Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34220 del 20/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 20/12/2019, (ud. 08/11/2019, dep. 20/12/2019), n.34220

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 17636/14 R.G. proposto da:

GARDA GROUP S.R.L., in liquidazione, in persona del liquidatore,

rappresentata e difesa dall’avv. Mauro Vecchietti, giusta delega in

calce al ricorso, con domicilio eletto presso il suo studio in Riva

del Garda, Viale Roma, n. 4;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i

cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12 è elettivamente

domiciliata

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria di secondo grado di

Trento n. 54/01/13 depositata in data 20 maggio 2013

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 8 novembre

2019 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Fatto

RILEVATO

che:

L’Agenzia delle Entrate, a seguito di processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza, notificava alla Garda Group s.r.l. due avvisi di accertamento per gli anni 2003 e 2004, rideterminando maggiori ricavi, con conseguente recupero a tassazione di maggiore imponibile ai fini IRPEG, IRAP e I.V.A.

Proposta impugnazione avverso gli atti impositivi da parte della contribuente, la quale contestava, tra l’altro, il metodo utilizzato dall’Ufficio per la ricostruzione dei ricavi, la Commissione provinciale di Trento, rigettando le eccezioni di nullità o inesistenza degli avvisi di accertamento per difetto di notifica e per mancanza di motivazione, rideterminava i ricavi nella misura ridotta dallo stesso Ufficio in sede di tentativo di conciliazione esperito in pendenza della causa.

Avverso la sentenza di primo grado la contribuente interponeva appello, all’esito del quale la Commissione regionale rigettava il gravame.

Disattendeva in primo luogo le eccezioni di inesistenza delle notifiche degli avvisi di accertamento e di difetto di motivazione degli stessi atti e, ritenuto legittimo l’accertamento D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), confermava la sentenza impugnata, ritenendo definitivamente accertati i maggiori ricavi proposti dall’Amministrazione in sede di tentativo di conciliazione; osservava, in particolare, che la ricostruzione dei ricavi operata comprendeva solo le voci per le quali era stato possibile effettuare un controllo e che per alcune di esse era stata contabilizzata una “riduzione” in accoglimento dei rilievi formulati dalla contribuente.

Ricorre per la cassazione della suddetta decisione la Garda Group s.r.l., con quattro motivi.

L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 156 e 160 c.p.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, e violazione delle norme in tema di inesistenza degli atti giuridici, censura la decisione impugnata nella parte in cui i giudici di secondo grado hanno affermato che non può essere pronunciata la inesistenza o la nullità degli atti impugnati per mancanza della sottoscrizione della relata di notifica e ribadisce che la omessa indicazione dell’agente notificatore e la mancanza della sottoscrizione da parte dello stesso agente in calce alla relata di notifica dell’avviso di accertamento rende l’atto giuridicamente inesistente e come tale non suscettibile di sanatoria in virtù del principio del raggiungimento dello scopo.

1.1. La censura è infondata.

1.2. Nel caso di specie si discute di notificazione a mezzo posta dell’avviso di accertamento, per il quale sono previsti schemi meno rigidi rispetto alla notificazione degli atti giudiziari, ben potendo la notificazione essere effettuata direttamente dagli Uffici finanziari a mezzo posta (a partire dal 15 maggio 1998, data di entrata in vigore della L. n. 146 del 1998, art. 20, che ha modificato la L. n. 890 del 1982, art. 14).

Pertanto, qualora l’Ufficio si sia avvalso di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati – e non quelle della L. n. 890 del 1982, attinenti alla notificazione eseguita dall’ufficiale giudiziario – per cui, in tali ipotesi, non deve essere redatta alcuna relata di notifica e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass. 9111 del 6/6/2012; Cass. n. 15315 del 4/7/2014; Cass. n. 952 del 17/1/2018).

Ne deriva che, essendo legittima l’adozione per la notificazione degli atti impositivi di modalità meno formali, tanto che l’assenza di relata di notifica non determina l’invalidità del procedimento notificatorio, deve convenirsi che l’omessa indicazione, nella relata di notifica, delle generalità dell’agente notificatore e la mancanza di sottoscrizione della stessa da parte di quest’ultimo non possano comportare la nullità, nè tanto meno l’inesistenza dell’atto impositivo, laddove, come nel caso di specie, è stato accertato nella stessa sentenza impugnata che l’Agenzia delle Entrate nel giudizio di merito ha prodotto “l’avviso di ricevimento della raccomandata (il cui numero risulta coincidente con quello riportato sull’avviso di accertamento), seguita dalla comunicazione di avvenuta notifica, detta CAN, con attestazione della data di consegna, firma della persona che ha curato il ritiro del plico, la Dott.ssa F.C., difensore domiciliatario della ricorrente e dell’addetto al recapito”.

