Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3444 del 11/02/2021

Cassazione civile sez. trib., 11/02/2021, (ud. 23/10/2020, dep. 11/02/2021), n.3444

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 8684/2017 R.G., proposto dalla:

“Casa Procura Generale dell’Istituto Suore della Carità di

Sant’Anna”, con sede in Roma, in persona della Madre Generale pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Massimo Merlini, con

studio in Roma, ove elettivamente domiciliata, giusta procura in

calce al ricorso introduttivo del presente procedimento;

– ricorrente –

contro

“Roma Capitale” (già Comune di Roma), in persona del Sindaco pro

tempore, autorizzato ad instaurare il presente procedimento in

virtù di, rappresentato e difeso dall’Avv. Umberto Garofoli, con

studio in Roma, ove elettivamente domiciliato presso gli uffici

dell’Avvocatura Capitolina, giusta procura in calce al controricorso

di costituzione nel presente procedimento;

– controricorrente –

la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Roma

il 28 settembre 2016 n. 5587/14/2016, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23

ottobre 2020 dal Dott. Giuseppe Lo Sardo.

 

Fatto

RILEVATO

che:

La “Casa Procura Generale dell’Istituto Suore della Carità di Sant’Anna” ricorre per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Roma il 28 settembre 2016 n. 5587/14/2016, non notificata, la quale, in controversia su impugnazione di avviso di accertamento per l’I.C.I. relativa all’anno 2009 in relazione ad un fabbricato destinato a sede della comunità religiosa e pensionato per studentesse universitarie, ha accolto l’appello proposto dal Comune di Roma nei confronti della medesima avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma il 18 marzo 2015 n. 6261/07/2015, con condanna alla rifusione delle spese giudiziali. Il giudice di appello ha riformato la decisione di prime cure sul presupposto che l’attività di “pensionato” presentasse una struttura organizzativa imprenditoriale, impedendo il riconoscimento alla contribuente dell’esenzione dall’I.C.I. ai sensi del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i. “Roma Capitale” si è costituita con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente disconosciuto i presupposti per l’esenzione dall’I.C.I. in relazione all’immobile sottoposto ad accertamento.

2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto di escludere l’esimente delle obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni sanzionatorie.

Ritenuto che:

1. Il primo motivo è infondato.

1.1 Il tema dell’esenzione prevista dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, è stato recentemente affrontato da questa Corte con argomentazioni che, per ragioni di economia processuale, si ritiene di dover qui richiamare e ribadire per esteso, nelle parti coerenti con il thema decidendum, posto che se ne condivide integralmente l’impostazione (vedansi, in motivazione: Cass., Sez. 5, 27 giugno 2019, n. 17256; Cass., Sez. 5, 11 marzo 2020, n. 6795).

1.2 Secondo il richiamato orientamento, il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, nel testo vigente dall’I. gennaio 2003 al 3 ottobre 2005, disponeva l’esenzione dall’I.C.I. per “gli immobili utilizzati dai soggetti di cui al testo unico delle imposte sui redditi, approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 87, comma 1, lett. c), e successive modificazioni, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive”.

Tale disposizione è stata, in seguito, integrata e modificata dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 7, comma 2-bis, convertito, con modificazioni, nella L. 2 dicembre 2005, n. 281, che aveva esteso l’esenzione alle attività indicate dalla medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse. Un’ulteriore modifica è, poi, intervenuta con il D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 39 convertito, con modificazioni, nella L. 4 agosto 2006, n. 248, che, sostituendo il D.L. 30 settembre 2005, n. 203, cit. art. 7, comma 2-bis, convertito, con modificazioni, nella L. 2 dicembre 2005, n. 281, ha stabilito che l’esenzione disposta dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera “che non abbiano esclusivamente natura commerciale”.

