Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3428 del 11/02/2021

Cassazione civile sez. trib., 11/02/2021, (ud. 01/12/2020, dep. 11/02/2021), n.3428

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18034-2012 proposto da:

ALTOMANI & SONS SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MICHELE MERCATI 51,

presso lo studio dell’avvocato LUPONIO ENNIO, che lo rappresenta e

difende giusta procura a margine;

– ricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 42/2011 della COMM. TRIB. REG. MARCHE,

depositata il 10/04/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2020 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

MATTEIS STANISLAO che ha concluso per il rigetto;

udito per il ricorrente l’Avvocato LUPONIO ENNIO che ha chiesto

l’accoglimento;

uditi per il controricorrente gli Avvocati PUCCIARIELLO PASQUALE e DE

CURTIS ANGELO che hanno chiesto il rigetto.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Altomani & Sons s.r.l. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 42/02/2011, depositata dalla Commissione tributaria regionale delle Marche il 10.01.2011. La pronuncia aveva rigettato il ricorso introduttivo della società avverso l’avviso di accertamento, con cui l’Agenzia delle entrate aveva rideterminato l’imponibile della società, relativo all’anno 2003, ai fini Irap e Iva.

Il contenzioso traeva origine da un accertamento condotto ai sensi del D.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 7, sulle movimentazioni bancarie dei conti correnti sociali. Secondo la ricorrente le minime discrasie emerse tra volume d’affari dichiarato ed entrate finanziarie erano state spiegate e giustificate agli accertatori. Ciò nonostante l’Amministrazione finanziaria aveva emesso l’atto impositivo, rideterminando il reddito dell’anno 2003 per omessi ricavi, ricondotti a discrasie contabili (pari ad Euro 6.272,00) ed a finanziamenti infruttiferi eseguiti dai soci (pari ad Euro 79.600,00).

La società, che aveva contestato le risultanze dell’accertamento, aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Pesaro, che con sentenza n. 110/05/2007 accolse il ricorso. Nel grado d’appello, introdotto dall’Ufficio finanziario dinanzi alla Commissione tributaria regionale delle Marche, la sentenza è stata invece riformata, con rigetto del ricorso introduttivo della contribuente. Il giudice regionale ha ritenuto che non tutti i finanziamenti dei soci sono consistiti nel versamento di denaro, essendo stati operati anche conferimenti di beni, senza tuttavia assoggettare tali conferimenti alla procedura prevista dall’art. 2343 c.c.. Dall’anomalia dei conferimenti la Commissione ha tratto la conclusione dell’anomalia dei finanziamenti stessi.

La ricorrente ha censurato la sentenza affidandosi a cinque motivi.

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, , nonchè del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, punto 2), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto gravante sulla società l’onere di dimostrare l’irrilevanza ai fini reddituali delle somme versate dai soci alla società a titolo di finanziamenti infruttiferi;

con il secondo per insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver ritenuto che a sostegno della pretesa fiscale vi fossero anomali conferimenti di beni dai soci alla società, laddove i soli finanziamenti ricondotti a ricavi erano consistiti in versamenti di denaro;

con il terzo per insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver posto a fondamento della decisione conferimenti di beni, mai contestati nel processo verbale di constatazione e nell’avviso di accertamento, ma riportati dall’Ufficio solo quali argomentazioni di supporto alle operazioni contestate;

con il quarto per violazione dell’art. 112 c.p.c., con nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia sulla sollevata questione di nullità dell’avviso di accertamento perchè emesso in difetto dell’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, ai sensi del D.P.R. 10 marzo 2000, n. 74, art. 23;

con il quinto per violazione dell’art. 112 c.p.c., con nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia sulla sollevata questione di nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione.

Ha dunque chiesto la cassazione della sentenza, con decisione nel merito qualora ritenuti sussistenti i presupposti.

L’Agenzia delle entrate si è costituita ai soli fini della partecipazione eventuale all’udienza pubblica.

Nell’udienza pubblica dell’1 dicembre 2020, dopo la discussione, la causa è stata trattata e decisa.

La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo, secondo e terzo motivo la contribuente si duole della decisione, sotto i distinti profili dell’errore di diritto e del vizio motivazionale, per aver ritenuto che con i conferimenti infruttiferi eseguiti dai soci alla società nell’anno d’imposta accertato, identificati prevalentemente come conferimento di beni, fosse stata attuata una condotta volta all’occultamento di ricavi.

I motivi, che possono essere trattati congiuntamente perchè connessi e volti a criticare, da diversa angolazione, il tessuto argomentativo della decisione assunta dal giudice regionale, sono fondati nei termini appresso chiariti.

