Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3437 del 14/02/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 3437 Anno 2014
Presidente: SEGRETO ANTONIO
Relatore: FRASCA RAFFAELE

SENTENZA

sul ricorso 5038-2012 proposto da:
MINISTERO DELL’INTERNO 80185690585, in persona del
Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA
GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope
legis;
– ricorrente –

2013
contro

8722

COMPAGNIA TIRRENA ASSICURAZIONI SPA IN LIQUIDAZIONE
COATTA AMINISTRATIVA, in persona del Commissario
Liquidatore,
AMMINISTRATIVA,

SPA

SIDA
in

IN
persona

LIQUIDAZIONE
del

COATTA

Commissario

Data pubblicazione: 14/02/2014

Liquidatore, elettivamente domiciliate in ROMA, PIAZZA
DEL FANTE 2, presso lo studio dell’avvocato PALMERI
GIOVANNI, che le rappresenta e difende giuste procure
a margine di pag. l e 2 del controricorso;
– controri correnti –

FINSERVICE SRL IN LIQUIDAZIONE;
– intimata –

avverso la sentenza n. 1670/2011 della CORTE D’APPELLO
di ROMA del 19/01/2011, depositata il 18/04/2011;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 07/11/2013 dal Consigliere Relatore Dott.
RAFFAELE FRASCA;
udito l’Avvocato Palmeri Giovanni difensore delle
controricorrenti che si riporta agli scritti e
deposita massima;
è presente il P.G. in persona del Dott. ANTONIETTA
CARESTIA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

nonchè contro

R.g.n. 5038-12 (ud. 7.11.2013)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

§1. Con sentenza del 18 aprile 2011 la Corte di Appello di Roma ha rigettato
l’appello proposto dal Ministero dell’Interno contro la Compagnia Tirrena di Assicurazioni
s.p.a. in 1.c.a., la SIDA s.p.a. e la s.r.l. Finservice, avverso la sentenza del 7 aprile 2005,
con la quale il Tribunale di Roma — investito della domanda nell’aprile 2001 – l’aveva
condannato a risarcire alle dette società i danni da liquidarsi in separato giudizio dall’aver

continuato, nonostante la finita locazione, l’occupazione di porzioni di immobili siti in
Roma delle quali le società erano proprietarie e che erano state condotte dal Ministero in
locazione, così impedendo la tempestiva esecuzione di opere di straordinaria manutenzione
e determinando il deterioramento delle porzioni immobiliari.
Tale condanna generica era stata disposta dal Tribunale dopo che le società attrici
all’udienza di precisazione delle conclusioni avevano modificato la loro originaria
domanda, tendente ad ottenere la condanna al risarcimento del danno in senso pieno e,
quindi, con la sua liquidazione, limitandola alla richiesta di condanna generica e chiedendo
“liquidarsi in separato giudizio” il danno. Il Tribunale, nel motivare la sua decisione
reputava pienamente ammissibile la modificazione in senso limitativo della domanda,
assumendo che essa era stata tacitamente accettata dal Ministero convenuto, che non vi
aveva fatto espressa opposizione.
§2. La Corte capitolina ha confermato la sentenza di primo grado, per quanto ancora
in questa sede interessa, rigettando la seconda doglianza del Ministero, incentrata sulla
deduzione che la condanna generica non avrebbe potuto emettersi. All’uopo ha motivato
<>.
§2. L’esame dei due motivi può procedere congiuntamente stante la stretta
connessione delle questioni che essi pongono.
I motivi sono fondati, là dove censurano la sentenza impugnata per avere rigettato il
motivo di appello del Ministero diretto a censurare la sentenza del Tribunale, perché essa di fronte alla limitazione della domanda in sede di precisazione delle conclusioni, da parte
delle società attrici, al profilo del solo an debeatur e, quindi, alla richiesta di condanna
generica con abbandono di quella di condanna piena originariamente formulata – ebbe a
ritenere che la limitazione avesse avuto l’effetto di conchiudere legittimamente l’ambito
della decisione, in ragione della mancata opposizione alla riduzione da parte del Ministero.
La fondatezza dei due motivi, peraltro, non dipende dalla condivisione del percorso
argomentativo in iure che risulta dalle ragioni giuridiche sulla base delle quali in essi è
stata prospettata l’erroneità della sentenza di appello quanto al rigetto del motivo di
appello, il secondo, con cui il Ministero aveva sostenuto sia che la limitazione alla sola
condanna generica avrebbe dovuto essere da esso accettata, sia che comunque essa sarebbe
stata inammissibile perché effettuata oltre i termini per il potere di modificare la domanda
ai sensi dell’art. 183 c.p.c., nonché, conseguentemente, che la domanda delle società, in
ragione dell’inammissibilità della limitazione, avrebbe dovuto decidersi nel suo originario
tenore di domanda iena e rigettarsi per mancanza di prova dei danni.
.

