Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34299 del 15/11/2021

Cassazione civile sez. trib., 15/11/2021, (ud. 23/09/2021, dep. 15/11/2021), n.34299

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29062/2018 proposto da:

Comune Di Priolo Gargallo, in persona del sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in Roma Via Sestio Calvino 33 presso lo

studio dell’avvocato Cannas Luciana che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Trovato Sergio Alvaro;

– ricorrente –

contro

F.lli C. Srl, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Tacito 90 presso lo

studio dell’avvocato Vaccaro Giuseppe che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 863/2018 della COMM. TRIB. REG. SICILIA

SEZ.DIST. di SIRACUSA, depositata il 20/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del

23/09/2021 dal consigliere Dott. MILENA BALSAMO.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il Comune di Priolo Gargallo ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza della CTR della Sicilia n. 863/2018, depositata il 20.02.2018, con la quale si affermava che, anche il locale destinato a deposito di 700 mq, indicato come tale nella dichiarazione Tarsu del contribuente relativa all’annualità 20092010, produceva rifiuti speciali non assimilabili a quelli urbani esclusi dalla tassazione, in considerazione dell’attività di lavorazione di materiali ferrosi industriali, svolta dalla società, come previsto dal medesimo regolamento comunale all’art. 31 e tenuto conto che i rifiuti erano smaltiti a cura della ricorrente attraverso impresa autorizzata.

2. La società F.lli C. s.r.l. e C.A. resistono con controricorso e memorie di cui all’art. 380 bis c.p.c., depositate il 6 settembre 2021.

Il Comune ricorrente ha depositato nota con documenti.

Il P.G. ha concluso istando per il rigetto del ricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

3. Con il primo motivo l’ente comunale denuncia la violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 62, 64, 66 e 70, del regolamento comunale approvato con Delib. n. 91 del 1996, art. 31, nonché del D.Lgs. n. 22 del 1987, artt. 7 e 21, formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3); per avere i giudici regionali assimilato il deposito-magazzino all’opificio ove si svolge l’attività industriale di lavorazione di materiale ferroso.

Si afferma al riguardo che i rifiuti prodotti in locali diversi dall’opificio non possono essere considerati diversi da quelli urbani alla luce dell’art. 62 cit., il quale stabilisce che la tassa è dovuta per l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibito.

In aggiunta, l’amministrazione comunale di Priolo Gargallo richiama il regolamento comunale con il quale sono stati assimilati ai rifiuti urbani i rifiuti speciali non pericolosi (Delib. consiliare n. 91 del 1996).

4. Con il secondo motivo, il Comune denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3), sostenendo che incombeva sul contribuente l’onere di presentare la dichiarazione di variazione o rettifica, dimostrando che anche nel magazzino si producevano residui ferrosi tossici.

5. In via preliminare i contribuenti hanno dedotto nelle memorie difensive che, con ordinanza n. 13184/2019 emessa tra le medesime parti in controversia affine relativa all’annualità 2011, questa Corte aveva respinto il ricorso dell’amministrazione comunale, la quale aveva omesso di trascrivere in quel ricorso od allegare ad esso il regolamento comunale di assimilazione dei rifiuti speciali e dall’altra, la Corte aveva dato atto della regolare presentazione della denuncia da parte della società contribuente; circostanze queste che sono rimaste estranee al caso di specie.

Inoltre, la Corte in quella occasione ha applicato alla fattispecie il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 195, comma 2, lett. e, il quale prevede che non possono essere di norma assimilati ai rifiuti urbani i rifiuti che si formano nelle aree produttive, compresi i magazzini di materie prime e di prodotti finiti, salvo i rifiuti prodotti negli uffici, nelle mense, negli spacci, nei bar e nei locali al servizio dei lavoratori o comunque aperti al pubblico.

