Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34282 del 23/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 23/12/2019, (ud. 05/11/2019, dep. 23/12/2019), n.34282

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. DI Paola Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 8898/2013 R.G. proposto da

NICA Immobiliare s.r.l., in persona del legale rappresentante

N.S., che agisce anche in proprio, e C.G.,

rappresentati e difesi, in via disgiunta, dall’Avv. Umberto Santi e

dall’Avv. Enrico Tonolo, elettivamente domiciliati presso lo studio

dell’Avv. Maria Chiara Morabito, in Roma, Via Flaminia Vecchia n. 5,

giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro-tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12 è domiciliata;

– controricorrente-

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del

Veneto, n. 72/05/2012 depositata l’8 ottobre 2012.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 5 novembre 2019

dal Consigliere Luigi D’Orazio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. Stanislao De Matteis, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento dei motivi primo, quarto e quinto ed il rigetto dei

restanti motivi

udito l’Avv. Umberto Santi, per la società ricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.La Commissione tributaria regionale del Veneto accoglieva l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Treviso, che aveva accolto il ricorso proposto dalla Nica Immobiliare s.r.l. e dai soci C.G. e N.S., avverso gli avvisi di accertamento Ires emessi dalla Agenzia delle entrate nei confronti della società, a ristretta compagine partecipativa, e dei soci, con riferimento alla vendita di quattro appartamenti, nell’anno 2005. In particolare, per l’Agenzia delle entrate gli appartamenti erano stati venduti ad un prezzo superiore a quello risultante dai contratti di compravendita, come emergeva dalla inattendibilità delle rimanenze, dalla incongruenza con i valori di mercato desunti da riviste specializzate, dalla successiva rivendita di uno degli appartamenti ad Euro 160.00,00 cinque anni dopo (Euro 2.000 al mq), nel 2010, rispetto al prezzo di Euro 129.000, relativo al 2005.

Il giudice di appello evidenziava che tra gli elementi indiziari doveva essere considerato anche l’importo dei mutui contratti dalle parti acquirenti, come pure la differenza di prezzo tra immobili simili, l’antieconomicità della attività, le vendite sottocosto.

2.Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società, depositando anche memoria scritta.

3.Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo di impugnazione la società ed i soci deducono “omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, Omessa pronuncia sui due avvisi Irpef emessi nei confronti dei soci: i Giudici di secondo grado non si avvedono che tra gli atti impugnati figurano anche due avvisi di accertamento per Irpef dei soci. Omessa pronuncia sulle specifico motivo di ricorso Irpef, rimasto assorbito in primo grado e debitamente riproposto in secondo grado”, in quanto, in realtà, l’Agenzia delle entrate aveva emesso un avviso di accertamento (OMISSIS) nei confronti della società, per il 2005, e due avvisi di accertamento nei confronti di ciascuno dei due soci ((OMISSIS) e (OMISSIS)) entrambi solo per Irpef, per redditi derivanti quali soci della Nica Immobiliare, a ristretta base partecipativa (50 % per ciascun socio).L’intestazione della sentenza in cui risultavano avvisi per Irap nei confronti dei soci è errata. Il motivo di appello proposto dai soci relativo alla quantificazione dell’imponibile Irpef, rimasto assorbito in primo grado, ma riproposto in appello, non è stato affrontato.

2.Con il secondo motivo di impugnazione i ricorrenti si dolgono della “quantificazione dell’imponibile dei soci, oltre che dell’omessa pronuncia di cui

al paragrafo 1.3 a pagina 34, è altresì viziata laddove in violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 47, in realtà quantifica l’imponibile dell’asserito dividendo presuntivamente distribuito con il criterio di quantificazione dei redditi riversi (art. 67 Tuir) anzichè con il criterio di calcolo dell’art. 47 Tuir. Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 47 (art. 360 c.p.c., n. 3)”, in quanto ai sensi dell’art. 47 Tuir, gli utili concorrono alla formazione del reddito imponibile complessivo limitatamente al 40 per cento del suo ammontare e l’attribuzione a ciascun socio di un maggior imponibile, ai fini Irpef, pari al 50 % dei maggiori ricavi asseritamente accertati in capo alla società determinerebbe un’errata ed illegittima duplicazione di imposta. La società può distribuire ai soci gli utili che, in base al bilancio, sono stati effettivamente conseguiti.

