigettato sia l’appello principale proposto da VENETO BANCA S.c.p.A., sia l’appello incidentale svolto da FIMPA s.p.a..

In particolare, il giudice di secondo grado, in primo luogo (con riferimento al primo motivo d’appello), ha condiviso l’impostazione del giudice di primo grado e confutato la prospettazione della Banca secondo cui la società cliente avesse adempiuto ad un’obbligazione naturale, con la conseguenza che, in virtù dell’art. 2034 c.c., non poteva agire in restituzione delle prestazioni spontaneamente eseguite in adempimento di doveri di tipo morale e sociale, le quali erano, pertanto, irripetibili.

Il giudice di secondo grado ha, inoltre, rigettato la censura della Banca, secondo cui la società appellata non avesse assolto all’onere probatorio su di essa incombente relativo alle attribuzioni patrimoniali oggetto di restituzione, sul rilievo che, alla luce della posizione complessivamente assunta dalla convenuta in primo grado, il suddetto presupposto di fatto della domanda di ripetizione non risultava essere stato messo in discussione nei limiti in cui processualmente ciò avrebbe potuto avvenire. Peraltro, la documentazione in atti era sufficiente a consentire la verifica della fondatezza delle domande dell’attrice e la rideterminazione dei rapporti dare e avere, a nulla rilevando l’impossibilità di individuare l’origine e la natura delle rimesse del cliente, incidendo tale questione soltanto sul diverso profilo attinente alla prescrizione.

Avverso la predetta ha proposto ricorso per cassazione VENETO BANCA S.c.p.A. affidandolo a sei motivi.

La FIMPA s.p.a. si è costituita in giudizio con controricorso.

Veneto Banca ha depositato la memoria ex art. 380 bis. 1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con un il primo motivo VENETO BANCA S.c.p.A. ha dedotto la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4.

Lamenta la Banca ricorrente che il giudice d’appello aveva rigettato la propria censura (svolta con il secondo motivo d’appello), secondo cui il giudice di primo grado non aveva accertato la mancata prova in capo a Fimpa dei fatti costitutivi della domanda svolta, con una motivazione meramente formale ed apodittica (essendo stato solo argomentato che la documentazione in atti era sufficiente a consentire la verifica della fondatezza delle domande dell’attrice).

2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione degli artt. 2033 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta la Banca che il giudice d’appello ha errato nel ritenere rilevante ai soli fini della prescrizione l’individuazione delle singole rimesse solutorie e avrebbe dovuto rigettare la domanda, non avendo l’attrice allegato e provato le uniche rimesse ripetibili, ossia le rimesse solutorie, a fronte di rapporti – i conti correnti nn. (OMISSIS) e (OMISSIS) affidati.

Al contrario, le S.U. di questa Corte, nella sentenza n. 24418 del 23/11/2010, hanno attribuito diversa rilevanza, ai fini dell’esercizio della pretesa restitutoria del cliente, alla natura ripristinatoria o solutoria del versamento del cliente, atteso che i versamenti possono essere considerati alla stregua di pagamenti, e, come tali, oggetto di ripetizione, solo se eseguiti su un conto passivo su cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista o se sono destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’affidamento.

In sintesi, potendosi considerare come pagamenti solo i versamenti solutori, è onere del correntista che agisce in ripetizione fornire la prova delle rimesse solutorie.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello è incorsa nell’errore di affermare che la Fimpa aveva fornito la prova dei fatti oggetto di contestazione pur di fronte alla conclamata, ed evidenziata, impossibilità da parte del C.T.U. di riscontrare l’origine e la natura delle rimesse del cliente.

In particolare, nei c/c nn. (OMISSIS) e (OMISSIS), entrambi affidati, la Corte ha accolto la domanda di ripetizione dell’indebito nonostante la società cliente non avesse allegato e dimostrato le rimesse solutorie, le uniche ripetibili.

3. Con il terzo motivo è stata dedotta la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 in ordine alla mancata contestazione da parte della banca dei presupposti di fatto della domanda di ripetizione (in relazione agli “addebiti”).

Si censura la statuizione che, non essendo stato posto in discussione dalla banca l’addebito delle somme di cui trattasi (corrispondenti agli illegittimi addebiti per interessi ed altro), risultava accertato il presupposto di fatto della domanda di ripetizione. Tale affermazione sarebbe irriducibilmente contraddittorietà e illogica, atteso che, invece, ai sensi dell’art. 2033 c.c. come interpretato da Cass. S.U. 24481/2010, possono essere oggetto di ripetizione soltanto le rimesse solutorie, onde grava sull’attore l’onere di allegare e provare tali rimesse, che non possono identificarsi con le mere annotazioni in conto, le quali non si risolvono in un pagamento per difetto di qualsiasi attività solutoria in favore della banca.

4. Con il quarto motivo è stata dedotta la nullità della sentenza, ex art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 in ordine alla mancata contestazione da parte della banca dei presupposti di fatto della domanda di ripetizione (in relazione alle “attribuzioni patrimoniali”).