5.1 Sennonché, la ricognizione normativa della fattispecie evidenzia, sul punto, innanzitutto che il D.Lgs. n. 22 del 1999, art. 49, ha istituito (art. 49) la tariffa di igiene ambientale (cd. TIA 1) che, nel disegno del legislatore, avrebbe dovuto sostituire la TARSU. L’articolo appena richiamato ha disposto, al comma 1, la soppressione della TARSU (istituita dal D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 58 e ss.) “a decorrere dai termini previsti dal regime transitorio, disciplinato dal regolamento di cui al comma 5” e ha previsto, al comma 5, che il Ministro dell’ambiente, di concerto con il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato (sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano) dovesse elaborare “un metodo normalizzato per definire le componenti dei costi e determinare la tariffa di riferimento, prevedendo disposizioni transitorie per garantire la graduale applicazione del metodo normalizzato e della tariffa, ed il graduale raggiungimento dell’integrale copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani da parte dei comuni.”. L’atto regolamentare in questione è stato adottato col D.P.R. n. 158 del 1999, il cui art. 11 ha previsto un regime transitorio (anche per effetto di successive modifiche normative) così articolato: “Gli enti locali sono tenuti a raggiungere la piena copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani attraverso la tariffa entro la fine della fase di transizione della durata massima così articolata: a) sette anni per i comuni che abbiano raggiunto nell’anno 1999 un grado di copertura dei costi superiore all’85%; b) sette anni per i comuni che abbiano raggiunto un grado di copertura dei costi 3 tra il 55 e l’85%; c) otto anni per i comuni che abbiano raggiunto un grado di copertura dei costi inferiore al 55%; d) otto anni per i comuni che abbiano un numero di abitanti fino a 5000, qualunque sia il grado di copertura dei costi raggiunto nel 1999”.

La soppressione della TARSU non ha comportato, quindi, l’immediata abrogazione della relativa disciplina istitutiva ma – secondo il cennato regime transitorio – detta imposta rimaneva in vigore (con la conseguente disciplina regolamentare adottata dai Comuni, ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 68) almeno sino al 19 giugno 2006 (il D.P.R. n. 158 del 1999, è stato pubblicato sulla gazzetta ufficiale n. 129 del 4 giugno 1999 e, come appena sopra ricordato, il termine più breve istituito dal regime transitorio prevedeva una durata di almeno 7 anni).

5.2 Detto regime transitorio, peraltro, non è stato portato a compimento, in quanto col D.Lgs. n. 152 del 2006 (pubblicato sulla gazzetta ufficiale del 14 aprile 2006) il legislatore è intervenuto nuovamente sulla materia, disponendo la soppressione della TIA 1, istituita col D.Lgs. n. 22 del 1997. Il D.Lgs. n. 152 del 2006, ha in particolare previsto che: – “La tariffa di cui al D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 49, è soppressa a decorrere dall’entrata in vigore del presente articolo, salvo quanto previsto dal comma 11.” (D.Lgs. cit., art. 238, comma 1); – “Sino alla emanazione del regolamento di cui al comma 6 e fino al compimento degli adempimenti per l’applicazione della tariffa continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti” (D.Lgs. cit., art. 238, comma 11); – in particolare, il D.L. n. 208 del 2008, art. 5, comma 2 quater, convertito dalla L. n. 13 del 2009, ha disposto che, “Ove il regolamento di cui al D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 238, comma 6, non sia adottato dal Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare (entro il 30 giugno 2010), i comuni che intendano adottare la tariffa integrata ambientale (TIA) possono farlo ai sensi delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti.”, – è abrogato “il D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22. Al fine di assicurare che non vi sia alcuna soluzione di continuità nel passaggio dalla preesistente normativa a quella prevista dalla parte quarta del presente decreto, i provvedimenti attuativi del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 cit., continuano ad applicarsi sino alla data di entrata in vigore dei corrispondenti provvedimenti attuativi previsti dalla parte quarta del presente decreto” (D.Lgs. cit., art. 264, comma 1, lett. 1)). In relazione ad analoghe controversie, questa Corte ha avuto modo di rilevare che – alla stregua della sopra ripercorsa sequenza normativa “il Regolamento adottato con la Delib. cons. com. 30 maggio 2006, istitutiva della TIA 1 “in via sperimentale” si colloca temporalmente in una fase della trasformazione della disciplina fiscale in cui, stante la mancata adozione del regolamento attuativo di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 238, comma 6, i Comuni che già erano passati dalla TARSU alla TIA 1 potevano continuare ad applicarla, essendo tale sistema tariffario destinato ad operare sino alla adozione della disciplina attuativa prevista dal Codice dell’Ambiente, così come i Comuni che tale opzione non avevano effettuato, potevano continuare ad applicare la TARSU – i cui criteri di determinazione sono stati peraltro estesi alla TIA – ma era loro precluso di passare alla “tariffa” prevista dal Decreto Ronchi, ormai destinata ad essere sostituita dalla “tariffa” del Codice dell’Ambiente, intesa come “corrispettivo” del servizio prestato e, pertanto, necessitante di un’apposta regolamentazione (mai intervenuta)”, aggiungendo che, pertanto, detta delibera (adottata, si ribadisce, il 30 maggio 2006) “con cui è stata istituita la tariffa di igiene ambientale prevista dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, così determinandosi il passaggio dalla Tarsu alla Tia, è illegittima in quanto sin dal 29 aprile 2006 non era più in vigore la tariffa ambientale e sino alla emanazione delle norme attuative del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, istitutivo della TIA 2, era consentito ai Comuni di continuare ad applicare le discipline regolamentari vigenti, da intendersi quali fonti secondarie di determinazione della tariffa stessa, tra le quali le delibere che gli enti locali avessero già adottato ai sensi del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, art. 49, comma 6” (v. Cass., Sez. 5, n. 11212/2020; Cass. n. 8650 del 2019; Cass., Sez. 5, n. 34283 del 2018; Cass., Sez. 5, n. 31286 del 2018; Cass., Sez. 5, n. 23820; Cass., Sez. 5, n. 17271 del 2017).

