Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3426 del 13/02/2018


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Cassazione civile, sez. III, 13/02/2018, (ud. 18/12/2017, dep.13/02/2018),  n. 3426

Fatto

RILEVATO

che, con sentenza resa in data 11/2/2014, la Corte d’appello di Roma ha confermato la decisione con la quale il giudice di primo grado, in accoglimento della domanda proposta da S.D., ha condannato la Videotime s.p.a. e la R.T.I. Reti Televisive Italiane s.p.a., in solido tra loro, al risarcimento, in favore del S., dei danni da quest’ultimo sofferti a seguito della diffusione senza consenso, da parte delle società convenute, del nominativo dell’attore nel corso della trasmissione televisiva “(OMISSIS)” all’interno della quale il nome del S. era stato evocato, anche in associazione alla localizzazione del proprio studio professionale di odontoiatra, in un contesto del tutto estraneo al relativo ambito professionale;

che, a sostegno della decisione assunta, la corte territoriale ha rilevato come il S. non avesse mai prestato il proprio consenso all’utilizzazione e alla diffusione televisiva, da parte delle società convenute, del proprio nominativo, vieppiù in associazione alla propria attività professionale di odontoiatra, con la conseguente violazione del relativo diritto al rispetto dei propri dati personali;

che, avverso la sentenza d’appello, la Videotime s.p.a. e la R.T.I. s.p.a. propongono ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi d’impugnazione, illustrati da successiva memoria;

che S.D. resiste con controricorso;

che il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha concluso per iscritto invocando il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il primo motivo, le società ricorrenti si dolgono della nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la corte territoriale riconosciuto la sussistenza del danno non patrimoniale denunciato dal S. sulla base di una circostanza di fatto d’indole presuntiva (quella consistente nell’assenza, prima dei fatti di causa, di qualsivoglia manifestazione, da parte del S., di esibizionismo e/o di intromissione in campi ed ambienti diversi da quello strettamente professionale), mai allegata dalla controparte, nè mai effettivamente discussa o dimostrata nel corso del giudizio, con la conseguente estensione della pronuncia del giudice a quo oltre i limiti imposti dall’art. 112 c.p.c., in violazione del principio di necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato;

che il motivo è infondato;

che, al riguardo, osserva il Collegio come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa corte, la violazione dell’art. 112 c.p.c. (quale errore di natura processuale) si configura in caso di alterazione, da parte del giudice, di taluno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (causa petendi e petitum), ovvero di introduzione di un elemento nuovo, con la conseguente negazione del bene richiesto da una delle parti o l’attribuzione di un bene diverso (Sez. 2, Sentenza n. 11199 del 28/08/2000, Rv. 539777-01);

che, nel caso di specie, le odierne società ricorrenti, lungi dal contestare l’alterazione, ad opera della corte territoriale, degli elementi di identificazione della domanda risarcitoria proposta dal S., ovvero l’avvenuta negazione del bene dallo stesso richiesto o l’attribuzione di un bene diverso, hanno contestato l’avvenuta utilizzazione, da parte del giudice a quo, a fini di prova, di circostanze di fatto d’indole presuntiva asseritamente mai introdotte nel dibattito processuale o, comunque, non dimostrate;

che tale deduzione, pur potendo eventualmente rilevare sul piano dell’applicazione dell’art. 115 c.p.c., ovvero, adeguatamente prospettata, degli artt. 2697 o 2729 c.c., in nessun caso vale a costituire un’ipotesi di violazione dell’art. 112 c.p.c., non essendo il giudice a quo in alcun modo incorso in alcun vizio di ultrapetizione, avendo correttamente pronunciato (al di là degli eventuali vizi propri della pronuncia) entro i limiti specifici della domanda risarcitoria proposta dal S.;

che, con il secondo motivo, le ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1226,2059,2727,2729 e 2697 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente posto a fondamento della propria decisione una circostanza (quella relativa al mancato rilievo di qualsivoglia manifestazione, da parte del S., di esibizionismo e/o di intromissione in campi e ambienti diversi da quello strettamente professionale) totalmente indimostrata e, in quanto tale, del tutto inidonea a giustificare l’inferenza probatoria trattane in termini decisivi dalla corte d’appello;

