Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34391 del 23/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 23/12/2019, (ud. 09/07/2019, dep. 23/12/2019), n.34391

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2091-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– Ricorrente –

contro

AXA ASSICURAZIONI SPA;

– intimata –

Nonchè da:

AXA ASSICURAZIONI SPA, in persona e1 Direttore e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE

GIULIO CESARE 14 A-4, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE

PAFUNDI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

ALBERTO GAFFURI, GIANFRANCO GAFFURI, giusta procura a margine;

– controricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 136/2012 della COMM.TRIB.REG. di MILANO,

depositata il 01/10/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/07/2019 dal Consigliere Dott. ANDREA VENEGONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto procuratore Generale Dott.

UMBERTO DE AUGUSTINIS che ha concluso per l’accoglimento dei

ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato GENTILI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso principale;

udito per controricorrente incidentale l’Avvocato GAFFURI che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso incidentale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La società Axa Assicurazioni spa presentava istanza di rimborso, D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38, delle maggiori imposte Ires ed Irap asseritamente versate in eccedenza, in relazione alla mancata deducibilità del costo rappresentato da una sanzione subita ad opera dell’Autorità Garante della Concorrenza e del mercato per abuso di posizione dominante.

A seguito del silenzio rifiuto dell’ufficio, la società lo impugnava davanti alla CTP di Milano che accoglieva il ricorso, ritenendo il costo inerente all’attività di impresa.

L’ufficio appellava la sentenza e la CTR della Lombardia rigettava l’appello.

Per la cassazione di quest’ultima sentenza ricorre a questa Corte l’Agenzia delle Entrate sulla base di due motivi.

Resiste la società con controricorso, e propone ricorso incidentale condizionato. La stessa società deposita memoria del 20.6.2019.

RAGIONI DELLA DECISIONE

In via preliminare la società eccepisce l’improcedibilità del ricorso dell’ufficio ex art. 369 c.p.c., per non avere quest’ultimo depositato entro venti giorni dalla notifica la copia autentica della sentenza impugnata con la notifica.

L’eccezione è infondata.

Dagli atti appare, infatti, che, compiuta la notifica l’8.1.2013, la copia notificata e la copia della sentenza impugnata sono state depositate in data 25.1.2013, e quindi nel rispetto del termine di venti giorni.

Con il primo motivo l’ufficio deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 1 e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 38, nonchè dell’art. 2423-bis c.c., nn. 3 e 4 e della L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 15, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

La CTR avrebbe errato nel ritenere tempestiva l’istanza di rimborso, atteso che l’anno di imposta in relazione al quale considerare la tempestività dell’istanza di rimborso (datata 9.7.2008) avrebbe dovuto essere quello della irrogazione della sanzione, e cioè l’anno 2000, e non l’anno 2005, preso a riferimento dalla società, essendo l’anno dell’esaurirsi dei ricorsi giurisdizionali contro la sanzione stessa.

Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 5, della L. 10 ottobre 1990, n. 287, artt. 2 e 15, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3

La CTR ha errato laddove ha ritenuto il costo inerente all’attività di impresa.

E’ opportuno analizzare preliminarmente il secondo motivo, che si pone come logicamente antecedente al primo, perchè, in caso di accoglimento dello stesso, e di riconoscimento della non deducibilità della somma in questione, si supera il problema della tempestività della domanda di rimborso. Infatti tutte le questioni sulla certezza del costo ai fini della tempestività della domanda di rimborso presuppongono che il costo sia inerente. Se non è inerente, e non deducibile, diventa irrilevante disquisire se e quando esso debba considerarsi certo ai fini della domanda di rimborso, perchè la indeducibilità fa sì che la domanda di rimborso non sia meritevole di accoglimento.

In questo senso, il secondo motivo è, in effetti, fondato.

Questa Corte è ormai prevalentemente orientata nel senso di negare la sussistenza di qualsiasi nesso di inerenza fra le sanzioni amministrative pecuniarie, aventi funzione repressiva e preventiva, e la produzione del reddito d’impresa.

In particolare, sez. V, n. 5050 del 2010 (relativa a sanzioni antitrust), ha affermato la funzione punitivo-repressiva della sanzione e respinta la loro deducibilità onde evitarne lo svilimento. Tale orientamento è stato confermato da sez. V, n. 8135 del 2011 e n. 18368 del 2012.

A differenza quindi delle sanzioni contrattuali che sono state ritenute deducibili (sez. V, n. 16561 del 2017), quelle amministrative con funzione punitivo-repressiva non appaiono tali.

Tale conclusione, alla quale questo Collegio intende aderire, è stata ribadita anche di recente da questa Corte.

Addirittura, Sez. V, n. 30238 del 2018, è giunta a tale conclusione anche in merito a sanzioni qualificate come “civili” e non “amministrative”, ed in particolare quelle per ritardato versamento di contributi INPS, ritenendo che le stesse non siano comunque deducibili perchè, in tal modo, “verrebbe svilita proprio la funzione coercitiva della sanzione”.

