Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34405 del 15/11/2021

Cassazione civile sez. trib., 15/11/2021, (ud. 22/09/2021, dep. 15/11/2021), n.34405

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24146/2014 proposto da:

Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso

l’Avvocatura Generale Dello Stato che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Fondazione Enpam, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma Via F. Acri 44 presso lo studio

dell’avvocato Squillaci Vincenzo che la rappresenta e difende;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

Agenzia Delle Entrate;

– intimata –

avverso la sentenza n. 909/2014 della COMM. TRIB. REG. LOMBARDIA,

depositata il 20/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/09/2021 da DE MASI ORONZO.

 

Fatto

RITENUTO

Che:

Con sentenza n. 909/2014, depositata il 20/2/2014, la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha respinto l’appello col quale l’Agenzia delle entrate ha censurato la decisione di primo grado che aveva affermato la illegittimità della qualificazione, ai sensi del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come compravendita di immobili l’operazione di seguito descritta, in relazione alla quale l’Amministrazione finanziaria ha liquidato le imposte di registro, ipotecaria e catastale, di cui agli impugnati avvisi notificati il 12/3/2012, secondo la regola ordinaria dell’imposizione in misura proporzionale.

L’operazione per cui è causa si è distinta nel seguente modo: con atto del (OMISSIS), le società Asio e Commercial 1 apportavano al fondo immobiliare chiuso denominato “(OMISSIS)”, gestito dalla (SGR) First RE s.p.a., un complesso immobiliare del complessivo valore di Euro 362.000.000,00, ed in contropartita diretta ricevevano quote del fondo in ragione del proprio apporto, che le società, in pari data, deliberavano di cedere integralmente alla Fondazione EMPAM (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza Medici e Odontoiatri), sino ad allora unica quotista del fondo immobiliare, all’uopo stipulando il 21/1/2006, mediante scambio di corrispondenza, contratto preliminare di vendita, sospensivamente condizionato al mancato esercizio del diritto di prelazione da parte del Ministero dei Beni Culturali; le quote emesse a favore delle società Asio e Commerciai 1 venivano vendute alla Fondazione EMPAM per un prezzo pari al valore di apporto degli immobili e tutte le operazioni venivano poste in essere in esenzione dall’IVA; l’apporto, ai sensi del D.L. n. 351 del 2001, art. 8, comma 1 bis, la cessione delle quote del fondo, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, n. 8 ter, lett. c).

L’appello è stato respinto con la seguente motivazione: l’Amministrazione finanziaria non è incorsa in decadenza in quanto il relativo termine decorre dall’ultimo atto posto in essere dalle società; il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non ha valenza di clausola antielusiva ma fissa un criterio ermeneutico che limita il perimetro d’indagine dell’Amministrazione ai soli affetti giuridici e non economici dell’atto presentato per la registrazione; la fattispecie non può essere riqualificata attraverso una interpretazione degli atti in chiave elusiva, ed anche se non trova applicazione il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 4, il quale sanziona con la nullità l’atto impositivo non preceduto, come nella specie, dalla garanzia procedimentale del contraddittorio, quel che rileva, ai fini qui considerati, sono gli effetti giuridici propri dei negozi pretesamente collegati e non l’effetto economico finale dell’operazione unitariamente intesa, ancorché la Fondazione EMPAM abbia conseguito “un notevole risparmio d’imposta”.

L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione affidato ad un motivo.

L’intimata Fondazione EMPAM resiste e propone ricorso incidentale condizionato con due motivi, illustrati con memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Col motivo di doglianza la ricorrente Agenzia deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, e degli artt. 115 e 116 c.p.c., degli artt. 1362, 2697, 2729 c.c., giacché il Giudice di appello non ha considerato che per effetti giuridici finali devono intendersi quelli che si realizzano quale esito di tutti gli atti negoziali previsti nell’ambito della fattispecie complessa che caratterizza il fenomeno del collegamento negoziale, effetti (nella specie traslativi) dei quali si deve tenere conto per procedere alla interpretazione degli atti medesimi, sicché alla Amministrazione finanziaria va riconosciuta la possibilità di considerarli unitariamente, così da far emergere, anche sulla base di elementi presuntivi, gli obiettivi realmente perseguiti dai contraenti allo scopo di garantirsi un vantaggio fiscale.

