Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34222 del 20/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 20/12/2019, (ud. 08/11/2019, dep. 20/12/2019), n.34222

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Cirillo Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17894/14 R.G. proposto da:

C.V., rappresentato e difeso, giusta ricorso, dall’avv.

Domenico Letizia, con domicilio eletto in Maddaloni, via S.

Francesco d’Assisi, n. 6; procura in calce al presso il suo studio

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i

cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12 è elettivamente

domiciliata

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale della

Campania n. 222/31/14 depositata in data 13 gennaio 2014;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 8 novembre

2019 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Fatto

RILEVATO

che:

C.V. impugnava l’avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2008, con cui l’Amministrazione finanziaria aveva accertato un maggior reddito di impresa, pari a Euro 71.030,00, rilevante ai fini IRPEF e IRAP.

In particolare, l’Ufficio, a seguito di richiesta inoltrata all’Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato ed alla società Lottomatica s.p.a., aveva accertato che il contribuente, nell’ambito dell’attività di vendita dei generi soggetti ad aggio, pur avendo percepito ricavi certificati per Euro 181.830,00, aveva dichiarato Euro 110.800,00, sottraendo materia imponibile all’Erario.

Il contribuente eccepiva che il maggior reddito accertato dovesse essere imputato anche ai collaboratori dell’impresa familiare, e non solo al titolare dell’impresa, e che l’Ufficio aveva indebitamente riconosciuto una minore detrazione per il coniuge a carico.

I giudici di primo grado rigettavano il ricorso con sentenza che veniva impugnata dal contribuente dinanzi alla Commissione tributaria regionale che rigettava l’appello.

Rilevando che la quota di reddito da imputare ai collaboratori familiari dell’imprenditore era consentita nell’ammontare massimo del 49 per cento del reddito dichiarato, riteneva che il maggior reddito accertato non dovesse essere suddiviso tra i componenti dell’impresa familiare, ma dovesse piuttosto essere imputato in via esclusiva al titolare dell’impresa familiare; faceva altresì conseguire all’accertato aumento del reddito la riduzione della detrazione per il coniuge a carico, stante l’irrilevanza dell’assenza di intenti evasisi, invocata dal contribuente, non determinante ai fini di un diverso risultato contabile.

Ricorre per la cassazione della suddetta decisione C.V., con un unico motivo, cui resiste l’Agenzia delle Entrate mediante controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Preliminarmente, va disattesa l’istanza volta ad ottenere la dichiarazione di interruzione del processo, per sopravvenuta morte del ricorrente, avanzata dal difensore del contribuente con istanza depositata in data 23 ottobre 2019.

Infatti, nel giudizio di cassazione, dominato dall’impulso d’ufficio, non trova applicazione l’istituto della interruzione del processo per uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. e ss., sicchè, una volta instaurato il contraddittorio con la notifica del ricorso, la morte dell’intimato non produce l’interruzione del processo (Cass. Sez. 3, n. 24635 del 03/12/2015; Cass. n. 1757 del 29/1/2016).

2. Con l’unico motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione di norme di diritto e omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, e violazione dell’art. 112 c.p.c.), sostiene che i giudici regionali errano nel ritenere che gli utili, nell’ipotesi di maggiori redditi non dichiarati, debbano essere imputati esclusivamente al titolare dell’impresa e non ripartiti anche tra i collaboratori e contesta pure alla Commissione regionale di avere richiamato nella decisione il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, norma alla quale non si fa riferimento nell’avviso di accertamento impugnato.

Assume, inoltre, che la decisione impugnata è viziata anche nella parte in cui non riconosce la detrazione di Euro 690,00, spettante per il coniuge a carico.

3. Le censure rivolte alla sentenza impugnata sono infondate.

4. L’istituto dell’impresa familiare è disciplinato dall’art. 230-bis c.c., che considera tale l’impresa nella quale collaborano i componenti la famiglia prestando in modo continuativo la propria attività lavorativa; tale forma di impresa si presenta ai terzi come un’impresa individuale, in cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado, i quali hanno diritto di partecipazione agli utili dell’impresa, trovando applicazione nei confronti dell’impresa familare un sistema di tassazione per trasparenza analogo a quello che opera per le società di persone.

4.1. Rispetto alla disciplina civilistica, l’applicazione del regime fiscale dell’impresa familiare, contenuto nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5, commi 4 e 5, postula che ricorrano le seguenti condizioni: a) l’indicazione nominativa dei familiari partecipanti all’attività d’impresa, risultante da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all’inizio del periodo d’imposta, recante la sottoscrizione dell’imprenditore e dei familiari partecipanti; b) l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l’attestazione che le stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell’impresa in modo continuativo e prevalente nel periodo di imposta; c) l’attestazione di ciascun partecipante, nella propria dichiarazione dei redditi, di avere prestato l’attività di lavoro nell’impresa in modo continuativo e prevalente.

