Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3448 del 12/02/2020

Cassazione civile sez. I, 12/02/2020, (ud. 21/11/2019, dep. 12/02/2020), n.3448

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 12344/2015 proposto da:

Curatela del Fallimento della (OMISSIS) S.r.l. in Liquidazione, in

persona del curatore Avv. R.G., domiciliata in Roma,

Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di

Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato Massimo Torrisi

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Credito Siciliano S.p.a.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 446/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA

depositata il 24/3/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/11/2019 dal cons. Dott. PAZZI ALBERTO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il giudice delegato al fallimento di (OMISSIS) s.r.l. rigettava la domanda di rivendica presentata da Credito Siciliano s.p.a., quale incorporante per fusione Leasingroup Sicilia s.p.a., al fine di ottenere la restituzione dei beni oggetto di due contratti di leasing stipulati dalla società quando ancora era in bonis, ritenendo che a ciò ostasse la natura traslativa dei negozi stipulati.

2. Il Tribunale di Catania, con sentenza n. 999/2007, accertava, in accoglimento dell’opposizione a stato passivo all’uopo presentata, il diritto di Credito Siciliano s.p.a. alla restituzione dei beni oggetto dei due contratti di leasing stipulati da (OMISSIS) s.r.l., ordinava al curatore di provvedere alla restituzione dei medesimi e, una volta qualificati i negozi come leasing traslativo, condannava Credito Siciliano s.p.a., nel senso domandato dalla procedura in via riconvenzionale, alla restituzione dei canoni percepiti nella misura di Euro 75.469,06.

3. La Corte d’appello di Catania, a seguito dell’impugnazione presentata da Credito Siciliano s.p.a., ribadiva la qualificazione dei contratti come leasing traslativo e nel contempo osservava che l’appellante era comunque tenuta alla restituzione dei canoni percepiti, potendo richiedere al più, come tuttavia aveva omesso di fare nel caso di specie, in aggiunta all’equo compenso ex art. 1526 c.c. per l’uso e il naturale deterioramento della cosa anche il risarcimento del danno subito per il fatto che i beni concessi in leasing non fossero più idonei all’uso e risultassero quindi privi di un apprezzabile valore economico e commerciale.

La corte distrettuale rilevava però che i contratti di leasing contemplavano il diritto del concedente di trattenere, a titolo di indennità, tutti i canoni già pagati dall’utilizzatore e di conseguenza ravvisava – in accoglimento del secondo motivo di appello, che reputava non integrare un nuovo thema decidendi introdotto in sede di impugnazione – il diritto della banca appellante a tenere per sè tutti i canoni già versati dalla società utilizzatrice poi fallita a titolo di equo compenso.

La Corte di merito di conseguenza, con sentenza depositata in data 24 marzo 2014, in parziale riforma della statuizione impugnata rigettava la domanda riconvenzionale spiegata dal fallimento di (OMISSIS) s.r.l. e, per l’effetto, dichiarava il diritto di Credito Siciliano s.p.a. a trattenere, ex art. 1526 c.c., comma 2, le rate riscosse in esecuzione dei contratti di leasing intercorsi con la società poi fallita per l’importo di Euro 75.469,06.

3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il fallimento di (OMISSIS) s.r.l. prospettando tre motivi di doglianza.

L’intimato Credito Siciliano s.p.a. non ha svolto alcuna difesa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4. Nessun dubbio può sorgere in merito alla tempestività dell’impugnazione a motivo del tenore della L. Fall., art. 99, comma 5, nel testo applicabile ratione temporis, secondo cui “il termine per il ricorso per cassazione…. è ridotto alla metà”.

La riduzione alla metà dei termini per l’impugnazione così stabilita si riferisce infatti solo al termine breve previsto dall’art. 325 c.p.c. e non al termine annuale di impugnazione stabilito dall’art. 327 c.p.c., per il quale deve tenersi altresì conto della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, la cui operatività è esclusa soltanto per le cause relative alla dichiarazione ed alla revoca del fallimento e non anche per quelle di opposizione allo stato passivo (Cass. 4606/1994).