§2.1. La fondatezza in iure della dai motivi discende, infatti da un percorso
argomentativo che questa Corte, nell’affrontare la questione da essi posta, deve compiere
nell’esercizio del potere di individuare l’esatto diritto applicabile alla vicenda che la
questione pone.
A ciò la Corte è legittimata dal principio di diritto secondo cui, <> (così Cass. n. 6935 del 2007; in senso
conforme per l’affermazione dello stesso principio Cass, n. 10841 del 2012 con riferimento
ad altra fattispecie).
§2.2. Le ragioni giuridiche che comportano l’accoglimento della questione nel caso
di specie si collocano, invero, a monte del problema dell’atteggiamento tenuto dal
convenuto di fronte al comportamento dell’attore che, dopo aver proposto una domanda di
condanna al risarcimento piena la limiti al solo profilo della condanna generica e pretenda,
quindi, di riservare a separata sede il giudizio sul quantum debeatur.
Ritiene il Collegio, infatti, che il problema dell’atteggiamento del convenuto di
fronte a siffatto comportamento dell’attore, mentre poteva assumere rilievo nel regime
processuale anteriore alle modifiche del processo civile introdotte dalla 1. n. 353 del 1990 e
successive modifiche sia divenuto, invece, del tutto irrilevante nel regime processuale
successivo a detta legge.
Nel regime antecedente alle modifiche introdotte da detta legge, infatti, la rilevanza
degli atteggiamenti delle parti in ordine alla verificazione nel processo delle poche
preclusioni previste, sia sotto il profilo degli oneri di allegazione e, quindi, di
individuazione della domanda e dei fatti rilevanti per la decisione, sia dei fatti in senso
principale (eccezioni e contro eccezioni), sia di quelli in senso secondario (rilevanti in
funzione solo probatoria), era dominata dal potere dispositivo delle parti, che si ammetteva
6
Est. Cons. Rffae1e Frasca

R.g.n. 5038-12 (ud. 7.11.2013)

potesse intervenire sulle stesse preclusioni ricollegate, quasi in chiusura del processo, al
momento della precisazione delle conclusioni, tanto che la stessa mutato libelli o la
proposizione di una domanda nuova in quella sede, in mancanza di reazione della
controparte, venivano considerate idonee a determinare il dovere decisorio del giudice,
esclusa la possibilità da parte sua di rilevare l’inosservanza della regola preclusiva espressa
allora nell’art. 184 c.p.c.
Ciò, dà spiegazione del perché nella giurisprudenza della Corte la modificazione

della domanda in senso limitativo espressa nel passaggio dalla domanda di condanna piena
ad una di condanna generica risultasse apprezzata sulla base dell’atteggiamento tenuto dal
convenuto.
§2.3. Sulla premessa, avallata e precisata definitivamente dalle Sezioni Unite nella
sentenza n. 12103 del 1995 (di seguito si vedano Cass. n. 85 del 1999 ed ancora di recente
Cass. n. 25510 del 2011), nel senso che fosse ben possibile un’iniziale domanda di
condanna generica dell’attore salva la possibilità che il convenuto potesse pretenderne
l’estensione in senso pieno (il principio di diritto era il seguente: <>; nel medesimo senso Cass. n. 25242 del 2006 e Cass. n. 21228 del 2007.
La soluzione della rilevabilità d’ufficio della violazione delle preclusioni è ferma
anche per le eccezioni: è stato statuito, infatti, che «Il regime di preclusioni introdotto nel
rito civile ordinario riformato deve ritenersi inteso a tutela non solo dell’interesse di parte
ma anche dell’interesse pubblico al corretto e celere andamento del processo, con la
conseguenza che la decadenza per il mancato rispetto, da parte del convenuto, del termine

perentorio, di cui all’art. 180, secondo comma, cod. proc. civ., per la proposizione delle
eccezioni processuali e di merito, deve essere rilevata d’ufficio dal giudice,
indipendentemente dall’atteggiamento processuale della controparte al riguardo.>> (Cass.
n. 11318 del 2005; si veda anche Cass. n. 6532 del 2006).
§3.2. Ebbene, una volta assunta la premessa che nel regime processuale del processo
civile imperniato sulle preclusioni siccome introdotte dalla 1. n. 353 del 1990
l’atteggiamento della controparte non ha alcuna rilevanza, ai fini del possibile superamento
di una preclusione e segnatamente di quella al potere di modifica della domanda, che opera
sempre in forza dell’art. 183 c.p.c. nelle varie versioni succedutesi e che determina che la
precisazione delle conclusioni, come emerge dall’art. 189 c.p.c., debba essere fatta
comunque nei limiti delle conclusioni formulate a norma dell’art. 183 c.p.c. (salva,
naturalmente, eventuale attività legittimata da una rimessione in termini, ora in generale
prevista dal secondo comma dell’art. 153 c.p.c. e salva, altresì, la legittimità di quanto
giustificato da circostanze sopravvenute, come tali esorbitanti dal principio di preclusione),
risulta palese che un’attività di modificazione della domanda come quella sottesa
all’abbandono da parte dell’attore di una richiesta di decisione su una domanda di
condanna in senso pieno e dalla limitazione al solo profilo della condanna generica,
qualora sia compiuta all’udienza stessa di precisazione delle conclusioni, risulta
inammissibile perché effettuata in violazione del regime delle preclusioni al potere di
modificazione della domanda previsto dal testo dell’art. 183 c.p.c., applicabile ratione

