Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34474 del 27/12/2019

Cassazione civile sez. un., 27/12/2019, (ud. 05/11/2019, dep. 27/12/2019), n.34474

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente di Sez. –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21796-2018 proposto da:

C.Z.B., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO MAINETTI,

rappresentata e difesa dall’avvocato ANDREA DEL RE;

– ricorrente –

CONSOLATO GENERALE DEL PERU’ DI FIRENZE, in persona del Console

Generale pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

SALLUSTIO 9, presso lo studio dell’avvocato LORENZO SPALLINA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO BOMBACCI;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1174/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 01/02/2018.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/11/2019 dal Consigliere ADRIANA DORONZO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale MATERA

MARCELLO, che ha concluso per l’affermazione della giurisdizione

straniera;

uditi gli avvocati Francesco Mainetti per delega dell’avvocato Andrea

Del Re e Lorenzo Bombacci.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- C.Z.B., dipendente del Consolato Generale del Perù di Firenze, con inquadramento nel livello Al della disciplina per i dipendenti delle ambasciate, consolati, legazioni, istituti culturali e organismi internazionali in Italia, ha adito il Tribunale di Firenze per chiedere che fosse dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimatole in data (OMISSIS) per giusta causa, consistita nell’aver “minacciato, strattonato e colpito ad un braccio” una collega nel corso di un violento diverbio.

2.- Il Tribunale, in parziale accoglimento della domanda, ha escluso la natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento; ha invece ritenuto insussistente la giusta causa, in difetto di prova dell’episodio contestato nelle sue specifiche modalità e gravità, e ha condannato il Consolato al pagamento di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto ai sensi della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8.

3. – La sentenza, impugnata in via principale dalla lavoratrice e in via incidentale dal Consolato, è stata confermata dalla Corte d’appello di Firenze con sentenza pubblicata in data 1/2/2018.

A fondamento della decisione la Corte ha ritenuto:

a) infondato il motivo dell’appello incidentale avente ad oggetto l’irregolare instaurazione del contraddittorio in primo grado, perchè il vizio denunciato – nullità della notificazione del ricorso ex art. 414 c.p.c. effettuata a mezzo del servizio postale direttamente al Consolato e non per il tramite del Ministero degli Affari esteri – si era sanato con la tempestiva costituzione del convenuto;

b) inutilizzabili i documenti prodotti in giudizio dalla ricorrente, ed elencati dall’appellato a pagina 19 della sua memoria di costituzione, trattandosi di atti consolari assistiti dalla garanzia dell’inviolabilità ai sensi degli artt. 33 e 61 della Convenzione di Vienna;

c) insussistente la giurisdizione del giudice italiano sulle domande proposte sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 (nel testo vigente prima delle modifiche apportate dalla L. 28 giugno 2012, n. 92), in ragione della natura del datore di lavoro e del principio della “immunità ristretta”, recepito nell’art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite, adottata a New York il 2/12/2004, e ratificata in Italia con la L. 14 gennaio 2013, n. 5 (al riguardo la Corte richiama i precedenti di legittimità di Cass. Sez. Un. 6/6/2017, n. 13980; Cass. Sez. Un. 18/4/2014, n. 9034 e altre pronunce conformi);

d) non configurabile una deroga convenzionale alla giurisdizione, prevista dal paragrafo 2 dell’art. 11, lett. f) della Convenzione di New York, invocata dalla ricorrente sul presupposto il Consolato avrebbe espressamente accettato la giurisdizione del giudice italiano a conoscere del rapporto inter partes;

e) assorbita ogni ulteriore pronuncia sulla natura discriminatoria o ritorsiva del licenziamento in difetto di interesse della lavoratrice ad una siffatta pronuncia, non potendo comunque ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro per le ragioni indicate;

f) ingiustificato il licenziamento, in mancanza di prova dell’imputabilità alla lavoratrice di una lite di tale gravità da costituire giusta causa di risoluzione del rapporto;

g) insussistenti il diritto al risarcimento del danno derivante dalla natura ingiuriosa del licenziamento, del danno da demansionamento, nonchè il diritto all’indennità di cassa, per difetto di prova dei relativi presupposti.

4.- Contro la sentenza, la C. ha proposto ricorso per cassazione, al quale ha resistito il Consolato Generale del Perù di Firenze con controricorso in cui ha spiegato ricorso incidentale, fondato su due motivi.

