Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34248 del 15/11/2021

Cassazione civile sez. VI, 15/11/2021, (ud. 15/06/2021, dep. 15/11/2021), n.34248

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6836/2020 R.G., proposto da:

C.M.L., rappresentata e difesa dall’Avv. Alessandro

Tozzi, con studio in Roma, ove elettivamente domiciliata, giusta

procura in calce al ricorso introduttivo del presente procedimento;

– ricorrente –

contro

l’Agenzia delle Entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore

Generale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con sede in Roma, ove elettivamente

domiciliata;

– resistente –

avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale

del Lazio il 16 luglio 2019 n. 4336/11/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata (mediante collegamento da remoto, ai sensi del D.L. 28

ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 9, convertito nella L. 18

dicembre 2020, n. 176, con le modalità stabilite dal decreto reso

dal Direttore Generale dei Servizi Informativi ed Automatizzati del

Ministero della Giustizia il 2 novembre 2020) del 15 giugno 2021 dal

Dott. Giuseppe Lo Sardo.

 

Fatto

RILEVATO

che:

C.M.L. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio il 16 luglio 2019 n. 4336/11/2019, che, in controversia su impugnazione di avviso di accertamento per IRPEF relativa all’anno d’imposta 2009, ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate nei suoi confronti avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma il 20 settembre 2017 n. 20106/43/2017, con condanna alla rifusione delle spese di lite. La Commissione Tributaria Regionale ha riformato la decisione di prime cure, sul presupposto che la contribuente non fosse stata in grado di provare l’irriconducibilità a suo favore del reddito riveniente dalla locazione a terzi di un’immobile di sua proprietà da parte del coniuge separato. L’Agenzia delle Entrate si è costituita per la sola partecipazione all’eventuale udienza di discussione. Ritenuta la sussistenza delle condizioni per definire il ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., la proposta formulata dal relatore è stata notificata ai difensori delle parti con il decreto di fissazione dell’adunanza della Corte. La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, si denuncia violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e controverso tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver erroneamente ritenuto che la dichiarazione resa dal terzo detentore dell’immobile facesse presumere l’esistenza del contratto di locazione e la percezione dei canoni da parte della contribuente, nonostante la carenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, e per non aver tenuto conto della dichiarazione resa dal terzo detentore dell’immobile in successiva occasione con difforme tenore e delle quietanze rilasciate dal coniuge separato a fronte del pagamento di alcuni canoni.

2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 41-ter, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto che il contratto di locazione potesse presumersi anche per gli anni successivi a quello della presunta stipulazione.

Ritenuto che:

1. Il primo motivo è fondato, derivandone l’assorbimento del secondo motivo.

1.1 Nel processo tributario, il valore probatorio delle dichiarazioni non è in alcun modo assimilabile a quello della prova testimoniale “pura” in quanto verrebbe sostanzialmente vanificata la previsione contenuta nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7 (da ultima: Cass., Sez. 5, 11 maggio 2011, n. 12403).

Invero, è pacifico che, nel processo tributario, il divieto di prova testimoniale posto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, si riferisce alla prova testimoniale quale prova da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento e che, proprio perché assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice (ex plurimis: Cass., Sez. 5, 5 aprile 2013, n. 8369; Cass., Sez. 5, 7 aprile 2017, n. 9080; Cass., Sez. 6, 16 marzo 2018, n. 6616; Cass., Sez. 5, 11 settembre 2019, nn. 22659 e 22660; Cass., Sez. 5, 29 aprile 2020, n. 8342; Cass., Sez. 5, 11 novembre 2020, n. 25414; Cass., Sez. 5, 4 maggio 2021, n. 11616; Cass., Sez. 5, 19 gennaio 2021, n. 738; Cass., Sez. 5, 11 maggio 2021, n. 12403).

Parimenti, in tema di contenzioso tributario, anche al contribuente, oltre che all’amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta la possibilità, in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui all’art. 111 Cost, d’introdurre nel giudizio innanzi alle commissioni tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali devono essere valutati dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti (ex plurimis: Cass., Sez. 6, 19 ottobre 2015, n. 21153; Cass., Sez. 6, 16 marzo 2018, n. 6616; Cass., Sez. 6, 19 novembre 2018, n. 29757).

1.2 Posto che, nel processo tributario, le dichiarazioni rese da terzi possono assumere il valore probatorio di presunzioni ex artt. 2727 ss. c.c., si devono chiarire i limiti di censurabilità dell’apprezzamento fatto dal giudice di merito nella selezione e nel collegamento degli elementi indiziari.

