Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34398 del 23/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 23/12/2019, (ud. 20/11/2019, dep. 23/12/2019), n.34398

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 17911/2012 R.G. proposto da

BLACK OILS SPA, rappresentata e difesa dall’avv. Gianni Marongiu,

dall’avv. Angelo Contrino e dall’avv. Francesco d’Ayala Valva,

elettivamente domiciliata in Roma, viale Parioli n. 63, presso lo

studio dell’avv. Angelo Contrino.

– ricorrente, controricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato.

– controricorrente, ricorrente incidentale –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione n. 24, n. 4/24/2012, pronunciata il 13/12/2011,

depositata il 10/01/2012.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 novembre 2019

dal Consigliere Riccardo Guida;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Tommaso Basile che ha chiesto il rigetto del ricorso

principale e il rigetto del ricorso incidentale;

udito l’avv. Angelo Contrino;

udito l’avv. Giammario Rocchitta per l’Avvocatura Generale dello

Stato.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Black Oils Spa ricorre, sulla base di nove motivi, illustrati con una memoria, contro l’Agenzia delle entrate, per la cassazione della sentenza della commissione tributaria regionale della Lombardia, menzionata in epigrafe, con la quale, in controversia concernente l’impugnazione di un avviso di accertamento che recuperava a tassazione IRES, IRAP, per il periodo d’imposta 2005 (fino al 30 giugno), costi e spese indeducibili, in riforma della sentenza di primo grado, e in parziale accoglimento dell’appello principale della Agenzia e dell’appello incidentale della società, sono stati confermati alcuni rilievi dell’atto impositivo, che è stato annullato per il resto.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso, nel quale articola ricorso incidentale, affidato a tre motivi, cui la società resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

a. Preliminarmente, sì osserva che la richiesta della contribuente, formulata nella memoria ex art. 378, c.p.c., di accertare il giudicato interno sul capo della sentenza d’appello che ha annullato il rilievo relativo al: “Disconoscimento della deduzione di costi per asserita violazione dell’art. 103, comma 3, t.u.i.r.” è inammissibile in quanto un simile compito spetta al giudice dell’ottemperanza e non alla Corte di cassazione.

1. Con il primo motivo del ricorso principale (1. Motivazione omessa o apparente (art. 360 c.p.c., n. 5)), la ricorrente censura la sentenza impugnata, nella parte in cui essa ha confermato la legittimità di alcune riprese a tassazione (per indeducibilità di costi) per essere la riproduzione o la mera perifrasi dei motivi d’appello dell’ufficio, e per non avere esaminato le prove, deduzioni, eccezioni e difese offerte dalla contribuente.

1.1. Il motivo è infondato.

In disparte la probabile inammissibilità della censura che, oltre ad essere formulata in termini del tutto generici e indeterminati, è riferita (testualmente) al parametro del n. 5 (vizio di motivazione), ma evoca il parametro del n. 4 (error in procedendo per motivazione apparente), diversamente da quanto prospetta la ricorrente, la commissione regionale ha preso posizione su ciascuna delle riprese oggetto dei motivi d’appello, dando conto, in modo sufficientemente chiaro e conciso, delle ragioni del proprio convincimento.

2. Con il secondo motivo (2. Nullità del procedimento per omessa pronuncia in violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere frainteso il contenuto delle “eccezioni pregiudiziali” che essa aveva formulato, riproposte nei motivi dell’appello (incidentale) e, quindi, per non avere pronunciato su di esse; assume che aveva fatto valere: (a) l’illegittimità dell’avviso d’accertamento in quanto l’ufficio aveva omesso di valutare autonomamente le risultanze del processo verbale di constatazione; (b) l’illegittimità del (propedeutico) procedimento di accertamento con adesione per omesso esame, da parte dell’organo di controllo, delle ragioni della contribuente, da cui scaturiva l’annullabilità dell’atto impugnato.

2.1. Il motivo è infondato.

La quaestio luris prospettata dalla ricorrente trova una risposta, ad essa sfavorevole, nel saldo indirizzo della Corte, secondo cui: “Non è configurabile il vizio di omesso esame di una questione (connessa a una prospettata tesi difensiva) o di un’eccezione di nullità (ritualmente sollevata o rilevabile d’ufficio), quando debba ritenersi che tali questioni od eccezioni siano state esaminate e decise – sia pure con una pronuncia implicita della loro irrilevanza o di infondatezza – in quanto superate e travolte, anche se non espressamente trattate, dalla incompatibile soluzione di altra questione, il cui solo esame comporti e presupponga, come necessario antecedente logico-giuridico, la detta irrilevanza o infondatezza; peraltro, il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione, per la violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte.” (Cass. 24/06/2005, n. 13649; conf.: 28/03/2014, n. 7406; 11/04/2017, n. 9324).

