Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3422 del 22/02/2016


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Civile Sent. Sez. L Num. 3422 Anno 2016
Presidente: MACIOCE LUIGI
Relatore: AMENDOLA FABRIZIO

SENTENZA

sul ricorso 545-2011 proposto da:
POSTE ITALIANE SPA C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, V.LE MAZZINI 134, presso lo studio
dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la rappresenta e
difende, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2015
4906

contro

COSTANZI PIERCARLO C.F.CSTPCR36E12H501S, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA CIPRO 77, presso lo studio
dell’avvocato GERARDO RUSSILLO, che lo rappresenta e

Data pubblicazione: 22/02/2016

difende, giusta delega in atti;

controricorrente

avverso la sentenza n. 2909/2009 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 22/12/2009 R.G.N. 9579/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

AMENDOLA;
udito l’Avvocato MARIO MICELI per delega orale Avvocato
LUIGI FIORILLO;
udito l’Avvocato GERARDO RUSSILLO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. RENATO FINOCCHI GHERSI che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

udienza del 15/12/2015 dal Consigliere Dott. FABRIZIO

R.G. n.: 545/2011

Svolgimento del processo

1.- La Corte di Appello di Roma, con sentenza del 22 dicembre 2009, in
riforma della pronuncia del primo giudice, ha accertato la sussistenza di una
dequalificazione professionale operata da Poste Italiane Spa in danno di Piercarlo
Costanzi, in quanto adibito a decorrere dal 10 aprile 1999 a “ripartire lettere e
stampe; caricare e scaricare sacchi contenenti corrispondenza; trasportare

corrispondenza”; ha ritenuto la violazione dell’art. 2103 c.c. rispetto alle mansioni
in precedenza svolte dal Costanzi presso il Gruppo ETM del Centro di
Meccanizzazione Postale di Fiumicino Aeroporto, di “qualificata natura tecnica”;
ha condannato la società al risarcimento del danno determinato equitativamente
nella misura del 40% della retribuzione mensile, moltiplicata per i 24 mesi di
praticata dequalificazione.

2.— Per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane Spa ha proposto ricorso
per cassazione con 5 motivi. Ha resistito con controricorso l’intimato, che ha
comunicato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

3.— I motivi di ricorso possono essere così sintetizzati:
omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in
quanto la Corte di Appello non avrebbe proceduto al raffronto tra le mansioni
svolte e le declaratorie contrattuali di riferimento, erroneamente ritenendo di
poter ricondurre le mansioni svolte dal Sig. Costanzi all’Area di Base e non
all’Area Operativa (primo motivo);
violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 1363 del codice civile, “anche
con riferimento agli artt. 37, 41, 43, 46, 47 e 53 del CCNL 26.11.1994 ed
all’accordo integrativo del 23.5.1995 al CCNL Poste”, dalle cui disposizioni
emergerebbe come la volontà delle parti contrattuali era stata quella di superare
le precedenti classificazioni attuando un accorpamento delle precedenti categoria
in aree, ed attuando, all’interno di esse, piena fungibilità, rinviando per il
concreto definitivo inquadramento al successivo accordo integrativo, in base al
quale il personale addetto a mansioni tecniche poteva essere chiamato a svolgere
mansioni di gestione (secondo motivo);
omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio
rappresentato dalla ristrutturazione della organizzazione aziendale attuata da

manualmente carrelli e cassette di corrispondenza; svuotare sacchi contenenti

R.G. n.: 545/2011

Poste Italiane Spa, nell’ambito della quale le mansioni cui era assegnato il
Costanzi erano state soppresse (terzo motivo);
violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in quanto, in totale carenza
di allegazioni in merito ai concreti danni subiti dal lavoratore ed in assenza di
prova in merito alla effettiva sussistenza dei danni denunciati, la domanda
risarcitoria avrebbe dovuto essere rigettata, posto che il diritto del lavoratore al
risarcimento del danno da dequalificazione professionale non può conseguire in re

motivo);
omessa motivazione su di un fatto controverso e decisivo rappresentato dalla
carenza di prova in ordine al danno lamentato (quinto motivo).

