Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34444 del 16/11/2021

Cassazione civile sez. trib., 16/11/2021, (ud. 12/05/2021, dep. 16/11/2021), n.34444

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18174-2014 proposto da:

FP HOLDING SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE G. MAZZINI

11, presso lo studio dell’avvocato LIVIA SALVINI, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato GIANCARLA BRANDA;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 9/2014 della COMM.TRIB.REG.PIEMONTE,

depositata il 15/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/05/2021 dal Consigliere Dott. SALVATORE SAIJA;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del

sostituto procuratore generale Dott. TOMMASO BASILE che ha chiesto

il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

In data 17.5.2010, l’Ufficio di Torino 1 notificò a F.P. Holding s.r.l. un avviso di recupero con cui si contestava l’indebito utilizzo in compensazione di un credito IVA maturato nel 2003 e utilizzato negli anni d’imposta dal 2004 al 2008, pari nel complesso ad Euro 79.716,55, e ciò sul rilievo che in alcuni anni la contribuente non aveva compilato il quadro VE (e quindi non aveva realizzato operazioni attive), mentre nel 2006 aveva esposto solo operazioni esenti, donde l’insussistenza del diritto di detrazione e l’inesistenza del credito, ai fini di quanto previsto dal D.L. n. 185 del 2008, art. 17, comma 16, conv. in L. n. 2 del 2009. La società impugnò l’avviso con ricorso dinanzi alla C.T.P. di Torino, che con sentenza n. 145/5/11 lo accolse, annullando l’atto impugnato. Avverso detta sentenza, propose appello l’Agenzia delle Entrate, integralmente accolto dalla C.T.R. del Piemonte con sentenza n. 9/22/14 del 15.1.2014, con conseguente rigetto dell’impugnazione della contribuente. In particolare, osservò il giudice d’appello che, non avendo la società realizzato operazioni attive negli anni 2004, 2005 e 2007, e avendo posto in essere soltanto operazioni esenti nel 2006, non sussisteva il diritto di detrazione ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, comma 2, sicché il credito d’imposta era da considerare inesistente, ai fini di quanto previsto dal D.L. n. 185 del 2008, art. 17, comma 16, conv. in L. n. 2 del 2009, con conseguente raddoppio dei termini di accertamento, nella specie non superati; aggiungeva, altresì, che stante la contestazione dell’Ufficio, la società non aveva dimostrato, com’era suo onere, che l’IVA assolta in via di rivalsa, da cui derivava l’eccedenza, era destinata all’acquisto di beni o servizi destinati ad operazioni imponibili.

F.P. Holding s.r.l. ricorre ora per cassazione, affidandosi a due motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate. Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, conv. in L. n. 176 del 2020, chiedendo il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 16, conv. in L. n. 2 del 2009, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente si duole dell’erroneità della decisione d’appello, nella parte in cui s’e’ equiparata, ai fini della verifica della tempestività dell’azione di recupero, l’ipotesi della inesistenza del credito d’imposta indebitamente portato in compensazione (cui solo si riferisce la disciplina speciale in rubrica, che prevede il raddoppio dei termini di accertamento), rispetto all’ipotesi della mera non spettanza del credito, che ritiene sussistere nella specie. Pertanto, avrebbe errato la C.T.R. nel non rilevare l’intervenuta decadenza per gli anni 2004 e 2005, e ciò in quanto nella specie trova applicazione il termine quadriennale, la notifica dell’atto impugnato essendo avvenuta nel 2010.

1.2 – Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, commi 1 e 2, e art. 19-bis2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente, sul presupposto dell’immediata insorgenza del diritto di detrazione, che emerge nel momento in cui l’imposta diventa esigibile, rileva che esso può essere esercitato anche se il bene o servizio acquistato non è stato ancora utilizzato per l’effettuazione di operazioni attive, solo occorrendo – in caso di cambio di destinazione dei beni, o di insorgenza di eventi di carattere generale che implichino mutamenti nella misura della detrazione – eventualmente procedere alla rettifica della detrazione ai sensi dell’art. 19-bis2 cit.. Pertanto, poiché solo nel 2006 s’e’ concretizzato l’evento che avrebbe potuto conclamare la non riferibilità degli acquisti degli anni precedenti ad operazioni imponibili, l’Ufficio avrebbe al più potuto contestare alla società la mancata rettifica, ma non negare il diritto di detrazione per gli anni precedenti. E ciò tanto più che, a differenza di quanto opinato dalla C.T.R., l’onere della prova circa la destinazione delle operazioni passive (e dell’IVA di rivalsa addebitatagli) non grava sul contribuente, ma sull’Ufficio.