Pertanto, si è prevista per gli Enti locali che, inutilmente decorso il termine più volte richiamato, essi hanno la facoltà di adottare delibere di passaggio dalla TARSU alla TIA 2, con effetto dal 10 gennaio 2011 (Cass. Cass., 04/12/2018, n. 31286; Cass., 13/07/2017, n. 17271). Detto regolamento, come già evidenziato, non è stato mai adottato, mentre la L. n. 25 del 2010, ha consentito ai Comuni, a decorrere dal 2011, di istituire la Tia2 sulla base delle disposizioni legislativi e regolamentari vigenti.

L’art. 195, comma 2, lett e), disponeva (comma abrogato dal D.L. n. 201 del 2011) la non assimilazione dei rifiuti urbani ai rifiuti che si formano nelle aree produttive, salve talune eccezioni (rifiuti che si formano nei bar, etc). Questa disposizione, tuttavia, secondo l’orientamento consolidato della dottrina e della giurisprudenza, non esplica ancora i suoi effetti, in quanto la L. finanziaria del 2007, al comma 184, lett. b, ha stabilito che, nelle more della completa attuazione del codice dell’ambiente, in materia di assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani, continua a trovare applicazione le disposizioni del D.Lgs. n. 22 del 1997, artt. 18 e 57. E si e’, in particolare, rimarcato che alcun riflesso potevano produrre, su di un siffatto quadro regolativo, le disposizioni di proroga del termine per la deliberazione del bilancio di previsione da parte degli enti locali, posto che dette disposizioni non conferivano (anche) il potere “di deliberare il passaggio dalla Tarsu” ad una tassa (la Tia 1) già soppressa (v., in particolare, Cass., Sez. 5, n. 31286 del 2018 e Cass., Sez. 5, n. 23820 del 2018; Cass., Sez. 5, n. 17271 del 2018).

Come ribadito più volte da questa Corte, il servizio di raccolta dei rifiuti è un servizio di interesse generale al cui mantenimento tutti devono concorrere anche perché tra i costi fissi sono inclusi anche i costi di raccolta dei rifiuti esterni e della pulizia delle strade, di cui beneficiano tutte le utenze comunali.

Ritiene, quindi, il collegio di dare continuità alla soluzione interpretativa in discorso che – contrariamente alla diversa opzione interpretativa pur emersa (minoritariamente) nella giurisprudenza della Corte (v. Cass., Sez. 5, n. 1999 del 2019; Cass., Sez. 5, n. 33424 del 2018), – condivisibilmente correla, alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 152 del 2006 (29 aprile 2006), la cessazione dello stesso regime transitorio delineato dal D.P.R. n. 158 del 1999, art. 11, posto che, con la soppressione della tariffa di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 49, le clausole di salvaguardia avevano ad oggetto (solo) le discipline regolamentari “vigenti” (art. 238, comma 11, cit.), ed i “provvedimenti attuativi del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22” (art. 264, comma 1, lett. i), cit.).