4.— Il ricorso non può trovare accoglimento.
4.1.— Il primo motivo è privo di pregio in quanto non è affatto vero che la
Corte territoriale non ha proceduto al raffronto tra le mansioni svolte dal Costanzi
e le declaratorie contrattuali di riferimento, atteso che la sentenza impugnata,
evidenziato che alla superiore Area Operativa appartengono “i dipendenti che
svolgono attività esecutive e tecniche presupponenti adeguata preparazione
professionale con capacità di utilizzazione di strumenti semplici e complessi e
richiedenti preparazione tecnico-professionale di parziale o media specializzazione
e capacità di autonomia operativa nei limiti dei regolamenti di esecuzione”,
mentre l’Area di Base è riservata ai dipendenti “che svolgono mansioni, manuali e
non, che presuppongono conoscenze tecniche non specifiche o, se di natura
amministrativa, tecnica o contabile, di mero supporto manuale o di contenuto
puramente esecutivo”, ha ritenuto che “i compiti meramente manuali e ripetitivi,
che non richiedono alcuna particolare qualificazione professionale”, assegnati al
Costanzi fossero riconducibili all’inferiore Area di Base.
Piuttosto la società si duole di tale riconduzione, ma, come ribadito da questa
Corte in controversia analoga alla presente (v. Cass. n. 20718 del 2013), trattasi
di accertamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità ove, come nella
specie, le censura si limiti ad una generica doglianza circa il convincimento
espresso dal giudice del merito, senza dimostrare il vizio di motivazione rilevante
ai sensi dell’art. 360, co.1, n. 5 c.p.c..
4.2.— Parimenti infondato il secondo mezzo di gravame con cui si invoca la
fungibilità delle mansioni all’interno della medesima Area, per espressa previsione
contrattuale collettiva in seguito a riclassificazione del personale.
Sufficiente rilevare che la censura è inconferente rispetto al decisum, perché,
come innanzi ricordato, nel caso di specie la dequalificazione ritenuta dalla Corte

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ipsa al demansionamento ma deve essere rigorosamente provato (quarto

R.G. n.: 545/2011

territoriale non è avvenuta nell’ambito della stessa Area ma ha determinato
l’attribuzione di mansioni proprie di un’Area inferiore (per analogo rilievo v. Cass.
n. 16447/2013).
Inoltre da tempo ormai la giurisprudenza di questa Corte, sviluppatasi in
controversie simili e qui condivisa, proprio partendo dalla decisione delle Sezioni
Unite del 24 novembre 2006 n. 25033, ha ribadito che, pur in ipotesi di
reinquadramento previsto dal contratto collettivo in un’unica qualifica di

un’indiscriminata fungibilità di mansioni che esprimano in maniera radicale una
diversa professionalità e che non consentano una sia pure residuale utilizzazione
dell’acquisita professionalità, qualora le ultime mansioni espletate non abbiano,
con quelle spiegate in precedenza, affinità o analogia di sorta. Con la citata
sentenza delle Sezioni Unite si è infatti affermato che – sebbene la contrattazione
collettiva sia “autorizzata a porre meccanismi convenzionali di mobilità
orizzontale prevedendo, con apposita clausola, la fungibilità funzionale tra esse
per sopperire a contingenti esigenze aziendali ovvero per consentire la
valorizzazione della professionalità potenziale di tutti i lavoratori inquadrati in
quella qualifica senza per questo incorrere nella sanzione di nullità del comma 2
della medesima disposizione (l’art. 2103 c.c., comma 1)” – ove non ricorrano tali
peculiari esigenze, la garanzia prevista dal predetto art. 2103 c.c. opera anche
tra mansioni appartenenti alla medesima qualifica prevista dalla contrattazione
collettiva, dovendosi ribadire il principio di diritto che quest’ultima “deve
muoversi all’interno, e quindi nel rispetto, della prescrizione posta dall’art. 2103
c.c., comma 1, che fa divieto di un’indiscriminata fungibilità di mansioni che
esprimano in concreto una diversa professionalità, pur confluendo nella
medesima declaratoria contrattuale e quindi pur essendo riconducibili alla matrice
comune che connota la qualifica secondo la declaratoria contrattuale”, ciò in
quanto “il baricentro della disposizione in esame (art. 2103 c.c.), nella
formulazione introdotta dallo Statuto dei lavoratori (L. n. 300 del 1970, cit.), è la
protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro”.
Da ciò deriva che anche in tema di riclassificazione del personale la società
Poste Italiane non può limitarsi ad affermare semplicemente la sussistenza di una
equivalenza “convenzionale” tra le mansioni svolte in precedenza e quelle
assegnate a seguito dell’entrata in vigore della nuova classificazione, dovendo per
contro procedersi ad una ponderata valutazione della professionalità del
lavoratore al fine della salvaguardia, in concreto, del livello professionale
acquisito, e di una effettiva garanzia dell’accrescimento delle capacità
professionali del dipendente (Cass. n. 13714 del 2015; Cass. n. 13499 del 2014;