2.1. I motivi primo e secondo, che vanno trattati congiuntamente per ragioni di connessione, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Invero, con l’accoglimento integrale dell’appello proposto dalla Agenzia delle entrate e con il rigetto dei “ricorsi introduttivi del giudizio proposti da Nica Immobiliare s.r.l. e C.G. e N.S.”, il giudice di appello ha confermato per intero gli avvisi di accertamento emessi nei confronti della società e dei soci, sì che ogni ragione di doglianza è stata rigettata implicitamente.

Infatti, per questa Corte (Cass., n. 29191/2017) non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo. Il motivo relativo alla “insufficiente motivazione” è, peraltro, inammissibile, in quanto la sentenza del giudice di appello è stata depositata I’8-10-2012, quanto era ormai applicabile il nuovo vizio di motivazione, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in vigore per le sentenze depositate a decorrere dall’11-9-2012. I ricorrenti, quindi, avrebbero dovuto censurare il vizio di motivazione deducendo l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti, e non con la critica alla “insufficiente motivazione”.

Va, poi, evidenziato che il riferimento nella intestazione all’Irap per quanto concerne i redditi dei soci ed i relativi avvisi di accertamento emessi nei loro confronti configura solo un errore materiale, che non impinge sulla correttezza della motivazione e della decisione della controversia.

Inoltre, trattandosi, nella specie, di società a ristretta base partecipativa (due soci al 50 % della Nica Immobiliare s.r.l.), si rileva che per questa Corte è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà del contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti (Cass., 5076 del 2011; Cass., n. 9519 del 2009; Cass., 7564 del 2003; Cass., 18 ottobre 2017, n. 24534), non essendo comunque a tal fine sufficiente la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili (Cass., 22 novembre 2017, n. 27778).

Tale principio è stato completato precisandosi che la presunzione di distribuzione degli utili extrabilancio può essere vinta dal contribuente fornendo la dimostrazione della propria estraneità alla gestione e conduzione societaria (Cass., n. 1932/2016; Cass., 17461/2017; Cass., 26873/2016; Cass., 9 luglio 2018, n. 18042; Cass., 27 settembre 2018, n. 23247).

Nella specie la prova della estraneità dei soci alla gestione societaria non è stata fornita, essendo gli stessi gli unici due soci al 50 % della stessa.

Non è in alcun modo applicabile, quindi, il disposto di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 47, che attiene alla tassazione degli utili distribuiti ai soci, con delibere formali dell’assemblea, ma non trova applicazione per i redditi extracontabili, non menzionati nella contabilità societaria.

L’art. 47 Tuir (“salvi i casi di cui all’art. 3, comma 3, lett. a), gli utili distribuiti in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione dalle società…,

anche in occasione della liquidazione, concorrono alla formazione del reddito imponibile complessivo limitatamente al 40 per cento del loro ammontare”)

riguarda la modifica attuata al Tuir con il D.Lgs. n. 344 del 2003, sicchè il sistema impositivo degli utili da partecipazione è stato caratterizzato dall’abrogazione del metodo del credito d’imposta sui dividendi e del sistema di imputazione e dall’adozione di un sistema di parziale esclusione della tassazione degli utili, al fine di mitigare gli effetti della doppia imposizione economica, in quanto gli utili distribuiti sono stati già tassati in capo alla società che li ha prodotti. Al contrario, nel caso in esame, trattandosi di utili “in nero”, mai pervenuti nella contabilità societaria, è chiaro che non vi è alcun obbligo di mitigare una doppia imposizione che non v’è mai stata, non avendo la società mai dichiarato tali utili extracontabili.