In difetto di una chiara voluntas legis di segno contrario (nel segno cioè della ultrattività), dunque, oltre ai regolamenti “vigenti” e ai “provvedimenti attuativi del D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22”, sopra richiamati, nessun regime transitorio, correlato all’istituzione della TIA 1, poteva residuare, all’indomani della soppressione di tale tassa; né poteva trovare applicazione il codice dell’ambiente per le annualità 2009-2010, oggetto della presente controversia.

6. Tanto premesso sull’applicabilità del codice dell’ambiente, la questione del giudicato impone di prendere le mosse dai principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 13916 del 16 giugno 2006. La Corte ha affermato che “Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo” e che “tale efficacia, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio dell’autonomia dei periodi d’imposta, in quanto l’indifferenza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un determinato periodo rispetto ai fatti che si siano verificati al di fuori dello stesso, oltre a riguardare soltanto le imposte sui redditi ed a trovare significative deroghe sul piano normativo, si giustifica soltanto in relazione ai fatti non aventi caratteristica di durata e comunque variabili da periodo a periodo (ad esempio, la capacità contributiva, le spese deducibili), e non anche rispetto agli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi d’imposta (ad esempio, le qualificazioni giuridiche preliminari all’applicazione di una specifica disciplina tributaria), assumono carattere tendenzialmente permanente”.

Tale principio, ribadito anche dalle Sezioni Unite della Cassazione con la successiva sentenza n. 26482 del 17 dicembre 2007, richiede che entrambe le cause, tra le stesse parti, abbiano dunque ad oggetto un medesimo titolo negoziale o un medesimo rapporto giuridico e che una di esse sia stata definita con sentenza passata in giudicato; in tal caso, l’accertamento compiuto in merito ad una situazione giuridica o la risoluzione di una questione di fatto o di diritto incidente su un punto decisivo comune ad entrambe le cause o costituente indispensabile premessa logica della statuizione contenuta nella sentenza passata in giudicato, precludono l’esame del punto accertato e risolto, anche nel caso in cui il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo e il petitum del primo (Cass., sez. 3, 16/05/2006, n. 1365; Cass., sez. 3, 24/03/2006, n. 6628).

I contribuenti invocano la estensione del giudicato esterno formatosi nel precedente giudizio (concernente l’anno d’imposta 2011), fra le stesse parti definito con sentenza di questa Corte – sopra citata – che, pronunciandosi sulla questione della applicazione della Tarsu, ha affermato la nullità dell’avviso di accertamento – in quanto, secondo la loro prospettazione, si tratterebbe della “medesima questione”, riproposta anche nel presente giudizio, e, dunque, comune ad entrambi i giudizi.

La tesi difensiva dei contribuenti non è condivisibile, in quanto, nella specie, non può ravvisarsi alcun vincolo di giudicato determinato dalla sentenza della Corte n. 13184/2018, in relazione all’interpretazione giuridica della norma tributaria, vale a dire del codice dell’ambiente, ritenuta dai giudici di legittimità applicabile alla fattispecie sottoposta al loro esame.

Infatti, l’attività interpretativa delle norme giuridiche compiuta dal Giudice, in quanto consustanziale allo stesso esercizio della funzione giurisdizionale, non può mai costituite limite alla attività esegetica esercitata da altro giudice, dovendosi richiamare a tale proposito il distinto modo in cui opera il vincolo determinato dalla efficacia oggettiva del giudicato ex art. 2909 c.c. rispetto a quello imposto, in altri ordinamenti giuridici, dal principio dello stare decisis (cioè del precedente giurisprudenziale vincolante) che non trova riconoscimento nell’attuale ordinamento processuale (Cass., sez. 5, 21/10/2013, n. 23723; Cass., sez. 5, 15/07/2016, n. 14509; n. 15215/2021, in motiv.).