Si censura la statuizione che non era stato posto in discussione dalla banca il presupposto di fatto della domanda costituito dal versamento delle somme. Tale affermazione sarebbe in irriducibile contraddizione con la successiva, secondo cui non era possibile individuare quali fossero le rimesse solutorie, le uniche che, invece, possono costituire oggetto della domanda di ripetizione dell’indebito.

5. Con il quinto motivo è stata dedotta la falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta la Banca ricorrente che la Corte territoriale è incorsa nell’errore di diritto di applicare retroattivamente l’art. 115 cod. proc. civ. nonostante che il presente giudizio sia stato incardinato in primo grado nel 2008 e che la L. 18 giugno 2009, art. 58 prevedesse che la nuova disposizione si applicasse solo ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore.

6. Con il sesto motivo è stata dedotta la falsa applicazione degli artt. 345 e 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta la ricorrente che la Corte d’Appello ha erroneamente ritenuto inammissibile, in quanto tardiva, la “censura in merito alla situazione di apertura/chiusura dei conti interessati” svolta dalla Banca nella comparsa conclusionale in appello.

7. Tutti i sei motivi, da esaminare unitariamente, avendo ad oggetto questioni strettamente correlate, sono infondati.

Va preliminarmente osservato, con riferimento al primo motivo, che la motivazione con cui la Corte d’Appello ha dato per provati i fatti costitutivi della domanda di ripetizione dell’indebito non è affatto meramente formale ed apodittica.

Il giudice di secondo grado ha effettivamente affermato che la documentazione in atti era sufficiente a consentire la verifica della fondatezza delle domande dell’attrice, ma solo all’esito di un articolato percorso argomentativo nell’ambito del quale lo stesso giudice aveva, in primo luogo, disatteso la prospettazione della banca secondo cui pagamenti del cliente erano stati spontaneamente eseguiti in adempimento di doveri morali e sociali (pag. 12 sentenza impugnata).

Con riferimento alla specifica contestazione relativa ad un dedotto mancato assolvimento dell’onere probatorio relativo alle attribuzioni patrimoniali oggetto di ripetizione (che si fondava sull’impossibilità di distinguere tra le rimesse aventi natura solutoria o ripristinatoria), la Corte d’Appello ha, in primis, osservato che “..nè le sue difese si sono mai fondate sul non essere intervenute, da parte dell’attrice, le attribuzioni patrimoniali poi oggetto di ripetizione, profilo che avrebbe evidentemente avuto rilevanza del tutto dirimente. Al contrario, anzi, la Banca ha espressamente affermato di aver “sempre incontestatamente applicato spese di chiusura periodica del conto” nonchè la legittimità del loro addebito (v.le comparse di costituzione 14 gennaio 2009, p. 9/10) sottolineando, in merito alla capitalizzazione trimestrale, come “La somma cui la Banca sarà eventualmente condannata a restituire a parte attrice” (e la restituzione presupponeva necessariamente il versamento delle somme corrispondenti) dovesse essere comunque determinata considerando legittima una diversa periodicità”.

Infine, la Corte d’Appello ha concluso il proprio ragionamento evidenziando che “In definitiva, alla luce della posizione complessivamente assunta dalla convenuta in primo grado, il suddetto presupposto di fatto della domanda di ripetizione proposta da FIMPA non risulta essere stato messo in discussione nei limiti in cui ciò processualmente avrebbe potuto avvenire..”.

Dunque, il giudice di secondo grado ha ritenuto provati i pagamenti (dandone atto in motivazione) attraverso il principio di non contestazione e tale valutazione, spettando in via esclusiva al giudice di merito, nell’ambito del giudizio di fatto al medesimo riservato (vedi sul punto, recentemente, Cass. n. 3680/2019), è come tale non sindacabile in sede di legittimità.

Peraltro, priva di fondamento è la critica formulata dalla ricorrente secondo cui, nel caso di specie, non sarebbe applicabile il meccanismo della non contestazione per essere l’art. 115 c.p.c. entrato in vigore successivamente all’introduzione del presente giudizio.

Si tratta, infatti, di un principio che seppur formalmente codificato nel nostro ordinamento solo con la nuova formulazione dell’art. 115 c.p.c., era già stato anche in precedenza elaborato da questa Corte alla luce di quanto previsto dall’art. 167 c.p.c., comma 1, secondo cui nella comparsa di risposta il convenuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda (vedi S.U. n. 761/2002, Cass. n. 12636/2005, recentemente n. 19896/2015).

Nè, del resto, una parte processuale può solo nella fase di appello mettere in discussione ciò che in primo grado non aveva contestato.

In proposito, questa Corte, sin dalla sentenza delle S.U. n. 761/2002, ha statuito con riferimento al rito del lavoro, che il limite di contestabilità dei fatti originariamente non contestati, se concerne fatti costitutivi del diritto, si identifica con quello previsto dall’art. 420, comma 1, codice di rito per la modificazione di domande e conclusioni già formulate. Tale limite, nel rito civile ordinario, non può dunque spingersi oltre la scadenza dei termini ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 2 ora vigente.