3. Con il terzo motivo (3. Omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. ), la ricorrente assume che l’ufficio aveva ripreso a tassazione, ai sensi dell’art. 164, t.u.i.r.: (a) il 50% delle spese relative a due autovetture aziendali (Audi A8 e Suzuki SJ 410), trattandosi di costì sostenuti per beni non utilizzati esclusivamente come beni strumentali nell’attività dell’impresa; (b) le spese relative al natante “Bemil II” per difetto assoluto di strumentalità dello yacht; riferisce, altresì, che la commissione tributaria provinciale di Milano aveva annullato le riprese relativa alle spese per gli autoveicoli e, al contrario, aveva confermato quella concernente le “spese Bemil II”, quale capo di sentenza oggetto d’appello incidentale da parte della contribuente, respinto dalla CTR.

Imputa alla sentenza impugnata di avere confermato la parziale indeducibilità delle spese relative alle autovetture e la totale indeducibilità di quelle riguardanti il natante, in quanto le autovetture erano utilizzate esclusivamente dal legale rappresentante della società e, a maggior ragione, andava esclusa la strumentalità dello yacht privato, senza minimamente spiegare le ragioni per le quali l’uso di detti beni era stato ritenuto non inerente all’attività d’impresa.

4. Con il quarto motivo (4. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 109, comma 5, e dell’art. 164, comma 1, del t.u.i.r. – approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (art. 360 c.p.c., n. 3)), la ricorrente censura la sentenza impugnata, in relazione alle riprese di cui al precedente “mezzo”, ove la pronuncia abbia accolto contra legem una nozione eccessivamente rigorosa delle spese relative alle autovetture, nel senso di ravvisarne la deducibilità (ai sensi dell’art. 164, comma 1, lett. a), t.u.i.r.), solo nel caso in cui esse attengano a beni senza i quali l’attività d’impresa non possa essere esercitata (per es. le autovetture, per le imprese che esercitano l’attività di autonoleggio).

4.1. Il terzo e il quarto motivo, da esaminare congiuntamente per connessione, sono infondati.

In termini generali, è utile ricordare che, per il consolidato orientamento della Corte (cfr., ex multis, Cass. 30/05/2018, n. 13591, in motivazione; 27/12/2018, n. 33504):

(a) il principio d’inerenza del costo, ai finì della sua deducibilità, è stato ricondotto, sul piano normativo, D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), art. 109, comma 5, (in precedenza, art. 75, comma 5, TUIR) che stabilisce che: “Le spese e gli altri componenti negativi (…) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi.”;

(b) il giudizio sull’inerenza del costo va riferito all’oggetto sociale dell’impresa, nel senso che esso è deducibile se è funzionale alle singole attività sociali o, comunque, se apporta all’impresa un’utilità, obiettivamente determinabile e adeguatamente documentata (Cass. 4/10/2017, n. 23164, ha espresso tale principio in merito alla deducibilità dei costi – ai finì delle imposte dirette e per la detrazione dell’IVA contestualmente assolta – per i servizi resi e per le attività prestate dalla “capofila” a favore delle società appartenenti al medesimo gruppo);

(c) l'”inerenza” non integra un nesso tra costo e ricavo, ma si sostanzia nella correlazione tra costo e attività d’impresa, anche solo potenzialmente capace di produrre reddito imponibile;

(d) in tema d’imposte dirette, l’inerenza del costo (specie nel caso di rapporti infragruppo), ricondotta ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità, è agganciata ai concetti di coerenza e utilità economica, interpretati come indìci della sussistenza o meno dell’inerenza, più che come suoi requisiti essenziali, per così dire, “normativi”. Sicchè, l’ipotetica antieconomicità di una spesa (ad esempio: perchè sproporzionata sul piano quantitativo) va interpretata come un significativo sintomo (come una “spia”) della non inerenza (totale o parziale) e della (conseguente) indeducibilità (anch’essa totale o parziale) del costo (Cass. 27/10/2017, n. 25566);

(e) in materia di determinazione dei redditi d’impresa, l’onere del contribuente di dimostrare l’inerenza dei costi sostenuti sussiste anche per i beni “normalmente necessari e strumentali” all’esercizio dell’attività di impresa.