Le modifiche legislative suddette non si applicano retroattivamente, trattandosi di disposizioni che hanno carattere innovativo e non interpretativo (Cass., Sez. 5, 16 giugno 2010, n. 14530; Cass., Sez. 5, 15 luglio 2015, n. 14795). Occorre precisare, inoltre, che le condizioni dell’esenzione sono cumulative, nel senso che è richiesta la coesistenza, sia del requisito soggettivo riguardante la natura non commerciale dell’ente, sia del requisito oggettivo in forza del quale l’attività svolta nell’immobile deve rientrare tra quelle previste dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i; deve trattarsi, in particolare, di immobili destinati direttamente ed esclusivamente allo svolgimento di determinate attività, tra le quali quelle dirette all’esercizio del culto ed alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi e all’educazione cristiana (Cass., Sez. 5, 8 luglio 2016, n. 13966). Con riguardo alla verifica del requisito oggettivo è, pertanto, irrilevante, la destinazione degli utili eventualmente ricavati al perseguimento di fini sociali o religiosi; tale elemento, costituendo una fase successiva, non fa, infatti, venir meno l’eventuale carattere commerciale dell’attività (Cass., Sez. 5, 20 novembre 2009, n. 24500).

Sotto il profilo della distribuzione degli oneri probatori è stato affermato, ed è un principio del tutto condiviso da questo collegio, che “il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza, in concreto, dei requisiti dell’esenzione, mediante la prova che l’attività cui l’immobile è destinato, pur rientrando tra quelle esenti non sia svolta con le modalità di un’attività commerciale” (Cass., Sez. 5, 2 aprile 2015, n. 6711).

Sul diverso versante della compatibilità della norma in esame con il diritto unitario, da tempo si è affermato un orientamento di legittimità secondo cui deve tenersi conto della decisione della Commissione dell’Unione Europea del 19 dicembre 2012. Sul punto, questa Corte ha verificato se il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, in tema di esenzione I.C.I., nelle sue diverse formulazioni succedutesi nel tempo, concretizzasse una forma di aiuto di Stato in violazione del diritto dell’Unione Europea, in particolare con il Trattato, art. 107, paragrafo 1, secondo il quale: “sono incompatibili con il mercato interno, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza”.

E’ stato, poi, precisato che anche un ente senza fine di lucro può svolgere attività economica, cioè offrire beni o servizi sul mercato. La finalità sociale dell’attività svolta non è, dunque, di per sè sufficiente ad escluderne la classificazione in termini di attività economica. Per escludere la natura economica dell’attività è necessario che essa sia svolta a titolo gratuito o dietro il versamento di un importo simbolico. Da tali rilievi consegue l’irrilevanza delle argomentazioni sulle finalità solidaristiche che connotano le attività svolte dalla parte contribuente Nè può tenersi conto della circolare emessa dalla Direzione Federalismo Fiscale presso il Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia e delle Finanze il 26 gennaio 2009 n. 2/F, nella parte esplicativa dei criteri utili per stabilire quando le attività di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, debbano essere considerate di natura “non esclusivamente commerciale”.

La Commissione dell’Unione Europea ha ritenuto, infatti, che l’applicazione dei criteri di cui alla citata circolare non vale ad escludere la natura economica delle attività interessate ed ha concluso nel senso che l’esenzione di cui al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, costituisce aiuto di Stato. In quella ipotesi, tuttavia, non è stato ritenuto possibile ordinare il recupero delle somme.

Tale ultimo aspetto è stato di recente affrontato e risolto dalla sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il 6 novembre 2018, cause riunite C-622/16 P – C-623/16 P, C624/16. E’ stato chiarito, infatti, che l’ordine di recupero di un aiuto illegale è la logica e normale conseguenza dell’accertamento della sua illegalità e che diversamente si farebbero perdurare gli effetti anticoncorrenziali della misura. In questo senso è stato precisato che le decisioni della Commissione dell’Unione Europea volte ad autorizzare o vietare un regime nazionale hanno portata generale.

Se ne è concluso, quindi, dando seguito al più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass., Sez. 5, 12 febbraio 2019, n. 4066; Cass., Sez. 5, 12 aprile 2019, n. 10288; Cass., Sez. 6, 10 settembre 2020, n. 18831), che l’esenzione prevista in favore degli enti non commerciali dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, è compatibile con il divieto di aiuti di Stato sancito dalla normativa dell’Unione Europea solo qualora abbia ad oggetto immobili destinati allo svolgimento di attività non economica nei termini sopra precisati: cioè, quando l’attività sia svolta a titolo gratuito ovvero dietro il versamento di un corrispettivo simbolico.