3.Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “omessa motivazione in ordine alle difese dei contribuenti (art. 360 c.p.c., n. 5)”, in quanto delle quattro presunzioni indicate nella sentenza di secondo grado, perchè contenute nell’avviso di accertamento, nessuna è stata sottoposta alle critiche delle difese dei contribuenti. In particolare, l’avviso di accertamento, richiamato nella sentenza di appello, faceva riferimento ai mutui ed alla “differenza con l’importo del mutuo contratto dalle parti acquirenti” (rubricato sub 1.1. a pagina 34 del ricorso per cassazione). Tra l’altro, in motivazione si fa riferimento alla “presunzione grave precise e concordanti”, con un sintomatico errore nell’aggettivo “grave”, al singolare, anzichè “gravi” al plurale. Non sono state esaminate le difese dei ricorrenti in relazione al “valore di beni di analoghe caratteristiche desunto da stampa specializzata” (rubricato sub 1.2. a pagina 35 del ricorso per cassazione). Le riviste specializzate non erano a conoscenza dei contribuenti. Con riferimento al “prezzo di rivendita di un altro dei quattro appartamenti” (sub 1 a pagina 36 del ricorso per cassazione) i ricorrenti avevano dedotto che nel prezzo complessivo di Euro 150.000 erano ricompresi anche i mobili per Euro 8.000,00. In relazione al “prezzo di vendita nel 2008 di un appartamento nuovo simile e vicino” (sub 2 a pagina 36 del ricorso per cassazione), i ricorrenti avevano osservato che nel 2008 il prezzo di un immobile in prossimità era stato di Euro 1,200 al mq. I ricorrenti poi avevano indicato “il prezzo di offerta di un appartamento nuovo simile e vicino” venduto ad Euro 155.000,00 (sub 3 a pagina 37 del ricorso per cassazione). Inoltre, per i ricorrenti “i prezzi di agenzia del Corriere Immobiliare prodotto in giudizio in primo grado” (sub 4 a pagina 37 del ricorso per cassazione) indicavano un valore per Euro 150.000. Gli “indici OMI” (n. 5 a pagina 37 del ricorso per cassazione) indicavano per il 2005 prezzi pari a Euro 1.300 al mq e nel 2005 a Euro 1.300/1.500 nel 2009 (6 a pagina 37 del ricorso per cassazione). Si fa riferimento poi alla “rivista Mercato Immobiliare” (sub 6 a pagina 37 del ricorso per cassazione), oltre che al “prezzo di compravendita” (sub 7 a pagina 38 del ricorso per cassazione). Inoltre, al punto 1.3. (a pagina 38 del ricorso per cassazione) si evidenzia “la differenza nel prezzo dichiarato tra immobili simili”, in quanto l’appartamento più piccolo godeva però di un giardino. Nè si è menzionato quanto riportato dai ricorrenti sub 1.4. (pagina 38 del ricorso per cassazione) per “la considerazione che le vendite sarebbero avvenute sottocosto e quindi con criteri antieconomici (tali desunti comparando i costi delle rimanenze a costi specifici di cantiere ed i ricavi dichiarati). E’ proprio la condotta antieconomica uno dei fondamentali sintomi, o indizi che legittimano l’attività accertativa dell’Ufficio”. Le rimanenze finali a fine 2004 corrispondevano alla quota parte del previsto ricavo “in funzione dello sviluppo dell’edificazione come previsto da norma”. Inoltre, al punto 1.5. (pagina 41 del ricorso per cassazione) non si è tenuto conto del contratto di rivendita dell’immobile, in quanto l’acquirente ha optato per il regime del prezzo-valore, sicchè il prezzo dichiarato non rilevava per la quantificazione delle imposte della compravendita, consentendo all’acquirente di avere un mutuo di pari importo. V’è stata poi la pubblica offerta dell’appartamento del V. da parte dell’Agenzia immobiliare per Euro 149.000, anzichè 160.000,00.

4.Con il quarto motivo i ricorrenti si dolgono della “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 comma 1 lett. d, del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, (art. 360 c.p.c., n. 3)”, in quanto le presunzioni poste a base degli avvisi di accertamento sono prive dei caratteri di gravità, precisione e concordanza.

4.1. I motivi terzo e quarto, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.

Anzitutto, si rileva che non v’è il vizio di “omessa motivazione” in quanto la Commissione regionale ha fornito una congrua motivazione, sicchè non può prospettarsi neppure una motivazione apparente, quindi al di sotto del limite costituzionale di cui all’art. 111 Cost., dopo la modifica di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile alle sentenze depositate a decorrere dall’11-9-2012, quindi a quella in esame.

Inoltre, si rileva che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass., 2272/2007).

I ricorrenti avrebbero dovuto dedurre, quindi, l’omesso esame di fatti decisivi e controversi, mentre hanno incentrato le loro difese solo sulla mancata confutazione da parte del giudice di appello di mere argomentazioni difensive, in alcun modo decisive per il convincimento del giudice.

Infatti, il giudice, anche d’appello, non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, ma è necessario e sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4, che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (Cass., 11 febbraio 1998, n. 1390).