1.3. Peraltro, l’intervenuta impugnazione degli atti impositivi ha sicuramente spiegato efficacia sanante di un eventuale vizio di notifica.

Questa Corte ha infatti affermato che, nell’ipotesi di nullità dell’atto impositivo, tale nullità è sanata, a norma dell’art. 156 c.p.c., per effetto del raggiungimento del suo scopo, il quale, postulando che alla notifica invalida abbia fatto comunque seguito la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, può desumersi anche dalla tempestiva impugnazione, ad opera di quest’ultimo, dell’atto invalidamente notificato (Cass. n. 1238 del 22/1/2014).

Si è, in particolare, chiarito che la “notificazione è una mera condizione di efficacia e non un elemento costitutivo dell’atto amministrativo di imposizione tributaria, cosicchè il vizio di nullità ovvero di inesistenza della stessa è irrilevante ove l’atto abbia raggiunto lo scopo” (Cass. n. 654 del 15/1/2014) quando ne risulti inequivocamente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso per l’esercizio del potere all’Amministrazione finanziaria (Cass. n. 21071 del 24/8/2018), situazione di decadenza che non è stata neppure dedotta nel caso che ci occupa.

1.4. La sentenza impugnata, affermando che la notifica dell’atto impositivo non è affetta da nullità, nè tanto meno è inesistente, si pone in linea con l’orientamento espresso da questa Corte.

2. Con il secondo motivo la contribuente deduce omesso esame circa un punto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e lamenta che la decisione gravata si limita ad affermare la validità dell’avviso di accertamento, la cui motivazione avviene per relationem, non tenendo conto che, nel caso di specie, è stato eccepito che l’Amministrazione con l’avviso di accertamento aveva ripreso le risultanze di un verbale di contestazione che era a sua volta carente di motivazione.

Contesta alla Commissione regionale di avere fondato la decisione sulle sole argomentazioni dell’Amministrazione finanziaria e di avere escluso l’eccepito difetto di motivazione dell’avviso di accertamento, che richiamava il processo verbale di constatazione, senza avere previamente esaminato il contenuto di tale ultimo atto perchè non prodotto agli atti di causa.

2.1. Il motivo è inammissibile.

2.2. Questa Corte è ferma nel ritenere che nell’ipotesi in cui la parte ricorrente censuri la sentenza di una Commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento, che non è un atto processuale, ma un atto amministrativo (Cass. 3 dicembre 2001, n. 15234), è necessario, a pena d’inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso che si assumono erroneamente interpretati dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di Cassazione di esprimere il suo giudizio in proposito esclusivamente in base al ricorso medesimo (Cass. 13 febbraio 2014, n. 3289; Cass. 28 giugno 2017, n. 16147).

Nel ricorso non è stato ritrascritto il contenuto dell’avviso di accertamento e, pertanto, la doglianza non si sottrae alla declaratoria di inammissibilità per difetto di autosufficienza.

3. Con il terzo motivo la contribuente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, e dell’art. 2729 c.c.

Sostiene che la C.T.R. ha ritenuto infondata l’eccezione di violazione delle disposizioni normative richiamate limitandosi a precisare quanto statuito dalla Corte di Cassazione, ossia che l’Amministrazione può procedere alla ricostruzione dei ricavi a prescindere dalla tenuta della contabilità nel caso in cui dimostri gravi incongruenze fra valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta, senza tenere conto che l’onere della prova delle incongruenze è a carico dell’Ufficio, che, nel caso di specie, non lo ha assolto.

3.1. Il motivo è inammissibile.

3.2. La ricorrente si duole del fatto che la Commissione regionale, ritenendo sussistenti i presupposti per procedere ad un accertamento D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), avrebbe deviato dalla corretta applicazione del riparto dell’onere probatorio, non avvedendosi che nella fattispecie concreta l’Agenzia delle Entrate non avrebbe fornito dimostrazione della esistenza di incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili sulla base delle caratteristiche dell’attività esercitata.

La critica formulata si risolve in realtà in una denuncia di omessa o inesatta valutazione dei fatti probatori acquisiti al giudizio e, quindi, in un errore di fatto incompatibile con il vizio denunciato dalla ricorrente che, investe, invece, un errore di diritto nell’attività di giudizio e si traduce nella inesatta o errata individuazione od interpretazione della norma che deve essere applicata al rapporto come esattamente individuato nei suoi elementi fattuali, ovvero in un errore di sussunzione.