A tale proposito, si è detto che, in tema di presunzioni di cui all’art. 2729 c.c., è deducibile come vizio di violazione e falsa applicazione di norma di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: a) l’ipotesi in cui il giudice di merito contraddica il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma; b) l’ipotesi in cui il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza da esso della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c. fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacché dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza; c) l’ipotesi, opposta a quella sub b), in cui espressamente, cioè motivando, il giudice di merito abbia ritenuto un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza da esso della conseguenza ignota, così rifiutandosi di sussumere sotto la norma dell’art. 2729 c.c. fatti che avrebbero avuto le caratteristiche per esservi sussunti e, quindi, incorrendo per tale ragione in una sua falsa applicazione; b) in tema di presunzioni di cui all’art. 2729 c.c., la prospettazione che il giudice di merito abbia omesso di considerare un fatto noto come giustificativo dell’inferenza di un fatto ignoto e, dunque, la mancanza di applicazione di un ragionamento presuntivo che si sarebbe potuto e dovuto fare, allorquando il giudice di merito non abbia motivato alcunché al riguardo (e non si verta nell’ipotesi in cui l’invocazione del ragionamento presuntivo fosse stata oggetto di un motivo di appello contro la sentenza di primo grado, nel qual caso il silenzio del giudice può essere dedotto come omissione di pronuncia su motivo di appello), non è deducibile come vizio di violazione di norma di diritto, bensì solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, cioè come omesso esame di un fatto secondario, quello che avrebbe fondato la presunzione e lo è nei sensi e con i limiti sottesi a detto paradigma (Cass., Sez. 3, 6 luglio 2018, n. 17720; Cass., Sez. Lav., 9 dicembre 2019, n. 32076; Cass., Sez. 5, 2 dicembre 2020, n. 27496; Cass., Sez. 3, 19 marzo 2021, n. 7861; Cass., Sez. 6-5, 25 marzo 2021, n. 8407; Cass., Sez. 6-5, 1 aprile 2021, n. 9092; Cass., Sez. 6-5, 21 marzo 2021, n. 10736).

1.3 Nella specie, il giudice di appello ha ritenuto che la dichiarazione resa (nel mese di ottobre dell’anno 2013) da un terzo circa la stipulazione in forma verbale di una locazione con il coniuge della contribuente su immobile appartenente a quest’ultima ed il rilascio di alcune quietanze al terzo da parte del coniuge della contribuente in ordine al pagamento di utenze e canoni (nel periodo compreso tra gli anni 2005-2007) in relazione al medesimo immobile bastassero a far presumere pur in assenza di gravità, precisione e concordanza l’imputabilità della locazione (e del relativo reddito) alla contribuente stessa, con decorrenza dall’anno 2009, nonostante la separazione personale dal coniuge sin dall’anno 1987.

In tal caso, è evidente, però, che le circostanze accertate attraverso le dichiarazioni rese dal terzo ed i documenti acquisiti dalla polizia tributaria sono imputabili in via esclusiva al coniuge della contribuente, che avrebbe concesso l’immobile in locazione al terzo informatore ed avrebbe incassato dal medesimo i relativi canoni di locazione dietro il rilascio di quietanza. Per cui, in assenza di ulteriori elementi di fatto, non è possibile presumere – anche in considerazione del perdurante stato (dall’anno 1987) di separazione giudiziale, che non risulta essere cessata per sopravvenuta riconciliazione – che il coniuge abbia agito alla stregua di un mero mandatario (senza rappresentanza, in carenza di spendita del nome) della contribuente, avendo la materiale disponibilità dell’immobile. Ciò anche tenendo conto che, ai fini della legittimazione alla concessione in locazione di un immobile, non occorre la proprietà, ma è sufficiente la mera detenzione di fatto (tra le tante: Cass., Sez. 3, 22 ottobre 2014, n. 22346; Cass., Sez. 3, 27 dicembre 2016, n. 27021; Cass., Sez. 3, 11 ottobre 2016, n. 20387).

1.4 In tal modo, il giudice di appello ha violato l’art. 2729 c.c., pretendendo di desumere in via inferenziale dai fatti noti (la concessione in locazione dell’immobile dal marito della contribuente al terzo ed il pagamento dei canoni dal terzo al marito della contribuente) un fatto ignoto (la percezione dei canoni – e quindi, un reddito non dichiarato – da parte della contribuente) in totale assenza di coerenza, concordanza e connessione tra le premesse e la conclusione del ragionamento presuntivo (attraverso una sorta di inammissibile praesumptio de praesumpto).

1.5 Per cui, la sentenza impugnata ha fatto malgoverno dei principi enunciati, laddove si è rilevato che “la contribuente non è stata in grado di smentire in modo pertinente ed efficace l’attribuibilità a lei, nella sua qualità di intestataria dell’immobile, del reddito riveniente dall’accertata locazione dell’immobile, essendosi limitata a mere dichiarazioni, prive di qualsivoglia supporto, la cui illogicità è stata giustamente sottolineata dall’appellante” e che “risulta ben poco credibile che ella possa essersi totalmente disinteressata dell’immobile di sua proprietà – peraltro di rilevante consistenza, come si evince dal certificato catastale riportato nel p. v. c. in atti -, lasciandone la totale disponibilità al coniuge separato, ivi compresa la possibilità di trarne reddito da locazione”.

Difatti, le circostanze accertate non consentivano di desumere, sul piano logico-deduttivo, alcun collegamento alla contribuente del reddito riveniente dalla percezione dei canoni di locazione da parte del coniuge separato.

2. Valutandosi la fondatezza del primo motivo e l’assorbimento del secondo motivo, dunque, il ricorso può trovare accoglimento e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, affinché riesamini la vicenda processuale alla stregua dei suesposti principi e provveda a regolamentare anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale effettuata da remoto, il 15 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 novembre 2021

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