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lavoratori precedentemente inquadrati in qualifiche distinte, permane il divieto di

R.G. n.: 545/2011

Cass. n. 4989 del 2014; Cass. n. 15010 del 2013; Cass. n. 20718 del 2013; in
precedenza, parzialmente difformi, v. Cass. n. 6971 e n. 23763 del 2009).
Da ultimo, poi, sulla scorta di quella giurisprudenza secondo cui “è legittima
l’attribuzione della nuova qualifica, risultante dal riclassamento, al lavoratore le
cui mansioni siano rimaste immutate, mentre sarebbe illegittima l’assegnazione
di nuove mansioni non coerenti con la professionalità di quest’ultimo, anche se
equivalenti ad altre rientranti nella nuova qualifica attribuita a seguito del

n. 6614 del 2003; Cass. n. 7606 del 2003; Cass. n. 12251 del 2003; Cass. n.
18719 del 2004; Cass. n. 20983 del 2004), si è evidenziato come, in caso di
nuovo assetto organizzativo disposto dall’imprenditore, comprensivo di una
diversa classificazione del personale convenuta con le organizzazioni sindacali con
la previsione di nuove categorie o aree professionali, destinate d accorpare
mansioni comuni a più profili professionali, una questione di violazione dell’art.
2103 c.c. si pone se, in seguito al “riclassamento”, il lavoratore viene adibito a
nuove mansioni, compatibili con le declaratorie della nuova classificazione ma
incompatibili con la sua storia professionale (Cass. n. 19037 del 2015).
Pertanto – posto che per tutta la giurisprudenza richiamata l’equivalenza delle
mansioni ex art. 2103 c.c. costituisce oggetto di un giudizio di fatto operato dal
giudice di merito, incensurabile in cassazione se sorretto da adeguata
motivazione, sia sotto il profilo oggettivo, cioè in relazione alla inclusione nella
stessa area professionale e salariale delle mansioni iniziali e di quelle di
destinazione, sia sotto il profilo soggettivo, cioè in relazione alla affinità
professionale delle mansioni, nel senso che le nuove devono quanto meno
armonizzarsi con le capacità professionali acquisite dall’interessato durante il
rapporto di lavoro, consentendo ulteriori affinamenti e sviluppi – le conclusioni
della Corte territoriale che ha accertato come il Costanzi sia passato da mansioni
di “qualificata natura tecnica … a ripartire lettere e stampe; caricare e scaricare
sacchi contenenti corrispondenza; trasportare manualmente carrelli e cassette di
corrispondenza; svuotare sacchi contenenti corrispondenza”, ritenendo una
concreta dequalificazione del lavoratore, vanno certamente esenti dalle critiche
che sono mosse sul punto.
4.3.— Con il terzo motivo si deduce che la Corte romana avrebbe trascurato
il fatto controverso e decisivo per il giudizio rappresentato dalla ristrutturazione
della organizzazione aziendale attuata da Poste Italiane Spa, nell’ambito della
quale le mansioni cui era assegnato il Costanzi erano state soppresse; si invoca la
giurisprudenza di legittimità per la quale l’adibizione a mansioni, anche inferiori,

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rilassamento” (Cass. n. 12821 del 2002; conformi: Cass. n. 1494 del 2003; Cass.