Evidenzia, altresì, la ricorrente il carattere meramente strumentale dell’utilizzo, come mero veicolo, del fondo immobiliare chiuso denominato “(OMISSIS)”, essendo chiaro, ancor prima dell’apporto del complesso immobiliare, l’interesse delle società Asio e Commerciai 1 all’immediato trasferimento delle quote che avrebbero ricevuto in contropartita, nonché la mancanza di valide ragioni economiche circa le modalità dell’operazione, abusivamente attuata mediante atti fiscalmente neutrali e con notevole risparmio d’imposta.

Col ricorso incidentale la contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1996, art. 76, comma 1, nonché del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, avuto riguardo alla ritenuta infondatezza della eccezione di decadenza dell’esercizio del potere impositivo e della insussistenza dell’obbligo di instaurazione del contraddittorio preventivo in caso di contestazione dell’elusione fiscale.

Il ricorso principale è infondato e non merita accoglimento per le ragioni di seguito precisate.

Il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, dispone che “l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extra testuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.

Il testo attuale della disposizione è frutto delle modifiche introdotte dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), nn. 1) e 2), (di “interpretazione autentica” della L. n. 145 del 2018, ex art. 1, comma 1084), che recano l’espressa previsione della irrilevanza degli elementi extra testuali e del collegamento negoziale: il legislatore ha voluto imporre una interpretazione isolata dell’atto da sottoporre a registrazione, fondata unicamente sugli elementi da esso desumibili, ribadendo così la natura d’imposta d’atto dell’imposta di registro, la quale colpisce l’atto sottoposto a registrazione quale risulta dallo scritto.

In effetti, anche nella precedente formulazione della disposizione, in cui non vi era il riferimento esplicito alla irrilevanza degli elementi esterni all’atto, l’art. 20 fondava l’imposizione sugli effetti giuridici dell’atto e sulle conseguenze che questi erano idonei a produrre.

La giurisprudenza di questa Corte, tuttavia, era prevalente orientata nel senso che, ai fini dell’applicazione dell’imposta, dovesse indagarsi la causa reale o concreta dei negozi, dando rilievo al collegamento negoziale tra contratti al fine di valutarne l’effetto finale, ovvero alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali tra loro collegate (Cass. n. 13610/2018).

E’ stato reiteratamente affermato il principio della prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul titolo, sulla forma apparente, indipendentemente dal nomen iuris, prevalenza che vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente appunto alla natura intrinseca degli atti, ed ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire l’imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (tra le tante, Cass. n. 10216/2016, Cass. n. 1955/2015, Cass. n. 14150/2013, Cass. n. 6835/2013).

E’ anche vero che la Corte, sebbene con isolate pronunce, aveva affermato il diverso principio secondo cui l’attività riqualificatoria dell’Ufficio, “che non è tenuto ad accogliere acriticamente la qualificazione prospettata dalle parti ovvero quella ” forma apparente ” alla quale lo stesso art. 20 (nella formulazione anteriore alla L. n. 205 del 2017) fa riferimento”, incontra il limite dell’insuperabilità della forma e dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, “pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici”, per cui, in mancanza di prova, a carico dell’Amministrazione finanziaria, di un disegno elusivo, ricorre piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro” (Cass. n. 2054/2017, n. 722/2019) e 6790/2020).

Non v’e’ dubbio che il Legislatore sia intervenuto sull’art. 20 “in sostanziale adesione alla giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione”.

Ne’ può dirsi tradita in tal modo la funzione propria delle leggi di interpretazione autentica, dotate – per definizione – di efficacia retroattiva, essendo stato chiarito il senso di una norma preesistente, eliminando oggettive incertezze interpretative e rimediando ad una interpretazione giurisprudenziale non in linea con la politica del diritto voluta dal Legislatore medesimo.