In prossimità dell’udienza di discussione, le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Con ordinanza interlocutoria del 21/6/2019, n. 16759, questa Corte sezione lavoro ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, rilevando che il ricorso prospetta una questione di giurisdizione non rientrante nelle ipotesi di delega di cui al decreto del Primo Presidente del 10/9/2018 per la trattazione delle questioni di giurisdizione in materia di pubblico impiego privatizzato. La questione è stata dunque rimessa a queste Sezioni unite. In vista dell’udienza di discussione la ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso principale della C..

1.- I motivi di ricorso sono tre e sono così prospettati:

1.1.- violazione e falsa applicazione degli artt. 33 e 61 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 24/4/1963, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: si censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto applicabili le norme in esame che tutelano l’inviolabilità dell’archivio e dei documenti consolari – e, quindi, inutilizzabili i documenti prodotti in giudizio dalla lavoratrice. A sostegno della censura la ricorrente riferisce che il Consolato del Perù di Firenze è un consolato di carriera, e non un consolato diretto da console onorario, con la conseguenza che si è fuori dalla previsione di cui all’art. 61 cit.; che i documenti erano stati ottenuti all’esito di un regolare procedimento amministrativo e in applicazione della legge costituzionale del Perù sulla trasparenza (n. 27806/1993), che può subire limitazioni solo rispetto ad atti di natura militare o di intelligence (L. Trasparenza, art. 15) coperti dal segreto, peraltro di carattere temporaneo; che taluni documenti (come ad esempio i doc. 16, 18, 15 e 41) non afferivano all’archivio consolare ed erano stati ottenuti direttamente dalla lavoratrice dalla Autorità per la trasparenza, sicchè doveva escludersi che gli stessi potessero essere segreti; che, in ogni caso, si trattava di documenti relativi al rapporto di lavoro, estranei all’esercizio della sovranità dello Stato del Perù;

1.2.- “omesso esame di un punto decisivo della controversia”: si assume che la corte territoriale non si sarebbe espressa in merito all’esplicito consenso prestato, da parte dello Stato del Perù, all’esercizio della giurisdizione da parte del giudice italiano attraverso sia una comunicazione scritta in un procedimento sia con l’intervento nel merito e la partecipazione al procedimento (artt. 7 e 8 della Convenzione di New York del 2/12/2004);

1.3.- violazione e falsa applicazione dell’art. 37 c.p.c., dell’art. 11 della Convenzione di New York, del principio della cosiddetta immunità ristretta e dell’interpretazione, fornita dalla CEDU, delle suddette norme, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1: al riguardo si richiamano i principi espressi dalla CEDU, nella sentenza 18/1/2011 (Guadagnino c/Italia), in cui si è affermato che l’immunità non opera allorchè gli atti compiuti dai soggetti internazionali stranieri nell’ordinamento locale non siano riconducibili all’esercizio di poteri sovrani ma rientrino nell’esercizio dello ius privatorum.

Il ricorso incidentale del Consolato del Perù.

2.- Il ricorso incidentale del Consolato Generale del Perù è articolato in due motivi:

2.1.- “violazione o comunque falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 142, art. 156 c.p.c. Della inesistenza della notifica del ricorso introduttivo”: si reitera l’eccezione di nullità – inesistenza della notificazione del ricorso ex art. 414 c.p.c., non sanata dalla costituzione del convenuto;

2.1.- violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) con riguardo alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5,artt. 2119 e 2697 c.c., art. 116 c.p.c., artt. 28 e 30 del c.c.n.l. applicabile al rapporto in esame: si assume che i fatti oggetto della contestazione disciplinare erano stati compiutamente provati attraverso le testimonianze assunte in giudizio e il giudice del merito, attribuendo maggiore attendibilità ad un testimone, anzichè ad un altro, – e così ritenendo non raggiunta la prova dello scontro fisico tra la C. e una collega, nè delle minacce rivolte dalla prima alla seconda -, non avrebbe fatto buon governo delle regole in materia di valutazione delle prove.

L’esame delle questioni preliminari sollevate dal controricorrente.