Il ricorso in esame risulta dunque rispettoso dei termini previsti dall’art. 327 c.p.c., nel testo applicabile alla fattispecie in esame, ove si consideri che la sentenza impugnata, non notificata, è stata pubblicata in data 24 marzo 2014, mentre il ricorso per cassazione è stato notificato il 6 maggio 2015.

4.1 Il primo motivo di ricorso, sotto la rubrica “violazione o falsa applicazione degli artt. 112 e 125 c.p.c., art. 183 c.p.c., commi 4 e 5 (nella versione applicabile ratione temporis) e art. 345 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4)”, assume che la corte territoriale avrebbe erroneamente rigettato la domanda riconvenzionale proposta dalla procedura riconoscendo il diritto del concedente di trattenere, ex art. 1526 c.c., comma 2, le rate riscosse in esecuzione dei contratti di leasing, dato che il Credito Siciliano s.p.a. non aveva avanzato, nè nel giudizio di primo grado in maniera tempestiva nè in sede di appello, alcuna specifica domanda avente a oggetto la clausola penale contenuta nell’art. 15 delle condizioni generali di contratto al fine di paralizzare la domanda spiegata in via riconvenzionale.

La statuizione assunta violerebbe perciò non solo il principio di necessaria corrispondenza fra chiesto e pronunciato, ma anche il divieto di mutatio libelli in appello.

4.2 II secondo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio già oggetto di discussione fra le parti: la Corte d’appello avrebbe ritenuto assorbito il terzo motivo di appello principale – con cui l’appellante aveva sostenuto che in ipotesi di applicazione dell’art. 1526 c.c. andasse comunque riconosciuto il diritto del concedente a un equo compenso per l’uso della cosa, a prescindere dalla formulazione di una domanda espressa e dalla tempestività di quest’ultima – piuttosto che rigettarlo, accertando la tardività della richiesta di equo indennizzo avanzata dalla banca solo in seno alla comparsa conclusiva di replica nel giudizio di primo grado.

4.3 I motivi, da esaminarsi congiuntamente poichè entrambi si fondano sul carattere di novità della richiesta dell’equo indennizzo previsto dall’art. 1526 c.c., non meritano accoglimento.

4.3.1 La Corte di merito, una volta condivisa la qualificazione dei negozi inter partes operata dal giudice di merito in termini di leasing traslativo, negozio che comportava la retroattività dell’effetto risolutivo “con il consequenziale diritto delle parti ad ottenere la restituzione di quanto prestato in base al contratto e con l’applicabilità… delle regole dettate dall’art. 1526 c.c., ciò che implica il dovere per il concedente di restituire le rate riscosse, salvo il diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa” (pag. 9), ha ritenuto che la banca appellante avesse “diritto a trattenere tutti i canoni già versati dalla società utilizzatrice poi fallita a titolo di equo compenso (così preventivamente liquidato) per l’uso della cosa”.

Nel contempo la corte distrettuale ha escluso che la pretesa dell’appellante costituisse un “nuovo thema decidendum in grado di appello, trattandosi dei contenuti del contratto stipulato inter partes ritualmente acquisito agli atti che deve formare oggetto di valutazione da parte del giudice” (pag. 15).

Quest’ultima valutazione, da leggersi alla luce delle statuizioni che la precedono, non si presta a censure di sorta.

La Corte di merito infatti, ricondotta la fattispecie negoziale sottoposta al suo esame alla disciplina dell’art. 1526 c.c. (e senza esercitare il potere di equa riduzione anche d’ufficio, ex art. 1384 c.c., del patto di acquisizione concluso dalle parti a mente dell’art. 1526 c.c., comma, costituente una forma di clausola penale, in ragione della manifesta eccessività del suo contenuto ovvero in considerazione dell’entità dell’adempimento dell’obbligazione principale; Cass. 25031/2019, Cass. 20840/2018), non ha negato il diritto della curatela ad ottenere la restituzione dei ratei riscossi dal concedente, ma ha ritenuto che una simile ragione di credito andasse presa in considerazione in uno con il controcredito della banca appellante a vedersi riconosciuto un equo compenso per l’uso della cosa.