Così si è espressa la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 158/2020, allorquando ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale, posta da questa Corte di legittimità (ord. n. 23549/2019), in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87 e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, nella parte in cui prevede che, ai fini dell’imposta di registro, l’interpretazione degli atti presentati alla registrazione debba avvenire solo in base al loro contenuto, senza fare riferimento ad atti collegati o ad elementi extra testuali.

Il Legislatore nel riaffermare, con la denunciata norma, la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, ha precisato l’oggetto dell’imposizione, in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, per cui, come nitidamente sottolineato dalla Corte Costituzionale, un’interpretazione della norma in chiave antielusiva provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, consentendo all’Amministrazione finanziaria di operare, appunto, in funzione antielusiva, senza peraltro l’applicazione della garanzia del contraddittorio endoprocedimentale, svincolandosi da ogni riscontro probatorio di indebiti vantaggi fiscali e di operazioni prive di sostanza economica, precludendo di fatto al contribuente ogni legittima possibilità di pianificazione fiscale.

Il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 39/2021, si è nuovamente espresso sulla questione concernente la legittimità dell’intervento legislativo che ha interessato il D.P.R. n. 131 del 1986, più volte cit. art. 20, dapprima con la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), e poi con la L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, ed ha osservato che esso deve essere letto come destinato non già “all’ambito semantico di una singola disposizione”, ma piuttosto “a quello dell’intero “impianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro”, dove la sua origine storica di imposta d’atto “non risulta superata dal legislatore positivo” (sentenza n. 158 del 2020)”, in quanto risponde all’esigenza di ricondurre in un ambito più ordinato e coerente, rispetto al quadro normativo in forte evoluzione, l’interpretazione anche giurisprudenziale della norma tributaria, e ciò, segnatamente, in considerazione del progressivo consolidarsi di un’organica disciplina dell’abuso del diritto.

All’Ufficio, pertanto, deve ritenersi impedita la riqualificazione di un unico negozio, come di più o meno articolate sequenze negoziali, applicando il più volte cit. art. 20, sulla base della valorizzazione di elementi extra testuali.

Tanto è confermato dalla stessa relazione che accompagna l’intervento legislativo in argomento, nella quale si sottolinea come, ai fini della interpretazione degli atti presentati per la registrazione, siano irrilevanti “gli interessi concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte”.

In altri termini, resta ferma la legittimità dell’attività di riqualificazione per via interpretativa dell’atto da registrare soltanto se operata “ab intrinseco”, senza l’utilizzazione di elementi ad esso estranei, in quanto l’interpretazione prevista dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, non può basarsi sull’individuazione di contenuti diversi da quelli ricavabili dalle clausole negoziali e dagli elementi comunque desumibili dal singolo atto presentato alla registrazione, essendo viceversa la finalità antielusiva profilo affatto estraneo alla disposizione in esame.

A diversi limiti, invece, soggiace la potestà dell’Amministrazione finanziaria quando la riqualificazione è diretta a far valere il collegamento negoziale e, più in generale, qualunque forma di abuso del diritto ed elusione fiscale, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, trattandosi di ipotesi estranea alla ermeneutica dell’atto da registrare.

L’azione accertatrice, in tali casi, si deve attuare mediante apposito e motivato atto impositivo, preceduto – a pena di nullità – da una richiesta di chiarimenti, che il contribuente può fornire entro un certo termine, il tutto da svolgersi all’interno di uno specifico procedimento di garanzia.

Inoltre, con la L. n. 205 del 2017 (Legge di Bilancio 2018), è stato integrato – con effetti a decorrere dal 1 gennaio 2018 – il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, inserendo il rinvio alla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, (“1. Fermo restando quanto previsto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis, le attribuzioni e i poteri di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 31 e ss. e successive modificazioni, possono essere esercitati anche ai fini dell’imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale previste dal testo unico di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347.”).

