Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3440 del 11/02/2021

Cassazione civile sez. trib., 11/02/2021, (ud. 17/09/2020, dep. 11/02/2021), n.3440

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. TRISCARI G. – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

Dott. D’AURIA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11397 del ruolo generale dell’anno 2013

proposto da:

Z.F., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Daniel Polo

Pardise e Raffaele Cavaliere per procura speciale a margine del

ricorso, elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Gentile da

Fabriano, n. 3, presso lo studio di quest’ultimo difensore;

– ricorrente principale –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– controricorrente incidentale –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Veneto, n. 23/29/2012, depositata in data 8 marzo

2012;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 17

settembre 2020 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

 

Fatto

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Z.F., titolare dell’impresa individuale Officine Meccaniche di Torneria di Z.F., tre avvisi di accertamento, relativi alle annualità 2003, 2004 e 2005, con i quali aveva ripreso a tassazione maggiori redditi ai fini Iva, Irap, Irpef, addizionale regionale, irrogando le conseguenti sanzioni; in particolare, a seguito di analisi contabile effettuata mediante la compilazione di un questionario, avendo la parte presentato, per le suddette annualità, un reddito imponibile pari a zero, l’ufficio aveva compiuto delle verifiche sui conti correnti bancari nonchè sui beni intestati al contribuente ed aveva rettificato le dichiarazioni dei redditi per gli anni di riferimento e valorizzato ulteriori elementi presuntivi di un maggior reddito non dichiarato; avverso gli avvisi di accertamento il contribuente aveva proposto ricorso che era stato accolto dalla Commissione tributaria provinciale di Treviso in base alla considerazione che non era stata prodotta dall’ufficio l’autorizzazione all’effettuazione delle indagini bancarie; avverso la sentenza del giudice di primo grado l’Agenzia delle entrate aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale ha parzialmente accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che: l’Agenzia delle entrate aveva prodotto l’autorizzazione della direzione regionale all’effettuazione delle indagini bancarie e, comunque, non sussisteva alcun obbligo di depositarla nel corso del giudizio di primo grado; peraltro, dalla mancata produzione nel giudizio a quo non era derivato alcun nocumento al diritto di difesa del contribuente; il ricorso introduttivo di primo grado era ammissibile in quanto era stato tempestivamente proposto; nel merito, era legittima la pretesa dell’amministrazione finanziaria relativa ai maggiori ricavi non dichiarati; non era legittima, invece, la ripresa relativa, per l’anno 2004, alla quota del fondo “riserva di rivalutazione”, trattandosi di meri valori numerari, non riflettentesi sul conto economico e, quindi, non idonei a determinare un reddito di impresa;

Z.F. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a cinque motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso contenente ricorso incidentale affidato a un motivo di censura.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Sui motivi di ricorso principale.

Con il primo motivo di ricorso principale si censura la sentenza per “omesso esame e comunque insufficiente motivazione della sentenza su un fatto decisivo per il giudizio – sulla mancata considerazione dei rilievi del contribuente contro la ripresa a reddito”, in particolare per non avere tenuto conto degli elementi di prova contraria prodotti dal contribuente al fine di giustificare le movimentazioni bancarie e per avere motivato in modo insufficiente sulla valenza probatoria degli stessi;

il motivo è inammissibile;

va precisato che, in tema di onere della prova e di verifica giudiziale in materia di maggiore reddito conseguente ad accertamenti bancari, la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), dettata in materia di imposte sui redditi (secondo la quale i prelevamenti e gli importi riscossi nell’ambito di rapporti bancari, in difetto di indicazione del soggetto beneficiario o in mancanza di annotazione nelle scritture contabili, sono considerati ricavi o compensi posti a base delle rettifiche operate ai sensi dello stesso decreto, artt. 38-41, ove il contribuente non dimostri che ne ha tenuto conto nella dichiarazione dei redditi ovvero che tali somme rimangono escluse dalla formazione dell’imponibile), omologa a quella stabilita dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2), in materia di IVA, consente di riferire a redditi (e, nel secondo caso, a ricavi) imponibili, conseguiti nell’attività economica svolta dal contribuente, tutti i movimenti bancari rilevati dal conto, qualificando gli “accrediti” (e, per le sole attività imprenditoriali, anche gli “addebiti”) come ricavi;