3.- Nel controricorso, il Consolato ha eccepito l’inammissibilità del ricorso principale sul presupposto che la sentenza di primo grado, nella parte in cui ha escluso la tutela reale per assenza del requisito dimensionale, non è stata impugnata, sicchè – quand’anche fossero stati accolti i motivi di ricorso sulla giurisdizione del giudice italiano la ricorrente non potrebbe comunque potuto ottenere una tutela diversa da quella prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 8 essendo ormai la questione preclusa dal giudicato.

L’eccezione è infondata.

La Corte d’appello, pur dando atto della non “inequivoca comprensione” delle ragioni poste dal Tribunale alla base del rigetto della domanda di reintegrazione ex art. 18 L. cit., ha ritenuto di interpretarle dando preminente e assorbente rilievo alla ratio fondata sui limiti della giurisdizione del giudice italiano (piuttosto che a quella fondata sulla insussistenza, in capo al convenuto, dei requisiti dimensionali per l’applicazione dell’art. 18), a tanto indotto dalle difese delle parti nei rispettivi atti di appello, che hanno delimitato l’ambito della sua cognizione. Ha così implicitamente ma chiaramente ritenuto che, per effetto della declinatoria della giurisdizione sulla domanda di reintegrazione, il Tribunale avesse esaurito la sua potestas iudicandi in relazione alle ulteriori questioni di merito e che ogni altra affermazione avesse valore di mero obiter dictum, e non già di autonoma ratio decidendi, suscettibile di passare in giudicato (cfr. Cass. 11/3/2019,n. 6985).

La tesi del Consolato è in evidente contrasto con tale affermazione, senza che risulti tuttavia proposta adeguata censura (Cass. 14/04/2015, n. 7523; Cass. 19/08/2004, n. 16284).

L’esame dei motivi del ricorso principale.

4.- Il primo motivo si arresta ad un rilievo di inammissibilità.

Attraverso la deduzione della violazione degli artt. 33 e 61 della Convenzione di Vienna, la ricorrente si duole della mancata ammissione dei documenti prodotti in giudizio.

Tuttavia, non trascrive il testo di tali documenti, non ne riporta i passi significativi nè li riassume, ma concentra le sue osservazioni sull’insussistenza della violazione della corrispondenza consolare, considerate, da un lato, la natura dei documenti (alcuni, secondo la ricorrente, non riferibili all’archivio consolare, tutti comunque inerenti al rapporto di lavoro e non coperti da ragioni di segretezza), dall’altro, le modalità della loro acquisizione (attraverso la procedura prevista dalla Legge sulla trasparenza dello Stato del Perù).

4.1.- Ora, la valutazione circa la correttezza del giudizio di inutilizzabilità (rectius: inammissibilità) della prova documentale espresso dalla Corte territoriale suppone che se ne conosca il contenuto, non essendo altrimenti possibile verificare – se non attraverso un accesso diretto agli atti del giudizio di merito, non consentito a questa Corte (Cass. 07/06/2017, n. 14107; Cass. 31/05/2006, n. 12984) – se i documenti offerti in comunicazione rientrino tra la corrispondenza consolare tutelata dalle norme della Convenzione di Vienna e, soprattutto, se essi abbiano valenza probatoria decisiva ai fini della qualificazione del licenziamento come ingiurioso e diffamatorio.

4.2.- La verifica della decisività dei documenti non ammessi è prioritaria rispetto a quella della fondatezza del motivo, in forza dellòir principio secondo cui l’interesse all’impugnazione, che costituisce manifestazione del generale principio dell’interesse ad agire, deve essere apprezzato in relazione all’utilità concreta che la parte può ricavare dall’eventuale accoglimento del gravame, non essendo oggetto di tutela il mero interesse della parte ad una più corretta soluzione di una questione giuridica non avente riflessi sulla decisione adottata (Cass. 13/10/2016, n. 20689, ed ivi richiami; Cass. 15/01/2016, n. 594; Cass. 23/5/2008, n. 13373).

4.3.- La genericità del motivo in esame, non rispettoso del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, impedisce questa verifica e lo rende per ciò stesso inammissibile (cfr. Cass. 13/07/2017, n. 17399; Cass. Sez.Un., 22/12/2011, n. 28336).

5.- Anche il secondo motivo è inammissibile, per ragioni in parte coincidenti con quelle suesposte.