La L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, infatti, è intervenuto sul D.P.R. n. 131 del 1986, sia sull’art. 20, che sull’art. 53-bis, rubricati rispettivamente “Interpretazione degli atti” e “Attribuzioni e poteri degli Uffici”, non solo per chiarire la portata applicativa dell’art. 20 T.U.R., in modo tale da restituire all’imposta di registro l’originaria veste di “imposta d’atto”, ma anche per consentire all’Amministrazione finanziaria, attraverso il richiamo della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, nel corpo dell’art. 53-bis, di riqualificare l’operazione elusiva, mediante atti collegati o elementi extra-testuali, nel caso ravvisi violazione dei principi sull’abuso del diritto.

La Corte Costituzionale, nella prima delle citate pronunce, non ha mancato di osservare che “il censurato intervento normativo appare finalizzato a ricondurre il cit. art. 20 all’interno del suo alveo originario, dove l’interpretazione, in linea con le specificità del diritto tributario, risulta circoscritta agli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione (ovverossia al gestum, rilevante secondo la tipizzazione stabilita dalle voci indicate nella tariffa allegata al testo unico), senza che possano essere svolte indagini circa effetti ulteriori, salvo che ciò sia espressamente stabilito dalla stessa disciplina del testo unico.”, e che “proprio la clausola finale del censurato art. 20 “salvo quanto disposto dagli articoli successivi” concorre ad avvalorare la suddetta valenza sistematica dell’intervento legislativo del 2017 nell’assetto della disciplina del tributo. Invero, per effetto della novella, le ipotesi riconducibili all’accezione restrittiva generale della nozione di “atto” presentato alla registrazione sono individuabili solo al di fuori di quelle, espressamente regolate dallo stesso testo unico, che ammettono la rilevanza degli effetti di separati atti o fatti collegati o, in altri termini, di vicende rientranti nel complessivo programma di azione costituito da un precedente negozio, che incideranno sul regime fiscale di quest’ultimo o comporteranno trattamenti d’imposta diversificati.”.

Ripercorrendo la giurisprudenza di questa Corte va senz’altro ribadito che l’obbligo generale di contraddittorio preventivo esiste unicamente per i tributi armonizzati, mentre per i tributi non armonizzati occorre una specifica previsione normativa (Cass., sez. un. 24823/2015; Cass. n. 11283/2016; n. 6758/2017; n. 313/2018); che il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, concerne l’oggettiva portata effettuale dei negozi e non contiene, quindi, una disposizione antielusiva stricto sensu, come quella del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, sicché l’avviso di liquidazione ex art. 20 non soggiace all’obbligo di contraddittorio preventivo (Cass. n. 15319/2013); che la tassazione dell’imposta di registro in misura proporzionale non deriva dalla individuazione di un “abuso di diritto”, per cui non v’e’ alcuna ragione per estendere alle imposte indirette, difettando di omogeneità le relative discipline normative, una disposizione, quale è il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, dettata in materia di imposte dirette per rendere inopponibili all’Amministrazione finanziaria atti, fatti e negozi che risultassero privi di valide ragioni economiche e diretti solo ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario.

Risultano, dunque, prive di rilievo decisivo, nell’applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, le questioni concernenti sia la sussistenza o meno di un intento elusivo o simulatorio in capo alle parti contraenti, che l’Amministrazione non è tenuta a dimostrare, sia – per quanto già detto – il difetto di contraddittorio preventivo in sede di procedimento amministrativo.

Ne’, in senso contrario, appare utile richiamare la previsione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, atteso che, nel caso di specie, la disposizione si applica nel testo vigente prima delle modifiche apportate L. n. 205 del 2017, che, come già detto, ha esteso al campo delle imposte di registro, ipotecaria e catastale le “attribuzioni” ed i “poteri” riconosciuti agli Uffici dal D.P.R. n. 600 del 1973 (e, segnatamente, dai relativi artt. 31, 32 e 33) per l’accertamento delle imposte dirette, ma senza contemplare alcun richiamo alla disposizione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, norma che non riguarda suddette “attribuzioni” e “poteri”, ma incide sull’oggetto dell’imposizione (Cass. n. 15319/2013 cit.).