2.1 – Il primo motivo è fondato.

Il D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 16, conv. in L. n. 2 del 2009, così recita: “Salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per il reato previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-quater, l’atto di cui alla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 421, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 17, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo”. La questione del termine di decadenza in discorso risulta senz’altro intercettata dalla nuova disciplina dettata dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 5, introdotto dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 15 che così stabilisce: “Nel caso di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è applicata la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi. Per le sanzioni previste nel presente comma, in nessun caso si applica la definizione agevolata prevista dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 16, comma 3, e art. 17, comma 2. Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 36-bis e 36-ter e al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54-bis”.

Come è evidente, nel contesto della rideterminazione del quadro sanzionatorio circa l’indebita compensazione di crediti, del D.Lgs. n. 471 del 1997, il “nuovo” art. 13, comma 5, terzo periodo, come appunto introdotto dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 15 si spinge a dettare la definizione normativa di credito “inesistente”, tale essendo il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante i controlli di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 36-bis e 36-ter e al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis.

Al riguardo, può dunque affermarsi che il credito fiscale illegittimamente utilizzato dal contribuente può dirsi “inesistente” quando ne manca il presupposto costitutivo (ossia, quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili-patrimoniali-finanziari del contribuente) e quando tale mancanza sia evincibile dai controlli automatizzati o formali sugli elementi dichiarati dal contribuente stesso o in possesso dell’anagrafe tributaria, banca dati pubblica disciplinata dal D.P.R. n. 605 del 1973, su cui detti controlli anche si fondano. Non è affatto casuale, del resto, che il raddoppio dei termini di decadenza in discorso sia collegato alla non immediata riscontrabilità da parte del fisco, mediante i suddetti controlli, del carattere indebito della compensazione, la maggior durata giustificandosi, all’evidenza, solo per i casi in cui sia necessaria una più complessa attività istruttoria.

Così stando le cose, ritiene la Corte che l’affermazione secondo cui sarebbe priva di senso logico-giuridico la distinzione tra “credito inesistente” e “credito non spettante” – come sostenuto, nel solco di Cass. n. 10112/2017, da Cass. n. 19237/2017 (di recente confermata da Cass. n. 24093/2020 e da Cass. n. 354/2021) – vada necessariamente superata anche per effetto della citata novella, non tanto e non già perché quest’ultima sia direttamente applicabile alla fattispecie, ratione temporis, bensì perché nella stessa definizione positiva di “credito inesistente” può rinvenirsi la conferma della dignità della distinzione delle due categorie in discorso, già sulla base dell’originario impianto normativo concernente la riscossione dei crediti d’imposta indebitamente utilizzati dal contribuente, mediante l’emissione dell’atto di recupero di cui alla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 421.

Infatti, è già assai significativo che tale ultima disposizione si riferisca in linea generale alla “riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 17”, mentre l’art. 27, comma 16, D.L. cit., che estende il termine di decadenza all’ottennio dal relativo utilizzo, concerna invece la sola “riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, art. 17”, ossia – già intuitivamente, sul piano semantico, prim’ancora che giuridico – ad una fattispecie necessariamente più ristretta rispetto a quella generale, evidentemente ritenuta più grave. A ciò si aggiunga che la citata novella del 2015 si innesta nella riscrittura della norma già contenuta nel contestualmente abrogato art. 27, comma 18, D.L. cit. (che regolava il relativo quadro sanzionatorio), e mira quindi a specificare il contenuto del precetto originario, così ancorando la nozione di “credito inesistente” ad una dimensione – anche secondo il linguaggio comune – “non reale” o “non vera”, ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza (come pure può evincersi dal contenuto della Relazione illustrativa al D.L. n. 185 del 2008).