La Corte territoriale ha escluso che ricorra un’ipotesi di deroga convenzionale alla previsione del paragrafo 2 dell’art. 11 della Convenzione di New York, che deriverebbe, secondo la lavoratrice, dall’accettazione espressa, da parte del Consolato, della giurisdizione del giudice italiano a conoscere del rapporto inter partes, e la ragione di tale esclusione sta per la Corte – che sul punto richiama Cass. Sez.Un. 9034/2014 – nel rilievo che la deroga alla giurisdizione prevista dalla lett. f) del p. 2 dell’art. 11 non può coinvolgere le altre ipotesi previste nelle lettere precedenti dello stesso art. 11, “tanto da configurarne, in sostanza, una generale derogabilità convenzionale (nel senso inverso della non immunità)”.

5.1.- La ricorrente non indica quale fatto principale o secondario, avente carattere decisivo, non sarebbe stato esaminato dalla Corte territoriale, nè specifica in che termini, con quale atto e in quale momento processuale vi sarebbe stata l’allegazione e la prova dell’esistenza tra le parti di un contratto o di una dichiarazione espressa dinanzi al Tribunale o una comunicazione scritta con la quale, a norma dell’art. 7 della Convenzione di New York, lo Stato del Perù avrebbe espresso il consenso all’esercizio della giurisdizione italiana in senso derogatorio rispetto a quanto previsto dall’art. 11, paragrafo p. 2 della Convenzione di New York.

5.2. – Deve infatti rilevarsi che, per giurisprudenza costante di questa Corte, se è vero che in ordine ai motivi attinenti alla giurisdizione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto, cioè conosce dei fatti processuali ed altresì di tutti i fatti dai quali dipenda la soluzione della questione, è altrettanto vero che l’esercizio del potere di esame diretto degli atti del giudizio presuppone la specificazione nel ricorso, a pena di inammissibilità del motivo, degli errori imputati alla pronuncia impugnata e dei fatti processuali alla base della censura (Cass. Sez.Un., 05/11/2019, n. 28332, ed ivi ampi richiami).

5.3.- Il documento 41, allegato sub E, del fascicolo di cortesia, da cui la ricorrente intende trarre la prova di un “consenso esplicito all’esercizio della giurisdizione ai sensi e per gli effetti dell’art. 7 della Convenzione di New York del 2/12/2004” da parte del Consolato, risulta solo parzialmente trascritto e dai brevi passi riportati è dato solo di evincere che si tratta della risposta dell’Ambasciatore incaricato della segreteria generale del Ministero degli Affari Esteri del Perù alla Defensoria del pueblo del Perù, in cui l’Ambasciatore rammenta all’interlocutore che il rapporto di lavoro tra la C. e il Consolato del Perù di Firenze è soggetto alla legislazione italiana del lavoro e alla giurisdizione italiana in forza della Convenzione di Vienna.

5.4.- Si tratta tuttavia di dichiarazioni che, lungi dal costituire manifestazione della volontà dello Stato estero di derogare al principio dell’immunità ristretta (nell’interpretazione datane dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo quanto si dirà nell’esame del terzo motivo di ricorso), non fanno altro che ribadire un principio generale che trova la sua fonte normativa nell’art. 11 della Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni di New York, recepita dalla L. n. 5 del 2013.

5.5.- Tale norma, rubricata “Contratti di lavoro”, al p. 1, così prevede: “Sempre che gli Stati interessati non convengano diversamente, uno Stato non può invocare l’immunità giurisdizionale davanti a un tribunale di un altro Stato, competente in materia, in un procedimento concernente un contratto di lavoro tra lo Stato e una persona fisica per un lavoro eseguito o da eseguirsi, interamente o in parte, sul territorio dell’altro Stato”.

5.6.- La regola generale è, dunque, in materia di contratti di lavoro la giurisdizione dello Stato sul cui territorio il rapporto deve svolgersi.