si tratta, in particolare, di una presunzione legale “juris tantum” che consente di considerare come ricavo riconducibile all’attività professionale o imprenditoriale del contribuente qualsiasi accredito riscontrato sul conto corrente del medesimo e comportante l’inversione dell’onere della prova, spettando a quest’ultimo l’onere di superare detta presunzione offrendo la prova liberatoria che dei movimenti sui conti bancari egli ha tenuto conto nelle dichiarazioni, o che gli accrediti (e gli addebiti) registrati sui conti non si riferiscono ad operazioni imponibili, occorrendo all’uopo che venga indicato e dimostrato dal contribuente la provenienza dei singoli versamenti con riferimento tanto ai termini soggettivi dei singoli rapporti, quanto alle diverse cause giustificative degli accrediti (Cass. civ., 11 settembre 2018, n. 22089; Cass. civ., 20 settembre 2017, n. 21800);

con specifico riferimento, poi, al contenuto dell’onere probatorio gravante sul contribuente, si è affermato che questi deve dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, e, a tal fine, deve fornire non una prova generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare che ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (Cass. civ., 10 dicembre 2014, n. 26018) ed il giudice di merito è tenuto alla rigorosa verifica dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, rifuggendo da qualsiasi valutazione di irragionevolezza ed inverosimiglianza dei risultati restituiti dal riscontro delle movimentazioni bancarie, in quanto il giudizio di ragionevolezza dell’inferenza dal fatto certo a quello incerto è già stato stabilito dallo stesso legislatore con la previsione, in tale specifica materia, della presunzione legale (Cass. civ., 20 settembre 2017, n. 21800);

ciò precisato, va quindi osservato che il giudice del gravame, valutando le prove contrarie prodotte dal contribuente, ha precisato che questi “non ha saputo fornire complete ed esaustive motivazioni in ordine alle movimentazioni bancarie operate”;

rispetto alla valutazione degli elementi di prova contraria compiuta dal giudice del gravame, parte ricorrente non ha assolto al principio di specificità del motivo, limitandosi ad evidenziare la mancata considerazione di elementi di prova contrari, senza, tuttavia, riportarne specificamente il contenuto;

ed invero, parte ricorrente si limita a evidenziare (vd. pag. 7, ricorso): “a mero titolo esemplificativo” (…) “le più significative riprese effettuate negli atti di accertamento impugnati secondo le logiche utilizzate dall’ufficio, rinviando per un maggior e più esaustivo dettaglio a quanto riportato nei prospetti allegati”; inoltre, ha evidenziato che: “la totalità delle operazioni attive e passive effettuate nei conti correnti del ricorrente sono state ricostruite nella perizia allegata”;

va quindi ribadito che l’onere della prova contraria gravante sul contribuente esige la compiuta giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, dunque la produzione di documenti certi, sicchè non può darsi rilevanza al generico rinvio a prospetti od ad una perizia di parte, di per sè privi della forza probatoria necessaria per contrastare la valenza presuntiva degli elementi posti a base dell’accertamento basato non solo sulle movimentazioni bancarie, ma anche su ulteriori elementi presuntivi, quali il possesso di beni (mobili e immobili) che costituiscono manifestazione di capacità contributiva contrastante col reddito dichiarato pari a zero;

nella successiva parte del motivo di ricorso in esame parte ricorrente evidenzia le ragioni giustificative di singoli accreditamenti (conseguenti a versamenti, bonifici o giroconti) su conti correnti allo stesso riferibili e che, secondo l’assunto del ricorrente, troverebbero giustificazione ora in prestiti del suocero, ora in somme derivanti da vendita di un appartamento, ora in giroconti, ora in negoziazione di titoli acquistati in periodi di imposta precedenti, ma le stesse, invero, risultano proposte in modo del tutto generico, senza alcuna riproduzione o specifica allegazione di documentazione di riscontro, e non consentono, quindi, a questa Corte, di apprezzare la rilevanza delle circostanze di fatto prospettate ai fini della valutazione della insufficiente motivazione della sentenza gravata, sicchè il motivo di ricorso in esame è da considerarsi inammissibile;