Con il primo motivo si assume l’erronea interpretazione delle norme che in materia di imposte dirette (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32) e di Iva (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51) regolamentano gli accertamenti bancari ed in particolare l’erronea applicazione dei principi sull’onere della prova, e ciò nella prospettiva della difesa della società secondo cui, offerta dalla contribuente la prova contraria, o giustificativa, delle operazioni evidenziate dall’Ufficio, null’altro le si poteva richiedere. Nel caso di specie, afferma e prosegue la ricorrente, era stato spiegato che i versamenti eseguiti dai soci nelle casse della società costituivano finanziamenti infruttiferi dei soci e dunque le statuizioni del giudice d’appello erano errate.

Questa Corte in tema di accertamenti bancari ha chiarito che se il contribuente ha l’onere di superare la presunzione posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, dimostrando in modo analitico l’estraneità di ciascuna delle operazioni a fatti imponibili, a fronte delle prove da esso addotte il giudice di merito è tenuto ad effettuare una verifica rigorosa sulla loro efficacia dimostrativa, e ciò, quando necessario, anche rispetto ad ogni singola movimentazione, dandone compiutamente conto in motivazione (cfr. Cass., 3/05/2018, n. 10480; 30/06/2020, n. 13112). Ciò evidentemente non impone un esame analitico, sempre e comunque, di ogni operazione, perchè è possibile che nel caso concreto sia proprio l’insieme delle operazioni emergenti dagli accertamenti bancari a vestire di “sospetto” le operazioni medesime. Sotto tale profilo l’Amministrazione finanziaria ben può ritenere prive di persuasione le giustificazioni addotte dal contribuente, insistendo nel recupero ad imponibile di operazioni che considera complessivamente finalizzate all’occultamento di ricavi; ed altrettanto certamente il giudice non è tenuto ad una valutazione analitica di ciascuna operazione, in sè priva di rilevanza. E tuttavia è necessario che la riconducibilità di operazioni economiche nell’alveo di operazioni “sospette” deve essere supportata da una motivazione esente da vizi.

Così, per restare al caso del quale si controverte, poteva non risultare persuasiva la semplice affermazione, come pretende la contribuente, che i conferimenti infruttiferi dei soci alla società rappresentavano operazioni non rilevanti ai fini della determinazione del reddito della società, specie se si considera che la fonte di tali conferimenti era prevalentemente relazionata alla cessione di beni d’antiquariato da parte dei soci (a terzi o alla società medesima come meglio si specificherà tra breve), attività costituente proprio l’oggetto economico della Altomani & Sons s.r.l. Con la legittima prospettiva che la pluralità di atti di vendita di beni d’antiquariato dai soci (a titolo personale) a terzi, ed il successivo versamento di denaro alla società da parte di quei medesimi soci, a titolo di finanziamento infruttifero, nascondesse, attraverso il collegamento tra più operazioni, un meccanismo predisposto artificialmente col fine di ridurre la base imponibile societaria.

Sotto questo profilo la censura sul primo motivo non coglie nel segno. E tuttavia, nell’ottica del vizio di motivazione, di cui la contribuente pure si è doluta, la sentenza merita la cassazione.

Deve avvertirsi che trova qui applicazione la disciplina anteriore all’entrata in vigore dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che ha modificato l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Nella vigenza della disciplina anteriore alla riformulazione del vizio di motivazione la sua deduzione non attribuiva al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, spettando a questi, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne conseguiva che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, poteva legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, fosse rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esisteva insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cfr. Cass., 4/08/2017, n. 19547; 9/08/2007, n. 17477).

Ebbene, nel caso di specie il giudice regionale, dopo aver riportato un passaggio della sentenza di primo grado, favorevole alla contribuente per aver riconosciuto natura di finanziamenti infruttiferi ai versamenti di denaro eseguiti dai soci alla società e da questa contabilizzati, ha affermato che “tale premessa non appare condivisibile laddove la problematica era invece quella di verificare se dall’anomalia di alcuni finanziamenti operati dai soci, potessero emergere presunzioni gravi, precise e concordanti che avrebbero costituito prova dell’evasione”. Quindi, proseguendo, ha rilevato che “i finanziamenti dei soci non si sono sempre concretati in un versamento di denaro ma in conferimento di beni che, come tali, andavano invece assoggettati alla procedura di conferimento dei beni e non già del finanziamento soci”, per la cui operazione il giudice d’appello ha ravvisato la mancata osservanza della disciplina dettata dall’art. 2343 c.c. in tema di conferimento di beni. Da ciò ha dedotto l’anomalia dei conferimenti e in conclusione l’anomalia delle operazioni di finanziamento.