Per quanto riguarda il profilo soggettivo dei presupposti dell’agevolazione, che pure rileva nel caso in esame, va ricordato che, secondo un indirizzo giurisprudenziale che si è venuto affermando nella giurisprudenza della Corte, l’esenzione spetta non soltanto se l’immobile è direttamente utilizzato dall’ente possessore per lo svolgimento di compiti istituzionali, ma anche se l’immobile, concesso in comodato gratuito, sia utilizzato da un altro ente non commerciale per lo svolgimento di attività meritevoli previste dalla norma agevolativa, al primo strumentalmente collegato ed appartenente alla stessa struttura del concedente (Cass., Sez. 5, 18 dicembre 2015, n. 25508; Cass., Sez. 5, 30 settembre 2019, n. 24308).

Viceversa, si è esclusa l’esenzione nel caso di “utilizzo indiretto” attraverso un diverso soggetto giuridico, ancorchè anch’esso senza finalità di lucro, allorquando non venga accertata l’esistenza di un rapporto di stretta strumentalità nella realizzazione dei suddetti compiti, che autorizzi a ritenere una compenetrazione tra di essi e a configurarli come realizzatori di una medesima “architettura struttura/e” (Cass., Sez. 6, 23 luglio 2019, n. 19773).

Ed è questa la disposizione normativa (nell’interpretazione “Europeisticamente” orientata di questa Corte) da applicare ratione temporis alla fattispecie in esame, concernente il pagamento dell’I.C.I. per l’anno 2011, prima delle modifiche apportate dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 91-bis, convertito – con modificazioni – nella L. 24 marzo 2012, n. 27 e dal D.L. 28 dicembre 2013, n. 149, art. 11-bis, convertito – con modificazioni – nella L. 21 febbraio 2014, n. 13.

1.3 Posto in siffatti termini il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento, occorre ora verificare se la parziale destinazione dell’immobile a pensionato per studentesse universitarie da parte dell’ente ecclesiastico consenta di beneficiare dell’esenzione dall’I.C.I..

1.4 Dunque, si tratta di verificare se il giudice di merito abbia correttamente applicato il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, nel testo novellato, dapprima, dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 7, comma 2-bis, convertito, con modificazioni, nella L. 2 dicembre 2005, n. 281, e, poi, dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 39, convertito, con modificazioni, nella L. 4 agosto 2006, n. 248, nell’accezione compatibile con la decisione adottata dalla Commissione Europea il 19 dicembre 2012 e con la sentenza resa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il 6 novembre 2018, cause riunite C-622/16 P – C-623/16 P, C-624/16, verificando se si tratti di attività svolta con modalità imprenditoriali ovvero, all’opposto, di attività svolta a titolo gratuito o dietro versamento di un importo simbolico a copertura di una sola frazione del costo effettivo del servizio.

1.5 Secondo la sentenza impugnata, la corresponsione di una retta onnicomprensiva (per vitto e alloggio) nella misura mensile di Euro 760,00 (pari a una misura giornaliera di Euro 25,00) era assolutamente in linea con i prezzi di mercato, desumendone che l’attività di “pensionato” per studentesse universitarie presentava in concreto una struttura organizzativa imprenditoriale, la cui natura commerciale, orientata alla realizzazione di profitto, escludeva l’applicabilità dell’esenzione.

1.7 Questa Corte ritiene che l’apprezzamento in punto di fatto circa l’adeguatezza e la congruenza della retta mensile ai prezzi correnti di mercato è insindacabile in sede di legittimità, involgendo una valutazione delle risultanze istruttorie che è riservata al giudice di merito.

Peraltro, non è dato desumere dalla sentenza impugnata che la contribuente abbia allegato e documentato circostanze idonee a contraddire tale esito attraverso il raffronto comparativo con i prezzi praticati nello stesso periodo da analoghi operatori (ostelli, pensionati, case dello studente, ecc.) sul mercato capitolino.

2. Parimenti, il secondo motivo è infondato.

2.1 Come è noto, il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, comma 2, dispone che: “Non è punibile l’autore della violazione quando essa è determinata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono (…)”.

2.2 Tale disposizione è collegata al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8, il quale dispone che il giudice tributario “(…) dichiara non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”.