D’altra parte, questa Corte, anche nella sentenza n. 12636/2005, ha osservato che “un onere di contestazione tempestiva non è desumibile solo dagli artt. 166 e 416 c.p.c., ma deriva da tutto il sistema processuale come risulta: dal carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena; dal sistema di preclusioni, che comporta per entrambe le parti l’onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa; dai principi di lealtà e probità posti a carico delle parti e, soprattutto, dal generale principio di economia che deve informare il processo, avuto riguardo al novellato art. 111 Cost.”.

Pertanto, nel caso di specie, essendo stato ricostruito dai giudici di merito che la Banca, sin dalla costituzione in giudizio in primo grado, non aveva negato di aver effettivamente ricevuto le somme di cui era stata chiesta la ripetizione, limitandosi ad invocare che il loro addebito era stato legittimo (e, in subordine, che quanto pagato non era più ripetibile, in quanto versato in adempimento di un’obbligazione naturale), di talchè gli stessi giudici avevano ritenuto provato il presupposto dell’azione di ripetizione dell’indebito sulla base del meccanismo della non contestazione, lo stesso istituto di credito non può in grado di appello mettere in discussione il thema decidendum (e quindi probandum) come cristallizzatosi in primo grado.

A questo punto, deve essere esaminata la censura della banca secondo cui, potendo essere oggetto dell’azione di ripetizione dell’indebito solo le rimesse aventi natura solutoria – secondo l’insegnamento della sentenza delle S.U. n. 24418 del 2 dicembre 2010 – ed essendo, nel caso di specie, stata riscontrata (come ammesso dalla stessa Corte di merito) l’impossibilità di individuare la natura e l’origine delle rimesse affluite sui conti correnti per cui è procedimento, il correntista non avrebbe fornito la prova dei fatti costitutivi dell’azione di ripetizione dell’indebito ed il giudice di secondo grado, nell’affermare il contrario, sarebbe incorso in una manifesta illogicità e contraddittorietà di ragionamento.

Questo Collegio non condivide una tale impostazione.

Come più volte affermato da questa Corte (vedi recentemente Cass. n. 27704/2018) il fatto costitutivo del diritto alla ripetizione dell’indebito è l’avvenuto pagamento, ovvero l’esistenza di uno spostamento patrimoniale in favore della banca, e l’inesistenza di una causa che lo giustifichi.

Ove sia provato che i pagamenti dedotti come indebiti siano effettivamente avvenuti – e ciò, nel caso di specie, la Corte d’Appello lo ha compiutamente argomentato nei termini sopra illustrati facendo ricorso al principio di non contestazione – nonchè sia accertato l’illegittimità quantomeno parziale dei titoli in base ai quali la Banca ha addebitato al cliente delle somme in conto corrente, risultano pienamente integrati i fatti costitutivi dell’azione di ripetizione dell’indebito del correntista.

Peraltro, l’accertamento in concreto delle modalità e dei tempi con cui la banca si sia appropriata delle somme corrispondenti è questione che rileva ai soli fini della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito. Non a caso, la fattispecie concreta esaminata dalle Sezioni Unite nella citata sentenza n. 24418/2010 riguardava specificamente un caso in cui veniva invocata la prescrizione decennale dell’azione di ripetizione dell’indebito.

E’ evidente che se il giudice sia specificamente investito della questione della prescrizione di tale azione – eccezione che, se fondata, può comportare che possano esservi dei pagamenti che, pur eseguiti, non siano, tuttavia, ripetibili – è doveroso accertare le precise modalità e gli esatti tempi con cui i singoli versamenti effettuati dal cliente nel corso del rapporto di conto corrente siano affluiti sul medesimo conto, e, conseguentemente, individuare la natura solutoria o ripristinatoria delle singole rimesse. Diversamente, ciò che rileva è solo la prova che i pagamenti di cui è chiesta la restituzione siano effettivamente avvenuti (come accertato dalla Corte di merito con una valutazione in fatto non sindacabile in questa sede).

Nel caso di specie, tale accertamento è irrilevante avendo la Corte d’Appello escluso la prescrizione per i conti correnti nn. (OMISSIS) e (OMISSIS) e tale statuizione non è stata fatta oggetto di censura nel ricorso.

Infine, si appalesa inammissibile la censura svolta dalla ricorrente nel sesto motivo di ricorso riportato in narrativa (in cui si denuncia la violazione degli artt. 345 e 112 c.p.c.).

Tale censura ha, infatti, ad oggetto una statuizione, in primo luogo, non decisiva nell’economia della motivazione della sentenza impugnata (la quale formula solo tra parentesi, e a fini invero non chiari, l’affermazione qui censurata), e comunque inammissibile, essendo state reiterate allegazioni in fatto svolte per la prima volta nella comparsa conclusionale in appello e come tali tardive.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la Banca ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in Euro 8.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2019

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