Sez. V, n. 32465 del 2018, in merito a sanzioni analoghe a quelle della presente causa, e cioè emesse dall’Autorità garante della concorrenza, ha affermato, con considerazioni che questo Collegio condivide:

questa Corte intende adeguarsi al consolidato orientamento per cui sono indeducibili gli importi corrisposti a titolo di sanzione pecuniaria irrogata dall’Autorità garante in materia di tutela della concorrenza e del mercato (disciplina antitrust), in quanto la sanzione è circostanza che non influisce sulla nascita della obbligazione tributaria, derivando da attività, non solo autonoma ed esterna rispetto al corretto esercizio dell’impresa, ma antitetica a questa, non potendosi qualificare come fattore produttivo. Pertanto, tale sanzione non costituisce costo deducibile dal reddito di impresa, perchè diversamente si neutralizzerebbe interamente la ratio punitiva della penalità, controbilanciandola con un corrispondente risparmio di imposta che, in quanto espressione della violazione di normativa imperativa, si rivelerebbe del tutto ingiustificato (Cass.Civ., 3 marzo 2010, n. 5050; Cass.Civ., 3 febbraio 2011, n. 2594). Pertanto, le sanzioni sono prive di nesso funzionale con l’attività imprenditoriale, avendo una finalità repressiva del comportamento illecito; originano dalla reazione dell’ordinamento fondata sulla legge; costituiscono un costo per cui non è possibile configurare, neanche indirettamente, alcun rapporto funzionale con i ricavi realizzati. Insomma, l’illecito commesso “spezza”, in ogni caso, il nesso di inerenza, in quanto “la spesa non nasce più nell’impresa”, ma in un atto o fatto, quello antigiuridico, che per sua natura si pone al di là della sfera aziendale (Cass. Civ., 8135/2011).

Non valgono a orientare questo Collegio in una diversa direzione le considerazioni espresse dalla società in memoria.

Non è condivisibile l’argomento secondo il quale, proprio perchè il comportamento anti-concorrenziale genera maggiori ricavi, e la sanzione tende a punire proprio il conseguimento (non lecito) degli stessi, questa deve ritenersi direttamente correlata ad essi, e quindi inerente.

Anche rifacendosi al principio di diritto enunciato da sez. V, n. 450 del 2018, citata dalla resistente a proprio favore, è da escludersi che un comportamento illecito rientri nel concetto di inerenza secondo il “giudizio qualitativo oggettivo” proclamato dalla suddetta decisione, atteso che quest’ultima afferma che vanno esclusi da tale giudizio “i costi che si collocano in una sfera estranea all’esercizio dell’impresa”.

Per cui va rigettata l’idea che un costo rappresentato da una sanzione per un comportamento illecito, tenuto volontariamente e consapevolmente, si collochi nella sfera dell’esercizio ordinario dell’impresa, essendo piuttosto estraneo ad essa, atteso che l’esercizio dell’impresa certamente non prevede condotte illecite.

La condotta illecita crea una frattura con l’attività di impresa che rende i costi relativi estranei ad essa proprio da un punto di vista qualitativo, ed anche per evitare la situazione, che sarebbe paradossale proprio alla luce dell’invocato art. 53 Cost., per cui la commissione di un illecito diventi addirittura fiscalmente conveniente, permettendo la deducibilità del relativo costo in quanto afferente, in senso ampio, all’attività di impresa.

Del resto, trasferendo il discorso su altra scala, e con la premessa che non si tratta della medesima fattispecie, il principio secondo cui la consapevolezza, nello svolgimento dell’impresa, di compiere attività illecite non deve determinare vantaggi fiscali, è affermato più volte anche da questa Corte, per esempio riguardo a costi si riferiscano all’acquisto di beni o servizi che vengono direttamente utilizzati come “mezzo” o “strumento” per commettere un delitto (sez. VI n. 17788 del 2018, sez. V n. 13800 del 2014, sez V n. 26461 del 2014).

L’accoglimento del secondo motivo determina quindi l’assorbimento del primo.

Inoltre, l’accoglimento comporta ulteriormente che la sentenza impugnata deve essere cassata, ma, trattandosi di questione di puro diritto che non richiede alcun ulteriore accertamento di fatto, non occorre rinviare la causa al giudice di merito, potendosi decidere la stessa, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., in questa sede. In tal senso, in virtù delle considerazioni di cui sopra, il ricorso originario proposto dal contribuente deve essere rigettato perchè il diniego di rimborso dell’ufficio era legittimo, non essendo la somma in questione deducibile.

In sede di ricorso incidentale condizionato, la società deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 1 (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4) per aver la Commissione regionale deciso su un’eccezione nuova proposta in appello dall’ufficio.

La CTR ha errato laddove non ha considerato inammissibile l’eccezione sulla tardività della domanda di rimborso perchè proposta dall’ufficio per la prima volta solo in appello.

Anche questo motivo resta, evidentemente, assorbito dall’accoglimento del secondo motivo sulla indeducibilità del costo, che determina l’irrilevanza di ogni questione anche processuale – attinente alla tempestività della domanda di rimborso.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Sono, pertanto, a carico del ricorrente originario, il contribuente, e tenuto conto del valore della causa, si liquidano in Euro 22.000, oltre alle spese prenotate a debito.

Sussistono, invece, giusti motivi per compensare le spese delle fasi di merito.

P.Q.M.

accoglie il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso originario.

Dichiara assorbito il primo motivo del ricorso principale ed il motivo del ricorso incidentale.

Condanna il contribuente, ricorrente originario, al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 22.000, oltre alle spese prenotate a debito.

Compensa tra le parti le spese delle fasi di merito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2019

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