peraltro, è lo stesso ricorrente che precisa che “una parte dei prelievi non è giustificabile in quanto rappresentano le spese sostenute per il mantenimento di sè e della propria famiglia”, evidenziando, in tal modo, la mancanza di precisi elementi di riscontro, per una parte dei prelievi, idonei a privare di forza probatoria gli elementi presuntivi valorizzati negli avvisi di accertamento;

con il secondo motivo di ricorso principale si censura la sentenza per “violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Cost. in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, – Omessa motivazione della sentenza su un fatto decisivo del giudizio”, per non avere ritenuto illegittima la pretesa dell’amministrazione finanziaria in quanto ha tenuto conto, indistintamente, sia delle poste attive che di quelle passive dei conti correnti bancari, senza, quindi, dedurre, ai fini dell’accertamento del reddito netto, i costi sostenuti, nonchè per non avere pronunciato sulla questione;

il motivo è infondato;

in primo luogo, va osservato, come già precisato, che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, consente all’amministrazione finanziaria di accertare un maggiore reddito non dichiarato sulla base sia dei versamenti che dei prelievi risultanti dalle movimentazioni bancarie riferibili al contribuente, dovendo questi, in tal caso, fornire la prova contraria, sicchè la ragione di censura prospettata, relativa alla considerazione sia delle poste attive che delle poste passive dei conti correnti bancari, è priva di rilevanza;

con riferimento, poi, ai costi non conteggiati, va osservato che questa Corte (Cass. civ., 5 ottobre 2018, n. 24422) ha precisato che il principio secondo cui “alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere una incidenza percentualizzata dei costi” è applicabile solo in caso di rettifica induttiva e non già di accertamento conseguente ad indagine bancaria regolamentato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, n. 2, in base ai quali incombe sul contribuente l’onere di provare, rispetto alla presunzione legale emergente dai dati delle movimentazioni bancarie, che detti elementi non siano riferibili ad operazioni imponibili, in particolare che i versamenti siano registrati in contabilità e che i prelevamenti siano serviti per pagare determinati beneficiari, anzichè costituire acquisizione di utili, mentre l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti;

infondato, inoltre, è il profilo di censura relativo all’omessa motivazione sulla questione, in quanto il giudice del gravame, ragionando in ordine al fatto che gli avvisi di accertamento erano stati emessi sulla base degli accertamenti bancari (oltre che di altri elementi presuntivi), ha evidenziato, risolvendo in tal modo la questione, che era onere del contribuente fornire la prova circa l’esistenza di componenti negativi di reddito;

con il terzo motivo di ricorso principale si censura la sentenza per “Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12. Sulla mancata applicazione dell’istituto della continuazione in relazione all’applicazione delle sanzioni – Omessa motivazione della sentenza”, per non avere ritenute illegittime le sanzioni irrogate con i distinti avvisi di accertamento in quanto non era stato applicato il cumulo giuridico e la continuazione;

il motivo è inammissibile;

è vero che, in generale, la mitigazione del trattamento punitivo prevista dal D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12, non costituisce una facoltà discrezionale dell’ufficio o del giudice il cui esercizio debba essere necessariamente sollecitato dall’interessato, quanto, piuttosto, sussistendone i presupposti, un dovere, dell’ufficio o del giudice;

tuttavia, l’applicazione della continuazione o del cumulo giuridico deve combinarsi, nel rito tributario, con il carattere (normalmente) impugnatorio dell’atto introduttivo del processo;

in questo ambito, la mancata applicazione della continuazione ovvero del cumulo giuridico da parte dell’ufficio, deve formare oggetto di impugnazione, a pena di inammissibilità, mediante specifico motivo del ricorso con il quale si introduce il giudizio contro l’atto irrogativo delle sanzioni nonchè, eventualmente, mediante la riproposizione della questione dinanzi al giudice di appello, in via di eccezione, nel caso in cui il contribuente sia risultato vittorioso nel giudizio di primo grado;

sicchè, ove il contribuente ometta di impugnare, con i motivi del ricorso, la mancata applicazione della continuazione ovvero del cumulo giuridico, la successiva richiesta di applicazione, veicolata mediante un atto successivo, in particolare in sede di ricorso in cassazione, deve essere considerata inammissibile;