Nella fattispecie concreta, la commissione regionale ha fatto corretta applicazione di questi principi di diritto e, senza contravvenire all’obbligo di spiegare le ragioni del proprio convincimento, ha qualificato, alla stregua di un accertamento di fatto, i predetti costi (per due autovetture e per uno yacht) indeducibili (in tutto o in parte), per difetto d’inerenza in relazione all’attività svolta dalla società contribuente.

5. Con il quinto motivo (5. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 109, comma 1, del t.u.i.r. – approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (art. 360 c.p.c., n. 3)), la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere accolto l’appello dell’ufficio confermando la ripresa della fattura emessa il 1/02/2007 (di Euro 50.000), dal notaio M.U., per attività di consulenza legale prestata nel 2005/2006, per difetto – nell’anno 2005, nel quale il costo è stato dedotto – dei requisiti della certezza e dell’effettiva obiettività della spesa, dopo che i verificatori avevano trovato la notula proforma del 27/11/2006. Assume, al riguardo, che, in base all’art. 109 cit., comma 1, il requisito della certezza (e un analogo ragionamento vale anche per la determinabilità obiettiva della spesa) è legato all’esistenza del componente reddituale e non agli eventuali riscontri documentali che lo assistono (come, nel caso in esame, la lettera del professionista di quantificazione dell’emolumento).

6. Con il sesto motivo (6. Omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), la ricorrente, in relazione alla ripresa di cui al precedente “mezzo”, critica la carenza di motivazione della sentenza impugnata ove la si debba interpretare nel senso che essa abbia escluso che la lettera del professionista consentisse di determinare obiettivamente i suoi onorari.

6.1. Il quinto e il sesto motivo, da esaminare congiuntamente per connessione, sono infondati.

Al riguardo, è utile rammentare che questa Corte, pronunciandosi in relazione all’art. 75, comma 1, t.u.i.r., (ora 109), ha stabilito che: “In tema di imputazione dei componenti negativi del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 75, comma 1 (nel testo vigente “ratione temporis”), in assenza di diverse disposizioni specifiche, nel caso di incertezza nell'”an” o di indeterminabilità nel “quantum” di detti componenti, si applica, in deroga al generale principio di competenza, il principio di cassa, secondo cui gli stessi possono essere imputati all’esercizio in cui ne diviene certa l’esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare, qualora di tali qualità fossero privi nel corso dell’esercizio di competenza.” (Cass. 24/05/2017, n. 13048);

Inoltre, in base alla stessa norma: “i ricavi, i costi e gli altri oneri sono imputabili nell’esercizio di competenza in cui si è formato il titolo giuridico che ne costituisce la fonte, purchè l’esistenza o l’ammontare degli stessi sia determinabile in modo oggettivo, circostanze, queste ultime, che rientrano, per i componenti positivi, nell’onere probatorio dell’Amministrazione finanziaria e per quelli negativi in quello del contribuente.” (Cass. 9/11/2018, n. 28671).

Nel caso di specie, la commissione regionale, facendo buon governo degli enunciati canoni giuridici e assolvendo al compito di una esaustiva motivazione, ha confermato la legittimità della ripresa sul presupposto che, nell’esercizio di competenza (anno 2005), il detto costo (onorari del notaio M.) – che il professionista aveva soltanto “stimato nel dicembre 2005” – fosse privo dei “caratteri di certezza” (cfr. pag. 2 della sentenza).