Pertanto secondo i giudici distrettuali, tenuto conto che tale equo compenso per il temporaneo godimento della cosa era stato anticipatamente liquidato tramite la pattuizione di un’indennità pari all’intero ammontare delle rate pagate, nel senso previsto dall’art. 1526 c.c., comma 2 nulla era dovuto alla curatela.

Una simile valutazione, che si sostanzia nell’individuazione di reciproci crediti di eguale ammontare, non può essere ricondotta alla disciplina prevista dall’art. 183, commi 4 e 5 – nel testo vigente ratione temporis -, e art. 345 c.p.c., comma 2, dato che le pretese della concedente di veder considerato anche l’equo compenso a cui aveva diritto non costituivano un’eccezione riconvenzionale volta a paralizzare la domanda riconvenzionale della curatela, bensì una mera richiesta di computo delle contrapposte ragioni di credito scaturenti dalla medesima relazione negoziale.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte quando le contrapposte ragioni di credito delle parti trovino origine in un’unica relazione negoziale si è in presenza di una compensazione atecnica o in senso improprio e le parti possono sollecitare in corso di causa l’accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite, senza che sia necessaria l’eccezione di parte o la proposizione di una domanda riconvenzionale e senza che operino i limiti alla compensabilità, i quali postulano l’autonomia dei rapporti (Cass. 6055/2008, Cass. 16800/2015).

La coincidente origine negoziale dei rispettivi crediti e debiti faceva sì – come ha ben ritenuto la Corte di merito – che la valutazione delle reciproche pretese importasse soltanto un semplice accertamento contabile di dare ed avere, al quale il giudice poteva procedere liberamente, a prescindere dalla tempestività del rilievo sollevato in proposito dalla parte.

Ne discende l’infondatezza del primo motivo, dato che la richiesta di accertamento contabile del saldo finale delle contrapposte partite non soggiaceva alla ritualità che disciplina l’introduzione delle eccezioni in primo grado e delle domande in sede di appello.

Il secondo motivo risulta invece inammissibile, non solo perchè la nozione di fatto controverso e decisivo per il giudizio deve intendersi come riferita a un accadimento o una circostanza in senso storico-naturalistico e non ricomprendente questioni, argomentazioni o tesi difensive sollevate dalle parti, ma anche perchè la circostanza asseritamente trascurata non avrebbe alcuna decisività, dato che la sollecitazione all’accertamento contabile era svincolata dal rispetto delle forme rituali che il ricorrente assume che si dovessero applicare.

5.1 Il terzo motivo denuncia la violazione del principio di soccombenza previsto dall’art. 91 c.p.c., in quanto il rigetto dei motivi di appello principale avrebbe dovuto indurre la Corte di merito a compensare le spese di lite.

5.2 Il motivo è inammissibile.

In vero in tema di disciplina delle spese processuali nel testo applicabile ratione temporis il sindacato di legittimità è limitato alla violazione di legge, che si verifica qualora le spese stesse siano poste a carico della parte totalmente vittoriosa, a dispetto di quanto stabilito dall’art. 91 c.p.c., mentre la compensazione totale o parziale delle spese del giudizio costituisce una facoltà discrezionale del giudice di merito, al cui prudente apprezzamento è rimessa la valutazione del ricorrere delle condizioni per disporla (Cass. 17953/2005).

Peraltro la critica mal si attaglia al contenuto della decisione impugnata – e risulta dunque priva del necessario carattere di riferibilità alla decisione impugnata, vizio che, essendo assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), la rende inammissibile (Cass. 20910/2017) -, la quale non ha affatto rigettato i motivi di appello, ma li ha accolti, seppur in parte, e proprio in ragione di tale accoglimento ha riformato parzialmente la decisione impugnata in relazione alla domanda riconvenzionale proposta dalla curatela, rigettandola.

6. In forza dei motivi sopra illustrati il ricorso va pertanto respinto.

La mancata costituzione in questa sede del creditore intimato esime il collegio dal provvedere alla regolazione delle spese di lite.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2020

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