Ora, risulta già astrattamente incomprensibile il ricorso alla disciplina dettata dagli artt. 2342 e 2343 c.c., che riguarda le modalità di costituzione del capitale sociale, laddove il caso di specie esulava del tutto dal momento costitutivo della società o dalla procedura di aumento di capitale (ex artt. 2438 c.c. e ss.), perchè da nessun elemento emerge che quei finanziamenti fossero finalizzati a sostenere ipotesi di costituzione o di aumento del capitale sociale. Ma soprattutto la motivazione sembra che non tenga affatto conto che la pressocchè assorbente entità delle somme recuperate ad imponibile riguardava inequivocabilmente non già il conferimento di beni, ma il versamento di denaro quale forma di finanziamento infruttifero.

Proprio in sentenza nella parte espositiva dei fatti il giudice regionale richiama l’importo di Euro 50.000,00 (25.000,00 + 25.000,00), relativo alla vendita di opere d’arte a tale sig. Dondolo, opere nella titolarità personale dei soci e non della società (2 capoverso di pag. 2). Così pure non ha nulla a che vedere con i supposti conferimenti di beni dai soci alla società la ripresa ad imponibile di 6.272,00 Euro, importo corrispondente alla rilevata discrasia delle risultanze tra movimenti finanziari e ricavi relativi all’esercizio 2003 (penultimo capoverso di pag. 2). D’altronde, sempre nella esposizione dei fatti, è lo stesso organo giudicante a riferire che la ricorrente sin dall’appello incidentale aveva lamentato che “le affermazioni dell’Ufficio riguardanti le opere d’arte apportate in natura a titolo di finanziamenti infruttiferi dai soci alla società, sono inconferenti, in quanto nell’atto di accertamento nulla è stato contestato alla società” (6 capoverso di pag. 2).

Dunque, nonostante la contribuente avesse contestato in radice l’esistenza di conferimenti in natura di opere d’arte tra le operazioni “sospette” identificate dall’Agenzia delle entrate, e nonostante comunque fossero stati esplicitati e riportati in sentenza operazioni di versamenti in denaro e non in beni, per importi preponderanti rispetto alle complessive somme recuperate ad imponibile con l’atto impositivo controverso, il giudice regionale ha inteso fondare la decisione esclusivamente sulla rilevata anomalia dei conferimenti di beni senza la procedura prescritta dall’art. 2343 c.c.

La motivazione pertanto si rivela del tutto insufficiente a spiegare la statuizione favorevole all’Amministrazione finanziaria, evidenziando invece un evidente travisamento dei fatti. Essa in definitiva appare illogica e foriera anche dei consequenziali errori riflessi sul governo delle regole a presidio delle prove presuntive derivanti dagli accertamenti bancari esplicati ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51.

I primi tre motivi vanno dunque accolti.

Poichè l’accoglimento dei primi tre motivi non si pone in rapporto di assorbimento, nè diretto, nè indiretto, del quarto e del quinto motivo di ricorso, questi vanno parimenti esaminati per essere tuttavia rigettati in quanto infondati. Con essi la contribuente ha lamentato che il giudice regionale abbia omesso di decidere sulla sollevata questione di nullità dell’avviso di accertamento perchè emesso in difetto dell’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, ai sensi del D.P.R. 10 marzo 2000, n. 74, art. 23, nonchè sulla sollevata questione di nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione per mancata allegazione di atti.

Con orientamento consolidato questa Corte ha affermato che il vizio di omissione di pronuncia non è configurabile su questioni processuali (Cass., 23/01/2009, n. 1701; 26/09/2013, n. 22083; 11/10/2018, n. 25154; 15/04/2019, n. 10422). Nel caso di specie la società ha sostenuto la nullità della sentenza per omessa pronuncia sulla censura con cui, in sede d’appello, la contribuente aveva a sua volta incidentalmente denunciato l’omessa decisione del giudice di primo grado in ordine alla nullità del procedimento d’accertamento. In realtà dallo stesso ricorso della contribuente emerge che il giudice di primo grado aveva deciso sulle eccezioni proposte, sicchè la circostanza che il giudice d’appello, che pur ha riferito nella parte in fatto delle eccezioni ribadite dalla contribuente e delle doglianze in ordine alla mancata decisione (o dell’erronea decisione) della Commissione provinciale, ha in concreto rigettato implicitamente le suddette eccezioni. Sono dunque infondati il quarto e del quinto motivo.

In conclusione devono accogliersi i primi tre motivi e rigettarsi il quarto e il quinto. La sentenza va cassata in riferimento ai motivi accolti e rinviata alla Commissione tributaria regionale delle Marche, che in diversa composizione, oltre che sulle spese del giudizio di legittimità, deciderà la controversia tenendo conto di quanto statuito dalla Corte.

P.Q.M.

Accoglie il primo, secondo e terzo motivo di ricorso; rigetta il quarto e il quinto. Cassa la decisione e rinvia alla Commissione tributaria regionale delle Marche, che in diversa composizione deciderà anche sulle spese processuali del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2021

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