7. Con il settimo motivo (7. Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 102, comma 7, del t.u.i.r. – approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – e del D.M. 31 dicembre 1988 (art. 360 c.p.c., n. 3)), la ricorrente premette che l’ufficio aveva accertato l’importo di Euro 251.004,81 relativo a canoni di locazione derivanti da un’operazione di sale and lease back, conclusa con Locafit Spa, in data 14/11/2005, ed avente la durata di 30 mesi, riguardante le attrezzature esistenti in 56 distributori di carburante (acquistati da Shell Italia Spa). Aggiunge che il costo rappresentato dai canoni di leasing è stato ripreso a tassazione perchè dedotto in violazione dell’art. 102, comma 7, t.u.i.r. – il quale prevede che, per l’impresa utilizzatrice, è ammessa la deduzione dei canoni di locazione a condizione che la durata del contratto (riguardante beni mobili) non sia inferiore alla metà del periodo di ammortamento corrispondente al coefficiente stabilito a norma del comma 2) sull’assunto che i canoni di leasing sarebbero stati deducibili dal reddito di impresa a condizione che, nel relativo contratto di locazione finanziaria, fosse stata prevista una durata non inferiore a 4 anni (48 mesi), corrispondenti alla metà del periodo di ammortamento determinato sulla base del coefficiente del 12,50%, stabilito, per le attrezzature specifiche degli impianti di distribuzione stradali, dal D.M. 31 dicembre 1988, in relazione all’attività esercitata da Black Oils Spa. Evidenzia che, invece, il contratto in esame, riguardante le citate attrezzature, prevedeva una durata di 30 mesi.

Tutto ciò premesso, la contribuente imputa alla commissione regionale di avere errato nel confermare l’indeducibilità dei canoni di leasing in quanto (come prospettato dalla ricorrente fin dal primo grado di giudizio) l’aliquota applicabile alle attrezzature oggetto del contratto di locazione finanziaria non era quella del 12,5%, prevista per gli “impianti stradali di distribuzione”, bensì quella del 25%, prevista dalla medesima tabella per le “attrezzature varie”.

7.1. Il motivo è inammissibile.

La censura si appunta contro la ricostruzione della fattispecie negoziale compiuta dalla commissione regionale, a giudizio della quale la locazione finanziaria aveva ad oggetto attrezzature specifiche per stazioni di servizio (erogatori carburante, serbatoi, pensiline, chiosco gestore, apparecchiature per il rifornimento self-service) e non mere attrezzature.

Tale critica, ai fini dell’ammissibilità del mezzo d’impugnazione, avrebbe dovuto essere formulata come violazione delle norme d’ermeneutica contrattuale o come vizio dell’apparato argomentativo della sentenza, come ha ribadito, anche recentemente, questa sezione tributaria, secondo cui: “in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto, affidata al Giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1362 c.c. e ss., pertanto, al fine di far valere una violazione sotto l’due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il Giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (vedi, per tutte: Cass. nn. 27136/2017, 17168/2012, 2011, n. 17717/2011, 13242/2010).”.

8. Con l’ottavo motivo (8. Omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per i giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), la ricorrente censura la sentenza impugnata per essersi limitata da escludere l’inerenza di alcune spese (spese relative ad immobili ritenuti estranei all’attività d’impresa; fatture per Euro 18.360 ed Euro 21.420 per l’attività di consulenza legale dell’avv. Giuseppe Carretto, per un progetto di fusione della Europetrol Srl nella Opam Oils Srl; spese per l’acquisto di riviste, generi alimentari, detersivi, catering e autonoleggio), senza illustrare il percorso logico-giuridico seguito per pervenire ad una simile conclusione.

8.1. Il motivo è infondato.

Diversamente da quanto prospetta la ricorrente, la commissione regionale ha spiegato che: (a) la deducibilità delle fatture dell’avv. Carretto è stata esclusa in quanto la società, gravata del relativo onere probatorio, non aveva dimostrato che detti componenti negativi non fossero di competenza di altri soggetti economici; (b) le spese per l’acquisto di riviste, generi alimentari, detersivi, catering e autonoleggio erano prive del requisito dell’inerenza.

9. Con il nono motivo (9. In via meramente gradata: violazione e/o falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, (art. 360 c.p.c., n. 3)), la ricorrente censura la sentenza impugnata per essersi limitata ad affermare, in merito all’irrogazione delle sanzioni, che non esistevano le condizioni per l’applicazione della citata norma, richiamata dall’appellante, con particolare riferimento all’indeducibilità dei canoni di leasing, che il giudice d’appello aveva affermato non sulla base dell’interpretazione di norme di legge, bensì sulla base della qualificazione di un elemento tabellare oggetto di rinvio normativo.