A tale regola, il successivo paragrafo p. 2 introduce delle eccezioni, giustificate o dalla qualità soggettiva del lavoratore (impiegato assunto per adempiere particolari funzioni nell’esercizio del potere pubblico, agente diplomatico, funzionario consolare, membro del personale diplomatico di missione permanente presso un’organizzazione internazionale o di una missione speciale o assunto per rappresentare uno Stato in occasione di una conferenza internazionale, oppure una persona diversa che benefici dell’immunità diplomatica), o dall’oggetto dell’azione (assunzione, proroga o reinserimento di un candidato, licenziamento, risoluzione del contratto di un impiegato e se tale azione rischia di interferire con gli interessi dello Stato in materia di sicurezza, impiegato cittadino dello Stato datore di lavoro nel momento in cui l’azione è avviata, sempre che non abbia la residenza permanente nello Stato del foro) o, infine, da una deroga convenzionale, qualora l’impiegato e lo Stato datore di lavoro si accordino in tal senso per iscritto.

5.7.- Come è chiaro dal tenore letterale della norma, quest’ultima ipotesi, nella parte in cui prevede che l’impiegato e lo Stato datore di lavoro possono convenire “diversamente per iscritto” è volta a consentire l’inclusione nell’alveo della immunità della controversia di lavoro che, altrimenti, sarebbe soggetta alla giurisdizione dello Stato del foro secondo la regola generale prevista nel p. 1, come peraltro si desume dalla clausola di riserva prevista nella stessa lett. f), nella parte in cui specifica che l’accordo non può valere quando ragioni di ordine pubblico conferiscono allo Stato del foro la giurisdizione esclusiva in ragione dell’oggetto dell’azione.

In altri termini, la lettera f) del p. 2 dell’art. 11 consente la possibilità che il lavoratore e lo Stato datore di lavoro si accordino per rendere il rapporto di lavoro tutelato dalla immunità, in deroga al principio generale della giurisdizione dello Stato del foro, senza che da tale previsione possa inferirsi la regola inversa, ossia di una generale derogabilità delle norme in tema di giurisdizione (in tal senso, Cass. Sez.Un., n. 9034/2014, cit.; Cass. Sez.Un., 18/9/2014, n. 19674).

5.8. – La Corte territoriale ha fatto piana applicazione di questi principi e le censure sollevate non colgono nel segno.

La parte ricorrente, invero, trascura di considerare che ciò che viene in rilievo nella presente controversia non è il difetto di giurisdizione tout court del giudice italiano sul rapporto di lavoro intercorso tra le parti, chè infatti tanto il Tribunale quanto la Corte territoriale hanno conosciuto e deciso nel merito della controversia dichiarando l’illegittimità del licenziamento e riconoscendo il diritto della lavoratrice alle indennità previste dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8: i limiti alla giurisdizione del giudice italiano sono stati tracciati solo con riguardo alla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro, in quanto in grado di incidere sui poteri sovrani dello Stato estero, o di interferire sugli atti o comportamenti dello Stato estero, espressione dei suoi poteri sovrani di autorganizzazione.

Sicchè, per essere utilmente e ammissibilmente proposta, la censura avrebbe dovuto incentrarsi sulla sussistenza di una rinuncia del Consolato all’immunità su questo specifico aspetto della controversia, rinuncia che non è stata neppure prospettata.

5.9. – Per le stesse ragioni, non può ritenersi che la semplice partecipazione del Consolato al processo sia nella fase amministrativa che in quella giudiziale senza mai richiamare la propria immunità possa ritenersi “esplicito consenso” ai sensi dell’art. 8 della Convenzione di New York ad una deroga alla immunità con riguardo alla specifica domanda di reintegrazione.

6.- Il terzo motivo è infondato alla luce dell’orientamento di questa Corte, già espresso in casi analoghi e a cui si intende dare continuità.

6.1.- Occorre premettere che nel diritto internazionale era generalmente riconosciuto il principio secondo cui uno Stato estero non potesse essere assoggettato ad atti di autorità da parte di un altro Stato, in ragione dell’assenza di qualsiasi gerarchia tra Stati sovrani (parem in parem non habet iudicium).

6.2.- Questa teoria, della cosiddetta immunità assoluta, è stata nel corso del tempo rimodulata dalla giurisprudenza e anche dalla dottrina. Si è così pervenuti all’elaborazione della teoria della cosiddetta “immunità ristretta”, o relativa, in forza della quale l’immunità non opera allorchè gli atti compiuti dai soggetti internazionali stranieri nell’ordinamento locale non siano riconducibili all’esercizio di poteri sovrani (Cass. Sez.Un. 05/10/2015, n. 19784).