R.G. n.: 545/2011

sarebbe legittima ove “essa rappresenti l’unica alternativa praticabile in luogo del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Parte ricorrente indebitamente sovrappone la questione della soppressione
delle mansioni con l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni equivalenti:
non sussiste un principio generale in base al quale, in caso di soppressione delle
mansioni proprie della qualifica di appartenenza del lavoratore, si determini un
“affievolimento” del diritto garantito dall’art. 2103 c.c..

1575 del 2010), che certamente la soppressione delle mansioni proprie della
qualifica di appartenenza può giustificare l’esercizio dello ius variandi; tuttavia,
“quali che siano le ragioni della modifica delle mansioni (tanto nel caso in cui le
mansioni originarie siano assegnate ad altro dipendente, che nel caso in cui le
stesse siano esaurite), lo spostamento del lavoratore ad altre mansioni deve
attenersi alla regola della equivalenza”; tutt’altro problema “è costituito dalla
eventuale mancanza di soluzioni in tal senso e quindi della necessità di estinguere
il rapporto di lavoro o, in via alternativa, adibire il lavoratore a mansioni
inferiori”.
La ricorrente, dopo aver riportato una serie di principi di legittimità pacifici,
omette di indicare se e dove abbia allegato, prima ancora di provare, la
circostanza che non vi fosse la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni
equivalenti e che, dunque, il demansionamento si presentava come l’unica
alternativa alla perdita del posto di lavoro (cfr., in analoga controversia, Cass. n.
16447 del 2013)
4.4.— Gli ultimi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in
quanto attengono alla sussistenza del danno ed alla liquidazione operata dalla
Corte territoriale; si sostiene che i giudici d’appello avrebbero considerato il
danno da dequalificazione

in re ipsa,

in violazione di ben noti postulati

giurisprudenziali.
Le censure non possono trovare accoglimento.
L’assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto
potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di
natura patrimoniale che di natura non patrimoniale.
In particolare dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e
della dignità del lavoratore deriva il diritto fondamentale di questi al pieno ed
effettivo dispiegamento del suo professionalizzarsi espletando le mansioni che gli
competono; la lesione di tale posizione giuridica soggettiva ha attitudine
generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare
la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera,

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In proposito occorre ribadire, come già affermato da questa Corte (Cass. n.

R.G. n.: 545/2011

del cittadino con la società in cui vive, dell’uomo con se stesso (Cass. n. 12253
del 2015).
Quanto alla liquidazione di tali danni, la non patrimonialità – per non avere il
bene persona un prezzo – del diritto leso, comporta che, diversamente da quello
patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai
corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la
valutazione equitativa, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che potrà