9.1. Il motivo è infondato.

In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, la Corte ha già avuto modo di affermare il principio di diritto in virtù del quale: “l’incertezza normativa oggettiva che – ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8; del D.Lgs. n. 18 dicembre 1997, n, 4726, comma 2; della L. 2 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, – costituisce causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, richiede una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ovverosia l’insicurezza ed equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento d’interpretazione normativa, riferibile non già ad un generico contribuente, o a quei contribuenti che per la loro perizia professionale siano capaci di interpretazione normativa qualificata (studiosi, professionisti legali, operatori giuridici di elevato livello professionale), e tanto meno all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (cfr. Cass. 28/11/2007, n. 24670; 16/02/2012, n. 2192; 26/10/2012, n. 18434; 11/02/2013, n. 3245; 22/02/2013, n. 4522). In altre parole, come è stato detto, “l’incertezza normativa oggettiva tributaria”, che consente di non applicare le sanzioni, “è la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effetto dell’azione di tutti i formanti del diritto, tra cui in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione normativa, e che è caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sè ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie ultima o, se si tratta del giudice di legittimità, del fatto di genere già categorizzato dal giudice di merito”, quindi in “senso oggettivo” (con conseguente esclusione di “qualsiasi rilevanza sia delle condizioni soggettive individuali sia delle condizioni soggettive categoriali” atteso che “l’incertezza normativa, in quanto esiste in sè, opera nei confronti di tutti”): “l’incertezza normativa oggettiva”, pertanto, “non ha il suo fondamento nell’ignoranza giustificata, ma nell’impossibilità, abbandonato lo stato d’ignoranza, di pervenire comunque allo stato di conoscenza sicura della norma giuridica tributaria” (Cass. 11/09/2009, n. 19638). Inoltre, trattandosi di un’esimente prevista dalla legge a favore del contribuente, l’onere di allegare la ricorrenza di siffatti elementi di confusione, qualora effettivamente esistenti, grava sul contribuente secondo le regole generali in materia di onere della prova (art. 2697c.c.).” (Cass. 7/12/2017, n. 29368).

Nella fattispecie, la commissione regionale ha negato la sussistenza di una simile incertezza normativa oggettiva (cfr. pag. 5 della sentenza: “non si ravvisano (…) particolari dubbi interpretativi delle disposizioni applicabili”); del resto, la ricorrente nemmeno ha menzionato specifici e rilevanti contrasti giurisprudenziali sul punto.

10. Con il primo motivo del ricorso incidentale (1) Sul disconoscimento della deduzione di spese: Violazione e falsa applicazione dell’art. 102 del TUIR (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.) Nullità della sentenza (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) Omessa o apparente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)), l’Agenzia censura la sentenza impugnata per avere annullato la ripresa riguardante le spese di manutenzione e riparazione, sostenute per i punti vendita (gli impianti di distribuzione della società), sul presupposto che esse fossero deducibili nei limiti del 5% del costo complessivo di tutti i beni ammortizzabili, ai sensi dell’art. 102, comma 6, t.u.i.r., senza avere indicato gli elementi probatori dai quali la commissione regionale aveva evinto che i costi dedotti rispettassero il limite del 5%.

10.1. Il motivo è inammissibile.

La doglianza in esso contenuta (come rilevato dalla contribuente, nel controricorso a ricorso incidentale) non risulta essere stata dedotta nel giudizio di merito; al riguardo è opportuno ricordare che, secondo l’orientamento pacifico di questa Corte, i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in cassazione questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase del merito e non rilevabili d’ufficio (Cass. 26/03/2012, n. 4787).

La parte, per evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice del merito, ma anche di indicare in quale atto del precedente giudizio lo abbia fatto, onde consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminarne il merito (Cass. 16/06/2017, n. 15029; 31/01/2006, n. 2140).

11. Con il secondo motivo (2) Sul disconoscimento della deduzione di costi: Violazione e falsa applicazione dell’art. 108, comma 3, del Tuir (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), l’Agenzia censura la sentenza impugnata per avere annullato la ripresa riguardante la deduzione di spese (Euro 21.416,00) per attività professionali svolte dall’arch. L.G. e dal geom. C.N., senza considerare che, trattandosi di spese relative a più esercizi, ai sensi dell’art. 108, comma 3, t.u.i.r., esse erano deducibili nei limiti della quota imputabile a ciascun esercizio.