temporis al processo (cioè quella antecedente alla riforma di cui al citato d.l. 35 del 2005
. per il presente giudizio) ed è altrettanto evidente che tale inammissibilità dev’essere
rilevata d’ufficio e non è elisa in alcun modo da un atteggiamento di acquiescenza espressa
o tacita del convenuto. Ne deriva che, se la detta modifica in senso limittivo viene
effettuata, tanto se non via sia opposizione espressa o tacita (per comportamento
concludente significativo) del convenuto, quanto se il convenuto resti silente sul punto,
quanto se l’opposizione vi sia, il giudice è tenuto a rilevare che la modifica dev’essere
11
Est. Cons. Rtffae1e Frasca

R.g.n. 5038-12 (ud. 7.11.2013)

considerata tamquam non esset e, dunque, deve pronunciare sulla domanda di condanna in
senso pieno e non sulla domanda per come ridimensionata.
Ove il giudice non rilevi d’ufficio la violazione del principio di preclusione e decida
sulla domanda per come limitata, cioè soltanto sulla condanna generica, riservando a
separato giudizio l’accertamento del quantum, si verifica, invece, l’illegittimità della
sentenza. E, poiché la nullità è stata determinata dal comportamento del giudice di mancato
esercizio del potere di rilevazione d’ufficio, il convenuto bene può dedurla con

l’impugnazione della decisione. E ciò, non solo nel caso che egli si fosse opposto e la sua
eccezione alla limitazione sia stata disattesa dal giudice i sede di decisione, ma anche se
aveva accettato tacitamente od espressamente la limitazione all’an debeatur oppure era
rimasto silente di fronte ad essa.
Invero, nel caso di accettazione tacita od espressa o di silenzio, poiché la nullità della
sentenza non è derivata dal comportamento del convenuto, sia pure implicante il mancato
rilievo della nullità derivante dalla violazione del principio di preclusione, bensì dalla
pronuncia della sentenza da parte del giudice senza rilevazione di quella nullità, possibile
anche in sede decisoria, non può ritenersi che la deduzione della nullità della sentenza gli
sia preclusa ai sensi del terzo comma dell’art. 157 c.p.c., cioè come se egli vi avesse dato
causa oppure avesse espressamente o tacitamente rinunciato. La ragione si rinviene nel
fatto che il comportamento di mancata rilevazione della nullità, in sostanza, non è quello
che ha determinato la nullità della sentenza, che è, viceversa, derivata dal mancato
esercizio del potere di rilevazione d’ufficio, che poteva essere esercitato con la sentenza
stessa e che, dunque, assume il rilievo di vero e proprio atto causativo della nullità.
Semmai l’atteggiamento di consenso espresso o tacito del convenuto, che poi
impugni la sentenza pentendosi di esso, potrà valutarsi dal giudice dell’impugnazione ai
sensi del primo comma dell’art. 92 c.p.c.
§3.3. Le esposte considerazioni impongono, dunque, in accoglimento dei due motivi,
la cassazione della sentenza sulla base dei seguenti principi di diritto: «Nell’ipotesi in cui
l’attore abbia proposto una domanda di condanna piena e in sede di precisazione
delle conclusioni la limiti al solo profilo della condanna generica, si verifica una
modificazione della domanda in senso riduttivo che, nel regime delle preclusioni
introdotte dalla legge n. 353 del 1990 dev’essere ritenuta inammissibile. Poiché la
violazione delle preclusioni e segnatamene quella dei limiti temporali del potere di
modificare la domanda nel detto regime è rilevabile d’ufficio dal giudice, la
modificazione dev’essere ritenuta inammissibile tanto se il convenuto la eccepisca,
12
Est. Cons. taffaele Frasca

R.g.n. 5038-12 (ud. 7.11.2013)

quanto se il convenuto ometta di farlo, quanto se assuma un atteggiamento di
accettazione espressa o tacita della modificazione. Il mancato rilievo
dell’inammissibilità da parte del giudice e la pronuncia della condanna generica
. determinano una nullità della sentenza deducibile in sede di impugnazione da parte
del convenuto, ancorché egli in sede di precisazione delle conclusioni no abbia
eccepito l’inammissibilità della limitazione alla condanna generica o l’abbia
espressamente o tacitamente accettata, poiché tale atteggiamento non può essere

apprezzato ai sensi del terzo comma dell’art. 157 c.p.e.>>.
Inoltre, in generale, il Collegio ritiene opportuno affermare il seguente principio di
diritto: <

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