la questione in esame, in realtà, è stata proposta in violazione del principio di specificità, non avendo parte ricorrente allegato o riprodotto alcun atto da cui evincere che la stessa era stata già posta all’attenzione del giudice di primo grado e, successivamente, del giudice del gravame, e che, inoltre, le sanzioni irrogate nelle diverse annualità fossero errate o superiori a quelle che sarebbero derivate dall’applicazione del cumulo giuridico e della continuazione, in modo da consentire a questa Corte di apprezzare la rilevanza della questione, cioè se l’amministrazione finanziaria avesse errato nella quantificazione delle stesse;

per la medesima ragione relativa al difetto di specificità è da considerarsi inammissibile l’ulteriore profilo di censura con il quale si contesta l’omessa motivazione sulla questione in esame;

con il quarto motivo di ricorso principale si censura la sentenza per “violazione e falsa applicazione della normativa sugli studi di settore – Sulla mancata motivazione degli avvisi di accertamento – sull’omessa motivazione della sentenza”, per non avere considerato illegittima la pretesa dell’amministrazione finanziaria per avere fatto ricorso all’accertamento fondato sugli studi di settore, avendo effettuato “delle contestazioni per la massa delle movimentazioni finanziarie asseritamente effettuate dalla parte”, senza, tuttavia, avere fornito la prova della “fonte delle giustificazioni richieste ovvero se si è dato cura di accertare se, pur in difformità delle informazioni fornite dalla parte, le somme imputabili al contribuente costituiscono o meno reddito imponibile”;

il motivo è inammissibile;

lo stesso, invero, prospetta solo genericamente ragioni di doglianza in ordine alle modalità di accertamento seguite, dall’amministrazione finanziaria, senza tuttavia specificare se e in quale atto era stata prospettata la questione relativa alla mancanza di adeguate prove giustificative delle richieste o dell’omessa verifica della riconducibilità delle “somme imputabili al contribuente” a reddito imponibile;

peraltro, il motivo di censura in esame non tiene in alcun modo conto dell’accertamento in fatto compiuto dal giudice del gravame, che ha considerato le diverse fasi del procedimento seguito dall’amministrazione finanziaria, in particolare della verifica delle risultanze di bilancio pari a zero e della notevole discordanza dagli studi di settore, che “avevano dato correttamente avvio alle procedure di verifica e contestazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma l, n. 2 e art. 39, comma 1, lett. d)”, nonchè delle indagini finanziarie e delle precise e circostanziate richieste di fornire elementi di prova in ordine alle movimentazioni bancarie operate;

in sostanza, la legittimità della ripresa è stata basata dal giudice del gravame non tanto sulla applicazione degli studi di settore, ma su una serie di elementi presuntivi (reddito pari a zero, operazioni dei conti bancari prive di giustificazione, disponibilità di beni mobili e immobili incompatibili con il reddito dichiarato) rispetto ai quali, come evidenziato, parte ricorrente non ha offerto prova contraria idonea a contrastare la prospettazione di un maggiore reddito non dichiarato;

con tale accertamento in fatto, relativo alla regolarità della procedura (anche endoprocedimentale) seguita nonchè con la pluralità di elementi presuntivi valorizzati, non si confronta in alcun modo il contribuente con il presente motivo di ricorso, prospettando contestazioni, come detto, peraltro generiche, alla regolarità del procedimento di accertamento seguito dall’amministrazione finanziaria, con conseguente inammissibilità del motivo, anche relativamente alla dedotta omessa motivazione; con il quinto motivo di ricorso principale si censura la sentenza per “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58 – Sul divieto di nuove prove (documenti) in appello – Sull’omessa motivazione della sentenza”, in particolare per avere ritenuto che poteva essere prodotta in appello l’autorizzazione per lo svolgimento delle indagini bancarie;

il motivo è inammissibile;

lo stesso, invero, non tiene conto della ratio decidendi della pronuncia censurata che, con specifico riferimento alla questione della produzione in appello della documentazione bancaria in caso di mancanza di autorizzazione, ha precisato che “non appare sussistere alcun obbligo, in capo all’ufficio, di depositare l’atto de quo già nel primo grado di giudizio e, comunque, da tale mancata allegazione non risulta essere derivato alcun nocumento al diritto di difesa del contribuente”;