11.1. Il motivo è infondato.

L’art. 108, comma 3, t.u.i.r., (“Spese relative a più esercizi”), nella formulazione ratione temporis vigente, così statuiva: “3. Le altre spese relative a più esercizi, diverse da quelle considerate nei commi 1 e 2, sono deducibili nel limite della quota imputabile a ciascun esercizio. Le medesime spese, non capitalizzabili per effetto dei principi contabili internazionali, sono deducibili in quote costanti nell’esercizio in cui sono state sostenute e nei quattro successivi.”.

La norma faceva implicito riferimento ai costi ad utilizzazione pluriennale, menzionati dall’art. 71, comma 3, del previgente D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597 (Istituzione e disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), il quale prevedeva che: “Ogni altro costo ad utilizzazione pluriennale è deducibile nel limite della quota imputabile a ciascun periodo d’imposta.”.

Al riguardo, l’art. 2426 c.c. (“Criteri di valutazione”), ratione temporis vigente, stabiliva che: “5) i costi di impianto e di ampliamento, i costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità aventi utilità pluriennale possono essere iscritti nell’attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale e devono essere ammortizzati entro un periodo non superiore a cinque anni.”.

In relazione a tale categoria di costi, è utile ricordare l’indirizzo di questa Corte (Cass. 11/01/2006, n. 377), al quale s’intende dare continuità, in difetto di valide ragioni ostative, desumibili dal tenore della difesa erariale, secondo cui: “In tema di determinazione del reddito d’impresa, l’art. 2426 c.c. (nel testo applicabile nella specie “ratione temporis”), prevedendo che le spese di impianto e di ampliamento possono estinguersi mediante ammortamento annuale “entro un periodo non superiore a cinque anni”, individua il quinquennio come periodo massimo di ammortamento, senza però prevedere alcun periodo minimo, restando perciò salva la facoltà della società di estinguere le spese stesse in un periodo più breve ovvero anche in un solo anno.”.

In altri termini, in forza di questo articolo, tali costi possono essere iscritti nel conto economico, come componenti negative del reddito, nell’esercizio in cui sono stati sostenuti, o, alternativamente, sulla base di una scelta dell’imprenditore, fondata su criteri di discrezionalità tecnica, possono essere capitalizzati, in vista del loro ammortamento quinquennale, commisurato all’utilità del bene (cfr., sul punto, Cass. 14/03/2018, n. 6288).

Nella specie, la commissione regionale, annullando la ripresa, ha fatto corretta applicazione del precedente principio di diritto.

12. Con il terzo motivo (3) Sul disconoscimento della deduzione di costi: Violazione e falsa applicazione dell’art. 110 comma 1 lett. b del Tuir (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) Nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) Omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)), l’Agenzia censura la sentenza impugnata per avere annullato le seguenti tre riprese:

(a) spese sostenute per la progettazione di un nuovo capannone e per consulenza tecnica legata a tale progetto; (b) compensi pagati a Fapa Engineering Srl per attività di assistenza varia in alcuni impianti di distribuzione e al geom. C.N. per l’attività professionale svolta per l’adeguamento normativo di un immobile; (c) compensi pagati allo studio legale prof. A., per la consulenza legale per la partecipazione a una gara per l’utilizzo di un terreno demaniale, e allo studio legale associato De Sanctis, per la consulenza prestata nella negoziazione volta alla compravendita di un ramo d’azienda;

limitandosi a recepire acriticamente la tesi della contribuente, senza indicare le norme e i principi contabili che legittimavano la deducibilità dei costi.

12.1. Il motivo è infondato.

Diversamente da quanto prospetta l’Agenzia, la commissione regionale ha spiegato, con sufficiente chiarezza, le ragioni dell’annullamento delle tre riprese, vale a dire che: la spesa sub a) non poteva essere accessoria al capannone che – nel 2005 – non esisteva; le spese di consulenza sub b), da ricondurre alla categoria delle spese di manutenzione ordinaria, erano immediatamente deducibili, nei limiti del 5%, ai sensi dell’art. 102, comma 6, t.u.i.r.; le spese di consulenza sub c) erano immediatamente deducibili, non essendo legate da un nesso di strumentalità all’eventuale utilizzo (rispettivamente) del terreno oggetto dell’appalto o del compendio aziendale.

13. In conclusione, il ricorso principale e quello incidentale vanno rigettati.

14. Le spese del giudizio di legittimità si debbono compensare, tra le parti, per la loro reciproca soccombenza.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; compensa, tra le parti, le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2019

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