6.3.- Alla stregua di detto principio, si è affermato che – in applicazione di una regola consuetudinaria di generale applicazione, recepita dall’ordinamento italiano in virtù del richiamo contenuto nell’art. 10 Cost. – “l’esenzione dello Stato straniero dalla giurisdizione nazionale viene meno non solo nel caso di controversie relative a rapporti di lavoro aventi ad oggetto l’esecuzione di attività meramente ausiliarie delle funzioni istituzionali degli enti convenuti, ma anche nel caso di controversie promosse dai dipendenti con compiti strettamente inerenti alle funzioni predette, ove la decisione richiesta al giudice italiano, attenendo ad aspetti solo patrimoniali, sia inidonea ad incidere o ad interferire sulle stesse funzioni” (cfr., Cass. Sez.Un., 6/6/2017, n. 13980, con ampi rinvii, tra cui Cass. Sez. Un. 9/1/2007, n. 118; v. pure Cass. Sez. Un. ord. 18/6/2010, n. 14703; Cass. Sez.Un., ord. 26/01/2011, n. 1774; Cass. Sez. Un. ord. 27/2/2017, n. 4882; da ultimo, Cass. Sez.Un. 08/03/2019, n. 6884, che nella controversia instaurata da un dipendente del British Council, già assunto a tempo indeterminato, per il riconoscimento del trattamento retributivo conseguente alla nullità di precedenti contratti a termine, ha ritenuto sussistente la giurisdizione del giudice italiano, in applicazione del principio della cd. immunità ristretta).

6.4.- Su tali presupposti è stata esclusa la giurisdizione del giudice nazionale nel caso di domanda di reintegrazione nel posto di lavoro, investendo detta pretesa in via diretta l’esercizio di poteri pubblicistici dell’ente straniero (cfr. Cass. Sez. Un. ord. 17/1/ 2007, n. 880, in un caso di domanda di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro proposta da una segretaria dell’ufficio agricolo di un’Ambasciata, che espletava le mansioni di dattilografa addetta alla corrispondenza ed alla comunicazione con vari enti e ministeri; Cass. Sez.Un. 10/7/2006, nn. 15620, 15626 e 15628; Cass. Sez. Un. 18/12/1998, n. 12704, nella controversia promossa da un docente di storia dell’arte dipendente del British Institute of Florence, volta a conseguire la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, e la reintegrazione nel posto di lavoro; da ultimo, Cass. Sez.Un. ord. 11/7/2019, n. 18661, in cui si è precisato, superando un precedente di segno contrario, che, anche nel caso in cui il lavoratore opti per l’indennità sostitutiva della reintegrazione, la controversia va ricondotta nell’ambito delle pretese meramente patrimoniali, rispetto alle quali sussiste la giurisdizione del giudice italiano).

Ciò in quanto l’esame sulla fondatezza di tale domanda del lavoratore comporta apprezzamenti, indagini o statuizioni che possono incidere o interferire su atti o comportamenti dello Stato estero (o di un ente pubblico attraverso il quale lo Stato estero operi per perseguire anche in via indiretta le proprie finalità istituzionali), espressione dei poteri sovrani di autorganizzazione.

6.5.- I principi espressi da questa Corte sono stati affermati anche alla luce della L. 14 gennaio 2013, n. 5, intitolata “Autorizzazione all’adesione della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, fatta a New York il 2 dicembre 2004, nonchè norme di adeguamento all’ordinamento interno”, in due diverse pronunce”..

In particolare, Cass. Sez. un. 18/4/2014, n. 9034, ha espresso un chiaro giudizio di compatibilità dell’immunità giurisdizionale dello Stato convenuto con le garanzie del giusto processo, come suggerito dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza del 18 gennaio 2011, Guadagnino c. Italia.

In questa pronuncia, emessa in una controversia di lavoro promossa da una dipendente dell’Ecole frangaise de Rome per ottenere l’annullamento del licenziamento ed il reintegro nel suo posto di lavoro, nonchè il pagamento delle differenze retributive derivanti dall’applicazione dei contratti collettivi, ed in riferimento alla quale questa Corte aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano (Cass. Sez. un., 12/3/1999, n. 120) – la Corte EDU ha affermato che “poichè i principi sanciti dall’art. 11 della Convenzione del 2004 sono parte integrante del diritto consuetudinario internazionale, essi impegnano l’Italia” e “la Corte ne deve tener conto, nel momento in cui appura se il diritto di accesso ad un tribunale sia stato rispettato”. Ha aggiunto che le limitazioni all’assoggettamento degli Stati alla giurisdizione del paese dove il rapporto è sorto e si è svolto si conciliano con l’art. 6 p. 1 CEDU solo quando perseguono un fine legittimo ed in presenza di un rapporto ragionevole e proporzionato tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito.