in realtà, con il suddetto passaggio motivazionale, il giudice del gravame ha evidenziato che la circostanza della mancata produzione della autorizzazione già in primo grado avrebbe, eventualmente, potuto avere rilievo solo ove fosse derivato un pericolo di lesione del diritto di difesa del contribuente;

con il presente motivo di ricorso, parte ricorrente non tiene in alcun modo in considerazione il suddetto passaggio motivazionale della sentenza censurata, limitandosi a prospettare la questione dei limiti della produzione documentale in appello, dunque in modo non conferente con la ragione della decisione, basata, come detto, sulla ragione sostanzialistica della inesistenza, nel caso concreto, di una lesione del diritto di difesa del contribuente in conseguenza della mancata produzione della autorizzazione anche nel giudizio di primo grado;

tale affermazione, peraltro, è in linea con l’orientamento di questa Corte (Cass. civ., 18 aprile 2018, n. 9480; Cass. civ., 10 febbraio 2017, n. 3628; Cass. civ., 14 luglio 2917, n. 17457) secondo cui il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 7), e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 2, subordinano la legittimità delle indagini bancarie e delle relative risultanze all’esistenza dell’autorizzazione (e non anche alla relativa esibizione all’interessato), con la precisazione che eventuali illegittimità nell’ambito del procedimento amministrativo di accertamento diventano censurabili davanti al giudice tributario a condizione che, traducendosi in un concreto pregiudizio per il contribuente, vengano ad inficiare il risultato finale del procedimento e, quindi, l’accertamento medesimo (Cass. civ., 26 settembre 2014, n. 20420; Cass. civ., 21 luglio 2009, n. 16874; Cass. civ. 15 giugno 2007, n. 14023);

il suddetto principio, va osservato, è coerente, da un lato, con il richiamato paradigma normativo, che subordina la presentazione della richiesta al parere del dirigente, dall’altro, con la concezione sostanzialistica dell’interesse del privato alla legittimità del provvedimento amministrativo, espressa, in via generale, dal L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21-octies;

sicchè, una eventuale violazione dell’obbligo di autorizzazione avrebbe potuto assumere rilevanza solo in caso di dimostrazione, da parte del contribuente, della lesione del proprio diritto di difesa, profilo in alcun modo coltivato con il presente motivo di ricorso;

inoltre, questa Corte (Cass. civ., 13 novembre 2018, n. 29087) ha più volte affermato il consolidato principio secondo cui, in tema di contenzioso tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall’art. 345 c.p.c., purchè tale attività processuale sia esercitata, stante il richiamo operato dal medesimo decreto legislativo, art. 61, alle norme relative al giudizio di primo grado, entro il termine previsto dallo dello stesso decreto, art. 32, comma 1, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma 1;

priva di pregio, inoltre, è la questione di illegittimità costituzionale della previsione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, tenuto conto del fatto che la Corte Costituzionale, con la pronuncia 14 luglio 2017, n. 199, ha già dichiarato non fondata la questione sollevata con riferimento alla violazione degli artt. 3 e 24, Cost.;

con riferimento, infine, alla ritenuta violazione dell’art. 111 Cost., proposta sotto il profilo della perdita del doppio grado di giudizio, la stessa è stata esaminata dalla Corte Costituzionale nell’ambito della pronuncia sopra indicata, sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, in particolare è stato evidenziato che “Non sussiste, infine, la dedotta violazione dell’art. 24 Cost. per la perdita di un grado di giudizio: è infatti giurisprudenza pacifica di questa Corte che la garanzia del doppio grado non gode, di per sè, di copertura costituzionale (ex multis, sentenza n. 243 del 2014; ordinanze n. 42 del 2014, n. 190 del 2013, n. 410 del 2007 e n. 84 del 2003);