Ne discende che la interpretazione ed individuazione della norma giuridica posta a fondamento della pronuncia – salvo che su tale pronuncia si sia formato il giudicato interno – non limitano il giudice dell’impugnazione o di legittimità nel potere di individuare ed interpretare la norma applicabile al caso concreto e non sono, quindi, suscettibili di passare in giudicato autonomamente dalla domanda o dal capo cui si riferiscono, assolvendo ad una funzione meramente strumentale rispetto alla decisione (Cass., sez. 1, 29/04/1976, n. 1531; Cass., sez. L, 23/12/2003, n. 19679; Cass., sez. 3, 20/10/2010, n. 216561).

6.La due censure – che possono essere congiuntamente esaminate in quanto involgono questione connesse – sono fondate.

Rappresenta un principio consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte quello secondo il quale, in tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, spetta al contribuente l’onere di fornire all’Amministrazione comunale i dati relativi all’esistenza e alla delimitazione delle aree in cui vengono prodotti rifiuti speciali non assimilati a quelli urbani (da lui smaltiti direttamente, essendo esclusi dal normale circuito di raccolta), che pertanto non concorrono alla quantificazione della superficie imponibile, in applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, posto che, pur operando anche nella materia in esame il principio secondo il quale spetta all’amministrazione provare i fatti che costituiscono fonte dell’obbligazione tributaria (nella specie, l’occupazione di aree nel territorio comunale), per quanto attiene alla quantificazione del tributo, grava sull’interessato (oltre all’obbligo di denuncia ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 70) un onere di informazione, al fine di ottenere l’esclusione delle aree sopra descritte dalla superficie tassabile, ponendosi tale esclusione come eccezione alla regola generale, secondo cui al pagamento del tributo sono astrattamente tenuti tutti coloro che occupano o detengono immobili nel territorio comunale (Cass. n. 4 21250 del 2017, conf. Cass. n. 4766 del 2004, Cass. n. 17703 del 2004, Cass. n. 13086 del 2006, Cass. n. 17599 del 2009, Cass. n. 775 del 2011).

La disamina del primo motivo del ricorso del ricorso relativo alle violazioni di legge dedotte esige una – sia pur breve – ricostruzione del quadro normativo vigente ratione temporis – D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, capo 3 e dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (cd. decreto Ronchi), e successive modificazioni nel quale si colloca la fattispecie in esame (Tia anno 2007).

Con il primo è stata istituita la tassa per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, svolto in regime di privativa dai comuni (art. 58); è stata disciplinata la attivazione del servizio, di raccolta e di smaltimento, prevedendo che se il servizio di raccolta, sebbene istituito ed attivato, non è svolto nella zona di esercizio dell’attività dell’utente, o è effettuato in grave violazione delle prescrizioni del relativo regolamento, il tributo è dovuto in misura ridotta (art. 59); circa il presupposto della tassa, è stato previsto che la stessa “e’ dovuta per l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa nei modi previsti dagli artt. 58 e 59”, e che “nella determinazione della superficie tassabile non si tiene conto di quella parte di essa ove per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione si formano, di regola, rifiuti speciali, tossici o nocivi, allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori stessi in base alle norme vigenti. Ai fini della determinazione della predetta superficie non tassabile il comune può individuare nel regolamento categorie di attività produttive di rifiuti speciali tossici o nocivi alle quali applicare una percentuale di riduzione rispetto alla intera superficie su cui l’attività viene svolta” (art. 62, commi 1 e 3).

Il D.Lgs. n. 22 del 1997, emanato in attuazione delle Direttive 91/156/CEE sui rifiuti, 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio, ha previsto, nel Titolo I (“Gestione dei rifiuti”), che: i comuni “effettuano la gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento in regime di privativa”; con appositi regolamenti stabiliscono, fra l’altro, “le disposizioni necessarie a ottimizzare le forme di conferimento, raccolta e trasporto dei rifiuti primari di imballaggio”, nonché “l’assimilazione per qualità e quantità dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani ai fini della raccolta e dello smaltimento” (tale potere di assimilazione è divenuto pienamente operante a seguito dell’abrogazione della L. n. 146 del 1994, art. 39, ad opera della L. n. 128 del 1998, art. 17); la privativa suddetta “non si applica (….) alle attività di recupero dei rifiuti assimilati” (dal 1^ gennaio 2003), “alle attività di recupero dei rifiuti urbani o assimilati”, ai sensi della L. n. 179 del 2002, art. 23) (art. 21, comma 1, comma 2, lett. e) e g) e comma 7).