6.Z.- In questa prospettiva, la sentenza n. 9034/2014 ha dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano in relazione alla domanda di una dipendente dell’Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede, avente ad oggetto l’accertamento della nullità del licenziamento con conseguente richiesta di condanna dell’Ambasciata alla sua reintegra immediata, ritenendo che l’ipotesi in esame rientrasse nella eccezione prevista dalla lettera c) del p. 2 dell’art. 11 della Convenzione di New York del “reinserimento di un candidato” (“il testo inglese parla di “reinstatement of an individuai ” e la sentenza “Guadagnino” parla espressamente di “reintegro”, v. par. 71″), con la conseguenza che in base ai principi sopra richiamati, anche alla luce del diritto consuetudinario internazionale evidenziato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, nella fattispecie doveva applicarsi l’immunità giurisdizionale della Ambasciata convenuta.

7.- I principi espressi nella sentenza n. 9034/2014 sono stati ripresi nella sentenza di queste Sezioni Unite 18/9/2014, n. 19674, che hanno dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice italiano sulla domanda proposta da una dipendente dell’Academy de France – in forza dell’eccezione di cui al cit. art. 11, par. 2, lett. c), della Convenzione che esclude la giurisdizione nei confronti dello Stato estero e degli enti pubblici ad esso riferibili quanto al “reinserimento” (“reinstatement”) del dipendente – limitatamente alla domanda di reintegrazione nel posto di lavoro – L. n. 300 del 970, e – art. 18 (nello stesso senso, Cass. Sez.Un., ord. 22/12/2016, n. 26661, in cui si è ribadito che, ai sensi dell’art. 11, par. 2, lett. c), della citata Convenzione, sussiste l’immunità giurisdizionale ove l’azione abbia ad oggetto, tra l’altro, “il reinserimento” di un lavoratore, senza che possa essere invocato il disposto del successivo art. 11, par. 2, lett. f), che, nel consentire la devoluzione, convenzionale, alla giurisdizione esclusiva dei tribunali dello Stato estero (e, dunque, con ampliamento dell’immunità giurisdizionale), non può essere interpretato nel senso – inverso – di introdurre una generale derogabilità, convenzionale, all’immunità medesima), nonchè la già citata pronuncia n. 13980/2017.

Alla luce di questi principi, il motivo di ricorso non può trovare accoglimento.

L’esame del ricorso incidentale.

8.1.- Il primo motivo è infondato alla luce dei principi già espressi da questa Corte, secondo cui l’inesistenza della notificazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità (Cass. Sez.Un. 20/7/2016, n. 14916).

Nel caso in esame, la notificazione è stata svolta da un soggetto qualificato e l’atto è stato consegnato al destinatario, con la conseguenza che il vizio dedotto si risolve in un’ipotesi di nullità, sanabile con la rinnovazione dell’atto o con la costituzione del convenuto, evenienza quest’ultima verificatasi nel caso in esame.

8.2.- Il secondo motivo è invece inammissibile.

Il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass. 13/10/2017, n. 24155).

Dall’intera illustrazione del motivo si evince come, esso, benchè prospettato sotto il profilo della violazione di legge, miri in realtà ad una rivisitazione dell’intero materiale probatorio, inammissibile in questa sede, anche alla luce del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte (Cass. Sez.Un. 7/4/2014, 8053).

L’inammissibilità colpisce anche la parte del motivo con la quale si è dedotta la violazione dell’art. 116 c.p.c., la quale è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonchè, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 19 giugno 2014, n. 13960; Cass., 20 dicembre 2007, n. 26965).

9.- In definitiva, tanto il ricorso principale quanto il ricorso incidentale devono essere rigettati. La reciproca soccombenza consente la compensazione delle spese del giudizio di legittimità. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte di entrambi i ricorrenti, di un importo pari a quello già versato a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta entrambi i ricorsi e compensa le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2019

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