del 2008).
Certo, dall’astratta potenzialità lesiva dell’assegnazione a mansioni inferiori ad
opera del datore di lavoro non deriva automaticamente l’esistenza di un danno, il
quale non è immancabilmente ravvisabile solo in ragione di essa (Cass. SS.UU. n.
6572 del 2006). Fermi gli oneri di allegazione e di prova gravanti su chi denuncia
di aver subito il pregiudizio, compete tuttavia al giudice di merito non solo ogni
accertamento e valutazione di fatto circa la concreta sussistenza e la
individuazione della specie del danno, ma anche la sua liquidazione – in ipotesi
anche equitativa – sindacabile, in sede di legittimità, soltanto per vizio di
motivazione (in tal senso, v. Cass. n. 14199 del 2001; altresì: Cass. n. 9138 del
2011, Cass. n. 2352 del 2010, Cass. n. 10864 del 2009, Cass. n. 5333 del 2003;
Cass. n. 10268 del 2002; Cass. n. 18599 del 2001, Cass. n. 104 del 1999).
I criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla
prudente discrezionalità del giudice, debbono consentire una valutazione che sia
adeguata e proporzionata (v. Cass. n. 12408 del 2011), in considerazione di tutte
le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio
effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del
risarcimento (v. Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit.; Cass. n. 7740 del 2007; Cass.
n. 13546 del 2006).
Essendo tuttavia la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno
non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di
approssimazione, si esclude che l’esercizio del potere equitativo del giudice di
merito possa di per sé essere soggetto a controllo in sede di legittimità, se non in
presenza di totale mancanza di giustificazione che sorregga la statuizione o di
macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale
contraddittorietà delle argomentazioni (cfr. Cass. n. 12918 del 2010; Cass. n.
1529 del 2010; conforme, più di recente, Cass. n. 18778 del 2014).
In particolare, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con
apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato,
può desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via

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costituire pure l’unica fonte di convincimento del giudice (Cass. SS.UU. n. 26972

R.G. n.: 545/2011

equitativa, con processo logico – giuridico attinente alla formazione della prova,
anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità
della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata
del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre
circostanze del caso concreto (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19778 del 2014; Cass. n.
4652 del 2009; Cass. n. 28274 del 2008; Cass. SS.UU.. n. 6572/2006 cit.).
Nella specie la sentenza impugnata, seppur sinteticamente, indica gli elementi

riguardo all’attribuzione di compiti esecutivi privi di particolare qualificazione,
idonea non solo ad impedire il naturale sviluppo professionale, curato per anni
anche con la partecipazione a corsi di formazione e addestramento, ma anche a
compromettere irrimediabilmente il bagaglio di conoscenze tecniche già acquisite
dal Costanzi; si è altresì valorizzata la durata non esigua della dequalificazione e
la lesione dell’immagine professionale per l’assegnazione di compiti riservati a
dipendenti con qualificazione inferiore.
La Corte di Appello ha poi liquidato il danno medesimo stimando equo
commisurarlo al 40% metà delle retribuzioni dovute per il periodo del
demansionamento.
Già questa Corte ha giudicato non privo di concretezza il ricorso in via
parametrica alla retribuzione per la determinazione in termini quantitativi del
danno da violazione dell’art. 2103 c.c., posto che, indubbiamente, non può
negarsi che elemento di massimo rilievo nella determinazione della retribuzione è
il contenuto professionale delle mansioni sicché essa costituisce, in linea di
massima, espressione (per qualità e quantità, ai sensi dell’art. 36 della
Costituzione) anche del contenuto professionale della prestazione; l’entità della
retribuzione ben può, dunque, essere assunta, nell’ambito di una valutazione
necessariamente equitativa, a parametro del danno da impoverimento
professionale derivato dall’annientamento delle prestazioni proprie della qualifica
(da ultimo: Cass. n. 12253 del 2015; in precedenza: Cass. n. 9228 del 2001; cfr.
pure Cass. n. 7967 del 2002 e Cass. n. 835 del 2001).
In definitiva si tratta di un percorso motivazionale che, senza discostarsi da
dati di comune esperienza e non palesando radicale contraddittorietà delle
argomentazioni, sorregge a sufficienza l’esercizio del potere discrezionale di
valutazione equitativa, idoneo a precludere la cassazione della sentenza
impugnata sulla base delle censure che parte ricorrente agita.

5.— Conclusivamente il ricorso deve essere respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

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di fatto in base ai quali ha ritenuto accertato un danno alla professionalità, avuto

R.G. n.: 545/2011

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle
spese liquidate in euro 3.100,00, di cui euro 100,00 per esborsi, oltre accessori
secondo legge e spese generali al 15%, con attribuzione.

Il onsigliere est.

Il Presi

nte

Roma, così deciso nella camera di consiglio del 15 dicembre 2015

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