In tale prospettiva, il motivo è dunque fondato, perché la tesi seguita dalla C.T.R. muove dal testuale (ma erroneo) presupposto della irrilevanza della distinzione tra “crediti inesistenti” e “crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte”, occorrendo invece che il giudice del rinvio verifichi la natura del credito per cui è processo, accertandone la sua connotazione “reale o non reale”, se del caso alla luce anche della riscontrabilità o meno dei suoi presupposti costitutivi mediante il controllo della dichiarazione, sulla base dei dati da essa emergenti e da quelli in possesso dell’anagrafe tributaria.

Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “In tema di compensazione di crediti fiscali da parte del contribuente, l’applicazione del termine di decadenza ottennale, previsto dal D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 16, conv. in L. n. 2 del 2009, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito “non spettante”, bensì di un credito “inesistente”, per tale ultimo dovendo intendersi – anche ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 5, terzo periodo, (introdotto dal D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 15) – il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito che non e’, cioè, “reale”) e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 36-bis e 36-ter e al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54-bis”.

3.1 – Il secondo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

E’ senz’altro corretta l’affermazione della ricorrente secondo cui il diritto di detrazione D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 19, comma 1, sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile. E del resto, non è revocabile in dubbio che la contribuente sia addivenuta a determinare il saldo IVA, per ciascuno degli anni considerati, con le rispettive dichiarazioni annuali, in seno alle quali ha formalizzato la volontà di utilizzare l’eccedenza stessa (originatasi, com’e’ pacifico, nel 2003), esercitando la detrazione.

Tuttavia, in forza della previsione del D.P.R. n. 633 del 1972, stesso art. 19, comma 1, l’aver assolto l’IVA di rivalsa (o essersene costituito debitore) non determina necessariamente l’insorgenza del diritto di detrazione in capo al soggetto IVA, cessionario o cliente della relativa prestazione imponibile, quand’anche questo sia una società di capitali, come nella specie, occorrendo tra l’altro – a parte i casi di c.d. indetraibilità oggettiva o soggettiva, rispettivamente disciplinati dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19-bis1 e art. 19, commi 2 e 3, – che l’imposta assolta o dovuta attenga ad operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività d’impresa (ovvero di arti o professioni, il che qui non interessa), e che esse siano legate a tale esercizio, ossia che tra il bene o il servizio acquistato e l’attività in concreto esercitata vi sia un nesso funzionale, seppur meramente potenziale. Secondo Cass. n. 18904/2018, infatti, “In tema di IVA, il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo”.

In quest’ottica, e nel solco della giurisprudenza Eurounitaria (in particolare, ci si riferisce a Corte di Giustizia 29 ottobre 2009 C-29/08, Skatteverket; 18 luglio 2013, C-124/12, AES; 14 settembre 2017 C-132/16, Iberdrola; 28 febbraio 2018 C- 672/16, Imofloresmira), il Massimo Consesso ha condivisibilmente affermato che “l’esercente attività d’impresa o professionale ha diritto alla detrazione IVA anche per i lavori di ristrutturazione o manutenzione di immobili di proprietà di terzi, purché sia presente un nesso di strumentalità tra tali beni e l’attività svolta, anche se potenziale o di prospettiva e pur se, per cause estranee al contribuente, detta attività non possa poi in concreto essere esercitata” (così, Cass., Sez. un., n. 11533/2018). La detrazione iniziale, dunque, è effettuata rispetto alla destinazione del bene, o del servizio, preventivabile al momento in cui l’operazione imponibile è eseguita (in particolare, secondo la già citata sentenza Imofloresmira, ciò vale anche nel caso in cui il soggetto, per cause indipendenti dalla propria volontà, non abbia in seguito potuto utilizzare il bene o il servizio cui l’imposta è riferibile). Occorre, però, che una tale valutazione prospettica da parte del cessionario sia pur sempre sussistente, pena l’assenza originaria del requisito dell’inerenza e, dunque, l’impossibilità che il diritto di detrazione venga ad esistenza.

Il che è quanto ha, nella sostanza, del tutto correttamente accertato la C.T.R. Infatti, essa ha rilevato che l’odierna ricorrente non aveva neanche dimostrato “di svolgere una effettiva attività imprenditoriale”, avendo anzi affermato, nel giudizio d’appello, di non accettare il contraddittorio al riguardo.