Per la codificazione dell’istituto dell’abuso del diritto, costruito sulla scorta delle soluzioni definitorie elaborate dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria, bisogna guardare al D.Lgs. n. 128 del 2015, che ha previsto, all’art. 1, una definizione dell’abuso del diritto, e le sue implicazioni in materia fiscale con valenza generale, sia per i tributi armonizzati, per i quali trova fondamento nei principi dell’ordinamento UE, che per quelli non armonizzati, per i quali il fondamento va ricercato nei principi costituzionali, in attuazione della delega fiscale concessa al governo dalla L. 11 marzo 2014, n. 23, artt. 5 e 6 e art. 8, comma 2, al dichiarato intento di “certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente”.

E’ con detta disposizione che il Legislatore ha aggiunto, dopo l’art. 10 dello Statuto del contribuente (L. n. 212 del 2000), l’art. 10-bis (in vigore dal 1 ottobre 2015), a tenore del quale (comma 1) “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”).

Ed è proprio il predetto art. 10 bis che prevede che l’accertamento dell’abuso del diritto da parte dell’Amministrazione debba essere obbligatoriamente preceduto da una richiesta di chiarimenti (comma 6), da fornire entro 60 giorni da parte del contribuente, e che l’atto impositivo (comma 8) debba essere sempre specificamente motivato in relazione alla condotta abusiva, alle norme eluse, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati ed ai chiarimenti forniti dal contribuente.

E’, infine, la L. n. 205 del 2017, con l’art. 1, comma 87, lett. b), che introduce nel D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, il rinvio alla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, (in vigore dal 1 gennaio 2018), e con esso completa il pieno ingresso dell’istituto dell’abuso del diritto nell’ambito specifico della imposta di registro, nonché delle imposte ipotecaria e catastale.

In conclusione, se una diversa lettura del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, così come risulta autenticamente interpretato dal Legislatore, non appare più consentita dopo la sentenza n. 158/2020 della Corte Costituzionale, ciò non di meno il ricordato principio giurisprudenziale della “prevalenza della sostanza sulla forma” può sempre essere fatto valere dall’Amministrazione finanziaria, sia pure entro gli stretti limiti imposti all’attività ermeneutica dalla richiamata disposizione, mentre ove ricorra l’abuso del diritto/elusione fiscale, mediante il richiamo contenuto nel D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis, alla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, che richiede, per superare la qualificazione formale dell’atto, la prova dell’illegittimo risparmio fiscale, oltre che il rispetto delle garanzie procedimentali di cui si è in precedenza detto.

La sentenza impugnata si è attenuta ai principi sopra esposti ed ha escluso, correttamente, che l’Amministrazione finanziaria potesse considerare, ai fini della qualificazione giuridica dell’atto presentato a registrazione una pluralità di elementi extratestuali, frutto di indagini officiose, afferenti negozi collegati e circostanze fattuali, temporalmente antecedenti e successivi all’atto medesimo, idonei – in tesi all’emersione del reale intento negoziale dei contraenti, quello di trasferire la proprietà del complesso immobiliare dalle società Asio e Commerciai 1 alla Fondazione EMPAM, risultando il percorso tortuoso posto in essere con il ricorso al fondo immobiliare chiuso denominato “(OMISSIS)”, gestito dalla (SGR) First RE s.p.a., meramente strumentale al predetto obiettivo perseguito, volto all’ottenimento di una rilevante sottrazione dell’imposta dovuta, ed integrante abuso del diritto, dovendo l’ente impositore limitare la propria valutazione al contenuto testuale del singolo atto tassato.

I motivi di ricorso incidentale restano assorbiti.

Le spese di giudizio si compensano in considerazione dell’evoluzione normativa e delle incertezze interpretative risolte soltanto a seguito del recente intervento della Corte Costituzionale.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito il ricorso incidentale.

Compensa le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale tenuta con modalità da remoto, il 22 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2021

 

 

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