che, con il terzo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 2043,2050,2059,2056,1223 c.c. e segg., D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15(in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale arbitrariamente individuato, nel danno inferto alla privacy, uno statuto diverso e autonomo dalla lesione di ogni altro diritto della persona, non potendo escludersi, anche in relazione al danno alla privacy, la necessità che lo stesso venga puntualmente allegato e provato da parte del danneggiato in relazione a ciascuna delle sue componenti, ivi compresa la sussistenza delle specifiche conseguenze dannose secondarie alla lesione dell’interesse protetto;

che, con il quarto motivo, le ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), per avere la corte territoriale posto a fondamento della decisione un fatto (consistente nella mancata manifestazione da parte del S. di esibizionismo e/o intromissione in campi ed ambienti diversi da quello strettamente professionale) mai dedotto in giudizio, nè dimostrato o incontestato, con la conseguente violazione del principio di cui all’art. 115 c.p.c., che impone al giudice di porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, salvi i casi previsti dalla legge;

che tutti e tre i motivi – congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione delle questioni dedotte – sono infondati;

che, al riguardo, osserva il Collegio come le odierne società ricorrenti non abbiano colto in modo corretto i passaggi argomentativi individuati come decisivi nell’economia della decisione impugnata, con particolare riguardo alla dimostrazione del danno sofferto dal S.;

che, in particolare la corte territoriale ha in primo luogo sottolineato (in chiave dirimente) il carattere decisivo del rilievo in forza del quale deve ritenersi ragionevole riconoscere, con riferimento alla generalità dei consociati (“in molti, non in tutti”, cfr. pag. 9 della sentenza), la sussistenza di un “intimo desiderio/necessità di riservatezza”, costituente “il principale dei valori che le norme sulla privacy riconoscono ed intendono tutelare” (cfr. ivi, pagg. 9-10);

che, riferita tale (generalizzabile) occorrenza anche in relazione alla sfera personale del S., e rilevata l’avvenuta esposizione mediatica non autorizzata del nominativo del S. al di fuori del suo ambito strettamente professionale, la corte territoriale ha evidenziato come la circostanza della mancata emersione di qualsivoglia manifestazione, da parte del S., “di esibizionismo e/o intromissione in campi ed ambienti diversi da quello strettamente professionali”, valesse a escludere il ricorso di elementi di contraddizione rispetto all’attribuzione della concreta rilevanza di quell’interesse fondamentale anche in capo al S., con la connessa ragionevolezza dell’asserzione incline a predicare, anche con riguardo alla sfera personale del S., la conseguenza della concreta sofferenza morale dallo stesso patita a seguito della lesione dell’interesse protetto, e dunque quale effetto dell’illecito posto in essere delle società ricorrenti;

che, pertanto, lungi dal comprovare la sussistenza del danno sofferto dal S. (consistente nella sofferenza morale patita in conseguenza della lesione dell’interesse al rispetto dei propri dati personali) attraverso il riscontro del fatto negativo indicato dalle odierne ricorrenti (o, peggio, attraverso la sola deduzione in re ipsa del fatto illecito), deve ritenersi che il giudice a quo abbia, viceversa, fondato il riscontro di tale danno attraverso l’estensione, alla persona del S., del fatto positivo (da intendere alla stregua di una nozione di fatto rientrante nella comune esperienza, rilevante ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 2), costituito dalla generale ricorrenza di una condizione di sofferenza derivante dalla lesione dell’interesse delle persone al rispetto del proprio ambito di riservatezza: fatto che, nel caso di specie, una volta accertato nelle sue circostanze concrete (costituite dall’esposizione mediatica non autorizzata del nominativo del S. al di fuori del suo ambito strettamente professionale), non è apparso in alcun modo contraddetto da occorrenze o indici di segno contrario;

che il ragionamento probatorio così costruito dal giudice di merito deve ritenersi dotato di sufficiente congruità logica e linearità argomentativa, sì da consentire il riconoscimento dell’avvenuto adempimento, da parte del danneggiato, dei propri oneri di allegazione e di prova del danno sofferto, e l’affermazione della estraneità, della sentenza impugnata, alla presa delle censure critiche in questa sede di legittimità avanzate dalle odierne ricorrenti;

che, pertanto, sulla base delle considerazioni sin qui illustrate, rilevata la complessiva infondatezza dei motivi d’impugnazione, dev’essere pronunciato il rigetto del ricorso, con la conseguente condanna delle società ricorrenti al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, secondo la liquidazione di cui al dispositivo, oltre alla condanna al pagamento del doppio contributo ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.800,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 18 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2018

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