La Commissione regionale ha incentrato la sua motivazione su elementi gravi, precisi e concordanti costituiti da: importi dei mutui erogati dalle banche di importo superiore al valore degli immobili indicati nei contratti; il valore dei beni dalle caratteristiche simili desunti dalla stampa specializzata; la differenza nel prezzo dichiarato tra immobili simili; l’antieconomicità delle vendite, avvenute sottocosto.

I ricorrenti, dunque, chiedono una nuova valutazione degli elementi di prova, già effettuata congruamente dal giudice di appello, non consentita in questa sede, soprattutto in relazione al nuovo motivo di censura della motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012.

5.Con il quinto motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “fatto notorio. Violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 2, (art. 360 c.p.c., n. 4). Insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5)”, in quanto il giudice di appello sarebbe incorso in una violazione del divieto di utilizzo del fatto notorio in ambito tecnico affermando che “la percentuale di ricarico sulle vendite dei 6 appartamenti facenti parte del complesso edilizio di San Cipriano risulta essere del 10,67 % sul costo del venduto con una redditività pari all’1,24 % per il 2004. Percentuali troppo basse e poco credibili in un mercato immobiliare in espansione”. Inoltre, nella censura si fa riferimento a “LTV (loan to value) rapporto tra importo del mutuo erogato e valore dell’immobile” (pagina 45 del ricorso per cassazione), oltre che nuovamente sulla “insufficiente motivazione” (pagina 47 del ricorso per cassazione).

5.1.Tale motivo è inammissibile, sia perchè vi è il riferimento alla “insufficiente motivazione”, sicchè la censura di motivazione non è calibrata sul nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione all’omessa esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti, come da modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, applicabile alle sentenze di appello depositate a decorrere dall’11-9-2012, sia perchè tale “affermazione” non risulta in alcun modo nella motivazione della sentenza oggetto di impugnazione.

6.Con il sesto motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “motivazione per relationem con rinvio ad atti non allegati: violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56 u.c. e della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1 (art. 360 c.p.c., n. 3). Insufficiente motivazione della sentenza (art., 360 c.p.c., n. 5)”, in quanto l’avviso di accertamento fa riferimento al valore di immobili di analoghe caratteristiche desunti da stampa specializzata, non conosciuta dagli stessi.

6.1.Tale motivo è infondato.

In relazione al profilo di “insufficiente motivazione” il motivo è inammissibile, stante il nuovo tenore dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dopo le modifiche di cui al D.L. n. 83 del 2012.

Inoltre, in tema di motivazione “per relationem” degli atti d’imposizione tributaria, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 1, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’Amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non trova applicazione per gli atti di cui il contribuente abbia già avuto integrale e legale conoscenza per effetto di precedente comunicazione (Cass. 407/2015). L’avviso di accertamento è legittimamente motivato con riferimento ad un processo verbale di constatazione, precedentemente consegnato in copia al contribuente previa sottoscrizione.

Nella specie, il giudice di appello ha, con giudizio di fatto, non correttamente impugnato in questa sede ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, affermato che “sulla scorta della documentazione in atti, poi, non risulta esservi stata alcuna violazione del diritto di difesa della ricorrente giacchè gli atti cui l’Ufficio fece riferimento nel provvedimento impositivo erano tutti ben conosciuti dalla parte contribuente anche per esserne riportati gli estremi significativi nella documentazione prodotta alla parte contribuente”.

Pertanto, vi è la prova che la stampa specializzata citata nell’avviso di accertamento era non solo conoscibile, ma anche conosciuta dai contribuenti che l’hanno citata nei rispettivi ricorsi.

La sentenza della Corte di giustizia UE 16-10-2019, n. 189 (peraltro in materia di Iva) non può trovare, qui, applicazione, sia perchè non risulta che i contribuenti abbiano chiesto l’accesso al fascicolo della Agenzia delle entrate (paragrafo 56 della citata sentenza), sia perchè il contraddittorio si è svolto in più occasioni, anche con accertamento per adesione (cfr. pagina 14 del ricorso per cassazione; cfr. pagine 16, 17, 18, 19, 20, 21 e 22 del ricorso per cassazione in relazione alla documentazione prodotta dalla società all’Ufficio; cfr. pagina 22 ove si afferma che il contraddittorio è iniziato il 10-12-2010, ed è proseguito il 21-12-2010 ed il 21-1-2011).