Il successivo Titolo 2 (specificamente dedicato alla “gestione degli imballaggi”), premesso che la gestione degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio è disciplinata “sia per prevenirne e ridurne l’impatto sull’ambiente ed assicurare un elevato livello di tutela dell’ambiente, sia per garantire il funzionamento del mercato e prevenire l’insorgere di ostacoli agli scambi, nonché distorsioni e restrizioni alla concorrenza”, ai sensi della citata direttiva 94/62/CE (art. 34, comma 1), ha disposto la distinzione in imballaggi primari, secondari e terziari disciplinandone il trattamento.

Ora, nel caso di specie, risulta incontroverso che il Comune abbia assimilato ai rifiuti urbani quelli speciali, con ciò avvalendosi del potere di assimilazione previsto dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 21, comma 2 lett. g, norma che consentiva l’assimilazione per qualità e quantità dei rifiuti speciali non pericolosi ai rifiuti urbani ai fini della raccolta e dello smaltimento sulla base dei criteri fissati dallo Stato con Delib. 27 luglio 1984 (punto 1.1.1. lett. a).

Ciò non comporta, però, che tali categorie di rifiuti siano, di per sé, esenti dalla TARSU, ma che ad esse si applica la disciplina stabilita per i rifiuti speciali, che è quella dettata dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, il quale rapporta la tassa alle superfici dei locali occupati o detenuti, stabilendo l’esclusione dalla tassa della sola parte della superficie in cui, per struttura e destinazione, si formano esclusivamente i rifiuti speciali (Cass. n. 5377 del 30.11.2011; Cass. n. 9731 del 8.4.2015).

Per quanto riguarda i prodotti ferrosi, questa Corte ha recentemente precisato che “i residui prodotti in un deposito o magazzino non possono essere considerati residui del ciclo di lavorazione, per cui risulta ininfluente che possano essere qualificati o meno come rifiuti assimilati agli urbani”. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la esenzione o riduzione delle superfici tassabili deve intendersi limitata a quella parte di esse su cui insiste l’opificio vero e proprio, perché solo in tali locali possono formarsi rifiuti speciali, per le specifiche caratteristiche strutturali relative allo svolgimento dell’attività produttiva, mentre in tutti gli altri locali destinati ad attività diverse, i rifiuti devono considerarsi urbani per esclusione, salvo che non siano classificati rifiuti tossici o nocivi, e la superficie di tali locali va ricompresa per interno nell’ambito della superficie tassabile (uffici, depositi, servizi ecc.)(Cass. n. 26725 del 2016).

Inoltre, in tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), grava sul contribuente l’onere di dimostrare la sussistenza delle condizioni per beneficiare delle esenzioni previste dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, commi 2 e 3, per quelle aree detenute, od occupate, che, in ragione di specifiche caratteristiche strutturali o di destinazione, non producono rifiuti o producono rifiuti speciali (smaltiti dallo stesso produttore a proprie spese), in quanto il principio secondo cui spetta all’Amministrazione provare la fonte dell’obbligazione tributaria non si estende alla dimostrazione della spettanza o meno delle esenzioni, le quali costituiscono eccezioni alla regola generale della debenza del tributo da parte di tutti coloro che occupano, o detengono, immobili nel territorio comunale (cfr. Cass. nn. 7548/2021; n. 10634/2019, 4961/2018, 11351/2012).

La regola, dunque, è che, ai fini della determinazione della superficie tassabile, non deve tenersi conto “di quella)arte di essa ove per specifiche caratteristiche strutturali o per destinazione si formino, di regola, rifiuti speciali, tossici o nocivi”, fatto salvo l’esercizio del potere di assimilazione del Comune per quanto riguarda i rifiuti speciali, richiedendo la legge, ai fini dello scorporo delle superfici da quelle tassabili, sia l’esistenza di caratteristiche strutturali o di destinazione del locale, sia il fatto che in esso si producano “di regola” rifiuti speciali, requisito quest’ultimo che non è integrato dalla mera occasionalità o possibilità, ma presuppone che il rifiuto speciale costituisca il prodotto normale e ordinario dell’attività ivi svolta.