Analogamente, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, prevede che l’irrogazione delle sanzioni è esclusa “quando la violazione dipende da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria”.

2.3 Per costante orientamento di questa Corte, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, alla stregua della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6 e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8, postula una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita non già ad un generico contribuente, nè a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata, nè all’amministrazione finanziaria, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione” (ex plurimis: Cass., Sez. 6, 11 febbraio 2013, n. 3254; Cass., Sez. 5, 22 febbraio 2013, n. 4522; Cass., Sez. 5, 23 novembre 2016, n. 23845; Cass., Sez. 5, 4 maggio 2018, n. 10662; Cass., Sez. 5, 1 febbraio 2019, n. 3108; Cass., Sez. 5, 12 aprile 2019, n. 10313).

Ne consegue che le disposizioni richiamate non possono trovare applicazione in una fattispecie in cui l’orientamento giurisprudenziale è stato pressochè univoco e conforme (Cass., Sez. 5, 4 maggio 2018, n. 10662).

Un importante arresto di questa Corte ha meglio delineato la sfera operativa dell’esimente, precisando che l’incertezza normativa oggettiva non ha il suo fondamento nell’ignoranza giustificata, ma nell’impossibilità, abbandonato lo stato d’ignoranza, di pervenire comunque allo stato di conoscenza sicura della norma giuridica tributaria. L’essenza del fenomeno “incertezza normativa oggettiva” si può rilevare attraverso una serie di fatti indice, che spetta al giudice accertare e valutare nel loro valore indicativo, e che sono stati individuati a titolo di esempio e, quindi, non esaustivamente: 1) nella difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge; 2) nella difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) nella difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) nella mancanza di informazioni amministrative o nella loro contraddittorietà; 5) nella mancanza di una prassi amministrativa o nell’adozione di prassi amministrative contrastanti; 6) nella mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) nella formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, magari accompagnati dalla sollecitazione, da parte dei giudici comuni, di un intervento chiarificatore della Corte costituzionale; 8) nel contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) nel contrasto tra opinioni dottrinali; 10) nell’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente (in termini: Cass., Sez. 5, 23 marzo 2012, n. 4685).

Dunque, è pacifico che l’incertezza normativa de qua è ravvisabile anche in assenza di precedenti specifici della giurisprudenza di legittimità all’epoca dei fatti contestati (Cass., Sez. 5, 1 marzo 2013, n. 5207 e n. 5210; Sez. 6, 4 giugno 2013, n. 14080).

2.4 Nel caso di specie, a ben vedere, dopo le innovazioni introdotte dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 7, comma 2-bis, convertito, con modificazioni, nella L. 2 dicembre 2005, n. 281, e dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 39, convertito, con modificazioni, nella L. 4 agosto 2006 n. 248, non risulta che, al momento dell’irrogazione della sanzione amministrativa (anno 2009), si fosse ancora registrata una specifica pronuncia di questa Corte sull’applicabilità dell’esenzione prevista dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i, agli immobili adibiti a pensionati con pagamento di rette (invero, i precedenti specifici si riferiscono al testo normativo nella versione antecedente alla predetta novellazione: Cass., Sez. 5, 8 marzo 2004, n. 4645; Cass., Sez. 5, Cass., Sez. 5, 13 marzo 2015, n. 5041).

Per cui, nel considerato periodo d’imposta (anno 2009), non si era ancora delineata un’esegesi netta, chiara ed univoca sulla portata del testo novellato del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7, comma 1, lett. i.

Ciò non di meno, non si può ritenere che la novellata formulazione del testo normativo palesasse una tale ambiguità nella regolamentazione e nella tipizzazione delle condotte rilevanti ai fini impositivi, da ingenerare un’oggettiva incertezza nel contribuente di media cultura sulla reale portata dell’esenzione.

3. Pertanto, valutandosi l’infondatezza dei motivi dedotti, il ricorso deve essere rigettato.

4. Le spese giudiziali seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.

5. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese giudiziali in favore della controricorrente, liquidandole nella somma complessiva di Euro 1.500,00, oltre spese forfettarie ed altri accessori di legge; dà atto dell’obbligo, a carico della ricorrente, di pagare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2021

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