7.Con il settimo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono “praesumptio de paesumpto: violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) (art. 360 c.p.c., n. 3), laddove la sentenza conferma la quantificazione della asserita evasione sugli altri appartamenti in misura identica al primo, in assenza di adeguati indizi in tal senso (art. 360 c.p.c., n. 4)”, in quanto gli elementi posti a base della decisione sono tutti meramente presuntivi e indiziari.

7.1.Tale motivo è infondato.

Il riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, è fuori luogo, in assenza della deduzione di un error in procedendo.

Quanto al merito, si rileva che questa Corte ha ritenuto che, a fondamento dell’accertamento da parte dell’Agenzia, è sufficiente anche il semplice scostamento tra l’importo del mutuo erogato ed il prezzo dichiarato nel contratto di compravendita, in quanto anche un solo fatto, se presenta i caratteri della gravità e della precisione, può essere idoneo a costituire la fonte della presunzione (Cass., 26485/2016; Cass., 9 giugno 2017, n. 14388).

Deve, poi, tenersi conto anche che l’importo del mutuo erogato dalle banche, in genere, è coperto dal valore dell’immobile sul quale viene iscritta l’ipoteca, per consentire all’istituto di credito, in caso di mancata restituzione delle

somme, di recuperale con l’azione esecutiva sull’immobile.

Peraltro, secondo la deliberazione 22 aprile 1995 del Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio “l’ammontare massimo dei finanziamenti di reddito fondiario è pari all’80 per cento del valore dei beni ipotecati. Tale percentuale può essere elevata fino al 100 per cento qualora vengano prestate garanzie integrative”. Analogamente la Circolare della Banca d’Italia n. 229 del 21 aprile 1999, Titolo V cap.1, sez. II, stabilisce che “Le banche possono concedere finanziamenti di credito fondiario per un ammontare massimo pari all’80 per cento del valore dei beni immobili ipotecati”.

I contribuenti non hanno nè allegato nè dimostrato quali siano state le eventuali ulteriori spese degli acquirenti, tali da giustificare l’erogazione di mutui per importi superiori ai limiti massimi consentiti e, comunque, superiori al valore dei singoli cespiti immobiliari.

Va anche evidenziato che la questione dell’importo dei mutui rispetto al valore degli immobili dichiarato nei contratti di compravendita è stata già affrontata dalla Commissione tributaria provinciale, ove si legge espressamente che “il concetto di mutuo, per determinare il valore normale di un immobile, non può costituire certezza assoluta di corrispettivo effettivamente pagato per l’acquisto dello stesso, posto che, siffatta tipologia di prestito ricomprende, spesso la c.d. liquidità, ossia la maggiore somma che l’istituto Bancario mette a disposizione del mutuatario per coprire altre spese accessorie”.

Pertanto, la questione dei mutui era stata già affrontata dal giudice di prime cure.

Tra l’altro, la società nella memoria scritta (a pagina 6) rileva che il riferimento ai mutui non era riportato nell’avviso di accertamento, pur non trascrivendo il contenuto integrale dello stesso, al fine di consentire alla Corte la verifica di quanto dichiarato dalla contribuente.

Peraltro, il giudice di appello ha indicato ulteriori elementi presuntivi rappresentati dal valore di beni di analoghe caratteristiche, come desunto dalla stampa specializzata, citata peraltro dai ricorrenti nei rispettivi ricorsi, la differenza nel prezzo tra immobili simili, la circostanza che le vendite erano avvenuta sotto costo, con criteri di antieconomicità, desunti dalla comparazione tra i costi delle rimanenze ed i costi specifici di cantiere con i ricavi dichiarati.

Senza contare che uno degli immobili acquistato nel 2005 per Euro 129.000,00 è stato rivenduto dall’acquirente nel 2010 ad Euro 160.000,00.

8.Nella memoria i contribuenti chiedono “avendone motivo legittimo”, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, che “sia apposta annotazione sull’originale della sentenza o del provvedimento che definirà il presente grado di giudizio, volta a precludere l’indicazione delle proprie generalità e degli altri dati identificativi a sè riconducibili contenuti in detti provvedimenti, nel caso di riproduzione di essi in qualsiasi forma, per finalità di informazioni di terzi”.

L’istanza deve essere rigettata, in quanto del tutto generica, non avendo i ricorrenti indicato i “motivi legittimi” che il D.Lgs. del 2003 n. 196, art. 52, richiede per precludere, in caso di riproduzione della sentenza o del provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e di alti dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza o provvedimento.

9.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dei ricorrenti, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2019

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