Senonché, contrariamente a quanto sostenuto col mezzo in esame, il relativo onere probatorio grava in prima battuta sul contribuente: è stato infatti condivisibilmente affermato che “la prova dell’inerenza del medesimo (costo) quale atto d’impresa, ossia dell’esistenza e natura della spesa, dei relativi fatti giustificativi e della sua concreta destinazione alla produzione quali fatti costitutivi su cui va articolato il giudizio di inerenza, incombe sul contribuente in quanto soggetto gravato dell’onere di dimostrare l’imponibile maturato” (così, Cass. n. 18904/2018).

Se così e’, per ciascuno degli anni considerati nell’atto impositivo e in ogni caso al momento della dichiarazione, vi era la riprova della non detraibilità dell’IVA addebitata alla società in via di rivalsa nel 2003, non tanto (e non solo) perché essa non ha compiuto alcuna operazione attiva nel 2004, nel 2005 e nel 2007, ed ha solo realizzato operazioni esenti nel 2006, ma proprio perché la ricorrente stessa non ha mai dimostrato di svolgere in concreto attività d’impresa, peraltro senza neppure chiarire a cosa si riferisse l’operazione passiva del 2003, né invocando un mutamento prospettico nella destinazione del bene o del servizio ad essa società non imputabile, ai fini di quanto prima evidenziato. Pertanto, benché sin dal ricorso introduttivo la società avesse allegato di poter compiere anche operazioni imponibili (v. ricorso, pp. 3-4), risulta del tutto corretta la statuizione della C.T.R. nella parte in cui evidenzia che era onere dell’odierna ricorrente dimostrare che quegli esborsi afferissero a beni e servizi impiegati ai fini di proprie operazioni imponibili (di cui nel processo, peraltro, non v’e’ la minima traccia” stando a quanto emerge dagli atti).

Anzi, a ben vedere, la censura in esame si scontra anche con l’accertamento in facto operato dalla C.T.R. secondo cui – come già evidenziato – la società stessa, per sua scelta processuale, neppure aveva dimostrato di svolgere una effettiva attività imprenditoriale, statuizione che non è stata affatto censurata dalla ricorrente (donde anche profili di inammissibilità del mezzo in esame).

Infine, quanto alla pretesa necessità che l’Ufficio dovesse eventualmente procedere alla contestazione circa la mancata rettifica della detrazione, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19-bis2 e non già all’emissione dell’atto di recupero impugnato, è evidente che detta rettifica presuppone necessariamente la sussistenza del diritto di detrazione ex art. 19 cit., che nella specie non può ravvisarsi, come s’e’ ampiamente detto.

Infatti, qualora in sede di primo utilizzo del bene (non ammortizzabile) o della fruizione del servizio siano mutate le condizioni di detraibilità, l’originaria detrazione deve essere corrispondentemente modificata (in aumento o in diminuzione), ai sensi dell’art. 19-bis2, comma 1, cit.; ove invece si tratti di beni ammortizzabili, l’IVA relativa può essere detratta per intero fin dal momento dell’acquisto, ma – in caso di utilizzo diverso da quello originariamente previsto, ovvero di mutamenti nel regime fiscale delle operazioni attive, nel regime di detrazione dell’imposta in misura diversa, ovvero ancora nell’attività – deve procedersi alla rettifica della detrazione originaria, in misura pari a tanti quinti dell’IVA quanti sono gli anni mancanti al compimento del quinquennio (art. 19-bis2, commi 2 e 3, cit.).

Si tratta, com’e’ evidente, di operazioni rettificatorie concernenti il quantum detrahatur, ma non mai riferibili all’ipotesi in cui venga in discussione ab origine lo stesso an detrahatur, come invece è nella specie.

4.1 – In definitiva, il primo motivo è accolto, mentre il secondo è rigettato. La sentenza impugnata è dunque cassata in relazione, con rinvio alla C.T.R. del Piemonte, in diversa composizione, che si atterrà al superiore principio di diritto e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte accoglie il primo motivo e rigetta il secondo; cassa in relazione e rinvia alla C.T.R. del Piemonte, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 12 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2021

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