4.2. La natura individuale dell’impresa familiare comporta che titolare dell’impresa resta comunque l’imprenditore, per cui la posizione degli altri familiari, che prestano il loro apporto sul piano lavorativo, assume rilevanza esclusivamente nei rapporti interni, tanto che resta esclusa la configurabilità di un’ipotesi di litisconsorzio necessario (Cass. n. 874 del 18/1/2005; Cass. n. 2472 del 31/1/2017).

4.3. Sussistendo le condizioni richieste dall’art. 5, commi 4 e 5, del t.u.i.r., il reddito dell’impresa familiare risultante dalla dichiarazione dell’imprenditore va imputato ai familiari che abbiano prestato in modo continuativo e prevalente la loro attività nell’impresa, proporzionalmente alla rispettiva quota di partecipazione agli utili, ma la quota di reddito attribuibile ai soggetti partecipanti all’impresa familiare non può superare il 49 per cento dell’ammontare complessivo del reddito emergente dalla dichiarazione annuale, mentre le eventuali perdite conseguite dall’imprenditore non possono essere imputate ai collaboratori, ma sono di esclusiva pertinenza del titolare dell’impresa.

4.4. Sebbene si parli di “imputazione” e, quindi, di determinazione di un unico reddito con successiva ripartizione ai partecipanti, risulta evidente, quanto alla natura dei redditi, che il reddito del titolare, pari al reddito dell’impresa familiare al netto delle quote spettanti ai familiari collaboratori, costituisce reddito d’impresa, mentre le quote spettanti ai collaboratori – che non sono contitolari dell’impresa familiare -costituiscono redditi di puro lavoro, non assimilabili a quello di impresa (Cass. n. 28558 del 2/12/2008; Cass. n. 26388 del 30/12/2010; Cass. n. 2472 del 2017 cit.; Cass. n. 30842 del 22/12/2017).

4.5. Ne consegue, alla luce del dato letterale del richiamato art. 5, commi 4 e 5, del t.u.i.r., che fa espresso riferimento alla dichiarazione dell’imprenditore, che, dal punto di vista fiscale, soltanto al titolare dell’impresa resta riferibile il reddito oggetto di accertamento nel caso di omessa dichiarazione o di accertamento di maggior reddito a seguito di rettifica della dichiarazione dallo stesso presentata.

Infatti, poichè il reddito che viene suddiviso tra i componenti l’impresa familiare è soltanto quello oggetto della dichiarazione, deve escludersi che siano riconducibili nel perimetro normativo i redditi che siano emersi a seguito di accertamento condotto nei confronti dell’imprenditore.

L’imputazione proporzionale può, dunque, essere effettuata soltanto sul reddito d’impresa familiare emergente dalla dichiarazione dell’imprenditore e non può, di conseguenza, essere operata sul maggior reddito accertato dall’Ufficio, nè sul reddito accertato dall’Ufficio in caso di omessa dichiarazione del titolare, i quali vanno perciò attribuiti esclusivamente al titolare dell’impresa e non possono essere attribuiti pro quota agli altri familiari collaboratori aventi diritto alla partecipazione agli utili d’impresa.

Analogamente, anche le sanzioni, essendo applicabili in dipendenza della mancata presentazione della dichiarazione o dell’accertamento del maggior reddito d’impresa, vanno irrogate soltanto nei confronti del titolare dell’impresa, quale unico soggetto cui va ricondotto l’evento omissivo assunto ad elemento costitutivo della fattispecie sanzionatoria.

4.6. La sentenza impugnata, con motivazione adeguata ed esaustiva, non essendosi discostata dai suddetti principi, si sottrae pertanto alle censure ad essa rivolte.

A nulla rileva, peraltro, il richiamo in essa contenuto al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, comma 4, in quanto i giudici di merito non hanno inteso affermare che l’attività accertativa dell’Ufficio si fondava su tale disposizione normativa, ma hanno piuttosto evidenzato che i maggiori redditi accertati risultanti dalla liquidazione fatta dall’Ufficio devono essere considerati come dichiarati dallo stesso imprenditore e quindi sono solo a lui imputabili, e non anche ai familiari collaboratori.

5. Anche la doglianza concernente l’ammontare della detrazione spettante per il coniuge a carico non può essere accolta, non costituendo il mero richiamo, da parte del contribuente, alla “assenza di intento evasivo” elemento di per sè idoneo a condurre ad un risultato contabile diverso da quello adottato dall’Ufficio.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2019

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