Alla luce di tali, stringenti prescrizioni normative, è allora evidente che non tutti i rifiuti prodotti anche nelle aree adiacenti allo stabilimento produttivo hanno in sé la natura di rifiuti speciali in quanto le aree magazzino sono “asservite o funzionali alla produzione industriale”.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la esenzione o riduzione delle superfici tassabili deve intendersi limitata a quella parte di esse su cui insiste l’opificio vero e proprio, perché solo in tali locali possono formarsi rifiuti speciali, per le specifiche caratteristiche strutturali relative allo svolgimento dell’attività produttiva, mentre in tutti gli altri locali destinati ad attività diverse, i rifiuti devono considerarsi urbani per esclusione, salvo che non siano classificati rifiuti tossici o nocivi, e la superficie di tali locali va ricompresa per interno nell’ambito della superficie tassabile (uffici, depositi, servizi ecc.), inoltre tale classificazione costituisce accertamento di fatto, riservato al giudice del merito” (Cass. n. 26725 del 2016).

Va ribadito quanto affermato da questa Corte con sentenza n. 26725 del 2016, secondo cu “In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), un’area che non sia destinata a lavorazioni artigianali e dunque alla produzione di rifiuti speciali, ma sia usata come magazzino di rifiuti prodotti in altri locali dell’unico complesso aziendale, va compresa nel calcolo della superficie tassabile, ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, atteso che i residui prodotti in un deposito o magazzino non possono essere considerati residui di un ciclo di lavorazione” (v. Cass. n. 19720 del 2010; n. 3800/2018).

L’impossibilità di produrre rifiuti deve dipendere da fattori oggettivi e permanenti e non dalla contingente e soggettiva modalità di utilizzazione dei locali. Questa Corte ha precisato, difatti, che: ” La situazione che legittima l’esonero si verifica allorquando l’impossibilità di produrre rifiuti dipende dalla natura stessa dell’area o del locale, ovvero dalla loro condizione di materiale ed oggettiva inutilizzabilità ovvero dal fatto che l’area ed il locale siano stabilmente, e cioè in modo permanente e non modificabile, insuscettibili di essere destinati a funzioni direttamente o indirettamente produttive di rifiuti. La funzione di magazzino, deposito o ricovero è invece una funzione operativa generica e come tale non rientra nella previsione legislativa” (Cass. n. 19720 del 2010). Al riguardo, questa Corte, con sentenza n. 2814 del 2005 ha esplicitamente affermato che “i magazzini, qualora siano destinati al ricovero di beni strumentali o delle scorte da impiegare nella produzione o nello scambio, concorrono all’esercizio dell’impresa e vanno perciò riguardati come aree operative, al pari degli stabilimenti o dei locali destinati alla vendita”.

Va aggiunto che, nella fattispecie, non si vede sotto quale profilo l’adibizione dell’area a deposito merci potrebbe farlo considerare escluso dalla possibilità di produrre rifiuti, trattandosi di un’area adibita a deposito (di materiale ferroso, presumibilmente) per la quale la normativa non contempla alcuna ipotesi di esenzione (v. Cass. 2017/26637).

La CTR, contravvenendo al principio di diritto sopra affermato ha rilevato che in predetto magazzino si producevano rifiuti speciali non assimilabili (materiale ferroso) sottoposti ad auto-smaltimento, senza dare atto di quali fossero in concreto gli elementi da cui si era tratto il proprio convincimento in ordine al fatto che tale sito fosse improduttivo di rifiuti solidi urbani.

Il ricorso va, dunque, accolto e l’impugnata decisione va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia in diversa composizione.

PQM

La Corte di Cassazione:

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata con rinvio alla CTR della Sicilia in diversa composizione, che deciderà anche in merito alle spese di lite del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale della sezione tributaria, della Corte di cassazione tenuta da remoto, il 23 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2021

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