Tale censura avrebbe dovuto essere fatta valere attraverso la denuncia di un vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e non attraverso il vizio di violazione di norma di diritto sostanziale.

Questa Corte ha ripetutamente evidenziato la incompatibilità tra i due vizi di legittimità, sottolineando che l’attività interpretativa della fattispecie normativa va tenuta distinta dalla attività valutativa della fattispecie concreta emergente dalle risultanze probatorie, precisando che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione (Cass. n. 26110 del 30/12/2015; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 24155 del 13/10/2017).

La Commissione regionale, d’altro canto, facendo corretta applicazione dei criteri di ripartizione dell’onere della prova, non ha affermato che l’Amministrazione finanziaria non sia tenuta a dimostrare, ai fini dell’accertamento analitico-induttivo, la incongrità tra ricavi e redditi dichiarati, ma ha piuttosto rilevato, sulla base delle risultanze processuali, la fondatezza della rettifica delle dichiarazioni dei redditi che, muovendo da dati non contestati (come le merci acquistate e contabilizzate, le caratteristiche dell’azienda, i prezzi trattati e le rimanenze finali), ha consentito di accertare l’inattendibilità e l’inesattezza dei dati indicati nelle dichiarazioni dei redditi, riconoscendo, in fatto, la ricorrenza dei presupposti richiesti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).

4. Con il quarto motivo, denunciando omesso esame sulla questione decisiva, ossia sulle modalità di ricostruzione dei ricavi, lamenta che i giudici regionali hanno sommariamente motivato in merito alle contestazioni ed ai conteggi dalla stessa elaborati per confutare la ricostruzione operata dall’Amministrazione, ritenendo non dimostrati quelli predisposti dalla contribuente e corretti quelli sviluppati dall’Ufficio, tralasciando di considerare che i conteggi dell’Amministrazione sono variati nel tempo.

4.1. La censura è infondata.

4.2. Occorre rammentare che, dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alla sentenza impugnata in quanto pubblicata successivamente alla data del 11 settembre 2012 di entrata in vigore di detta norma modificativa, è sottratto al sindacato di legittimità di questa Corte il vizio di mera insufficienza o di contraddittorietà della motivazione per inesatta valutazione delle risultanze istruttorie, qualora dalla sentenza sia comunque possibile trarre la premessa in fatto e la conseguenza in diritto che giustifica il decisum.

Per effetto della nuova formulazione del vizio di legittimità, la censura deve essere limitata alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, per cui, al di fuori di tale omissione, il controllo deve essere esclusivamente volto a verificare la esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ricollegabile alle ipotesi di “mancanza della motivazione” quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale, “motivazione apparente”, “motivazione perplessa od incomprensibile”, che integrano la violazione dell’art. 132 c.p.c., e determinano nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità.

4.3. Il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, può, dunque, essere dedotto solo in caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione e appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione, essendo precluso impugnare la sentenza per criticare il percorso argomentativo adottato dal giudice di merito sulla base di una valutazione degli elementi fattuali acquisiti, da questi ritenuti determinanti oppure non pertinenti (Cass. Sez. U, n. 8053 del 7/4/2014; Cass. Sez. U, n. 19881 del 22/9/2014; Cass. n. 11892 del 10/6/2016); ne consegue che esula dal vizio di legittimità di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualsiasi contestazione volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato all’esito dell’esame del materiale probatorio previa valutazione della sua attendibilità ed operando un giudizio di prevalenza.

4.4. Con il mezzo in esame la ricorrente non individua fatti storici rilevanti e decisivi di cui i giudici di appello avrebbero omesso l’esame, ma piuttosto tende a riproporre gli stessi elementi fattuali, tenuti presenti dal giudice di merito, al fine di ottenere una diversa ricostruzione di fatto rispetto a quella operata dai giudici regionali.

La contribuente, infatti, addebita ai giudici di merito di non avere preso in considerazione i conteggi dalla stessa elaborati, ma tale assunto non è condivisibile in quanto nella motivazione i giudici di appello, rispondendo alle osservazioni dell’appellante, evidenziano che nella contabilizzazione dei maggiori ricavi si è proceduto ad una “riduzione” di molte voci aderendo ai valori indicati dalla stessa contribuente nel ricorso introduttivo e che la quantificazione dei ricavi definitivamente accertata, fondata su una verifica accurata delle fatture e dei prezzi di vendita, risulta più favorevole rispetto a quella proposta dall’Agenzia delle Entrate in fase di procedimento per adesione.

5. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2019

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