Sul motivo di ricorso incidentale

con l’unico motivo di ricorso incidentale, si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione degli artt. 2423 e 2426 c.c., per avere ritenuta illegittima la pretesa relativa all’utilizzo della quota del fondo di riserva da rivalutazione;

evidenzia il ricorrente incidentale che la riserva da rivalutazione, costituita a seguito della rivalutazione volontaria dell’immobile detenuto in leasing e poi riscattato, era stato utilizzato in parte per ripianare parzialmente il conto “titolare c/prelevamenti”, nel quale, come è dato evincere dalle scritture contabili, erano indicati tutti i prelevamenti dai conti bancari e dalla cassa della ditta effettuati dal titolare della ditta a titolo personale, rappresentando, in tal modo, un anticipo sugli utili, con conseguenti effetti sul piano fiscale;

il motivo è fondato;

la sentenza censurata ha ritenuto che il fondo “riserva da rivalutazione”, ascritto nello stato patrimoniale del bilancio redatto a fini civilistici in conseguenza del riscatto del capannone industriale detenuto in leasing, costituisce un mero valore numerarlo che non si riflette sul conto economico e, quindi, non determina un reddito di impresa;

la suddetta considerazione, tuttavia, non è corretta;

nella vicenda in esame si evince dall’avviso di accertamento, riprodotto dalla ricorrente incidentale nel controricorso (vd. pagg. 17 e ssgg.), che la società aveva proceduto ad una rivalutazione volontaria del capannone detenuto in leasing a seguito dell’esercizio della facoltà di riscatto, con conseguente creazione, in bilancio, della riserva da rivalutazione, e successivamente, aveva utilizzato la riserva da rivalutazione sia per la coperture di perdite (non oggetto di ripresa) sia per riappianare il conto “titolare c/prelevamenti”, che veniva utilizzato per indicare tutti i prelevamenti dai conti bancari e dalla cassa della ditta effettuati dal titolare a titolo personale procedendo, quindi, a compensare parte della riserva da rivalutazione compensandola con il credito verso terzi;

in linea generale va osservato che la riserva da rivalutazione costituisce una posta di patrimonio netto che si crea come contropartita contabile all’incremento di valore iscritto sui beni rivalutati; si tratta, quindi, di riserve che incorporano un maggior valore che non è effettivamente realizzato, quantomeno fino al momento in cui l’immobile rivalutato non viene venduto o non viene contabilmente ammortizzato, sicchè le stesse, sempre in linea generale, non incidono sul conto economico come componenti positive di reddito;

tuttavia, proprio in quanto la riserva da rivalutazione costituisce una posta ideale di patrimonio, non caratterizzata, al momento dell’iscrizione, dalla possibilità di effettiva monetizzazione, la stessa non poteva essere utilizzata per compensare un credito della ditta nei confronti di terzi, in particolare del titolare che aveva compiuto prelevamenti nel corso del tempo;

l’effetto della operazioni di compensazione, invero, ha comportato non solo l’indebito utilizzo di una posta contabile ideale di patrimonio, ma, in sostanza, il venire meno del credito vantato dalla ditta nei confronti del titolare: in sostanza, attraverso l’operazione di compensazione, ha ridotto il proprio credito vantato nei confronti del medesimo, sicchè tale operazione è ben lungi dal rappresentare, come invece ritenuto dal giudice del gravame, una mera operazione contabile, avendo, invece, assunto, una valenza sostanziale;

invero, i prelevamenti dal conto, di cui è dato riscontro contabile mediante il conto in esame, attengono a importi che, in quanto giacenti nei conti correnti intestati alla ditta, possono essere presuntivamente considerati quali ricavi della ditta, secondo il principio che è da considerarsi ricavo riconducibile all’attività professionale o imprenditoriale del contribuente qualsiasi accredito riscontrato sul conto corrente del medesimo;

in realtà, ove si accerti che, in sostanza, la riduzione della riserva da rivalutazione mediante la compensazione con le risultanze del conto “titolare c/prelevamenti” ha determinato il venire meno, mediante una operazione contabile, di importi ai quali, presuntivamente, deve attribuirsi la qualifica di redditi della ditta, salvo prova contraria, la vicenda va ricondotta nell’ambito di una non consentita utilizzazione della riserva da rivalutazione, in quanto, di fatto correlata ad una distribuzione di utili di cui, ai fini reddituali, occorre necessariamente tenere conto nella determinazione dell’imponibile della ditta;

in conclusione, il primo, terzo, quarto e quinto motivo di ricorso principale sono inammissibili, il secondo è infondato, con conseguente rigetto; è fondato il motivo di ricorso incidentale, con conseguente cassazione della sentenza e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio;

si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale, cassa la sentenza censurata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2021

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