Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34215 del 20/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 20/12/2019, (ud. 22/10/2019, dep. 20/12/2019), n.34215

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 167/15 R.G. proposto da:

ESPERIA IMMOBILIARE 2003 S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del

liquidatore, rappresentata e difesa, come da procura a margine del

ricorso, dagli avv.ti Giuseppe Pizzonia, Giancarlo Zoppini e

Giuseppe Russo Corvace, con domicilio eletto presso il loro studio

in Roma, via della Scrofa, n. 57;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, 12 è elettivamente

domiciliata;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria del Lazio n.

2896/1/14 depositata in data 8 maggio 2014

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 ottobre

2019 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

Fatto

RILEVATO

che:

Con ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Roma la società Esperia Immobiliare 2003 s.r.l., in liquidazione, impugnava l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate, in relazione all’anno d’imposta 2005, aveva recuperato a tassazione, ai fini IRES e IRAP, una minusvalenza di Euro 1.667.341.000, maturata dalla contribuente a seguito di cessione di un immobile acquistato nel 2003 in comproprietà con altro soggetto, avendo ravvisato in tale vendita un’operazione antieconomica.

I giudici di primo grado respingevano il ricorso con sentenza che veniva impugnata dalla contribuente.

La Commissione tributaria regionale rigettava l’appello, rilevando che l’Ufficio aveva ritenuto l’antieconomicità dell’operazione per il fatto che la società aveva venduto nel 2005, al prezzo di Euro 7.110.000,00, un bene acquistato nel 2003 e contabilizzato nel bilancio 2004 per Euro 8.326.418,00, nonostante sullo stesso bene fossero state eseguite opere di ristrutturazione e lavori di migliorie, con conseguente perdita di Euro 1.667.341,00.

Ritenendo che la presunzione di antieconomicità fornita si fondasse su requisiti di gravità, concordanza e precisione e che l’Amministrazione non dovesse fornire ulteriori prove, accertava che la contribuente non aveva offerto prova contraria, ma si era limitata ad affermare che, a causa di problemi burocratici, essendo incerta la possibilità di completare i lavori programmati, aveva proceduto alla vendita del bene ad un prezzo inferiore al valore contabile.

Ricorre per la cassazione della suddetta decisione la Esperia Immobiliare 2003 s.r.l. in liquidazione, con quattro motivi.

L’Agenzia delle Entrate ha depositato atto di costituzione.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di censura, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, nonchè del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3, per avere i giudici di appello rigettato la doglianza afferente la violazione dell’obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento.

Sostiene che l’Ufficio ha solo apparentemente motivato la pretesa impositiva, giudicando antieconomica l’operazione di cessione dell’immobile sul presupposto che il prezzo di vendita dell’immobile risultava inferiore rispetto al suo presunto valore normale – circostanza questa inidonea a giustificare la ripresa a tassazione e a far ritenere assolto l’obbligo di motivazione dell’atto impositivo – e che neppure ha illustrato il motivo per cui il valore contabile dell’immobile dovesse ritenersi coincidente con il valore normale dello stesso.

1.1. La censura è inammissibile.

1.2. Per costante indirizzo di questa Corte, nell’ipotesi in cui il ricorrente censuri la sentenza della Commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazone di un avviso di accertamento, che non è un atto processuale, ma amministrativo (Cass. 3 dicembre 2001, n. 15234), è necessario, a pena d’inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di Cassazione di esprimere il suo giudizio in proposito esclusivamente in base al ricorso medesimo (Cass. 13 febbraio 2014, n. 3289; Cass. 28 giugno 2017, n. 16147).

2. Con il secondo motivo il ricorrente censura la decisione impugnata nella parte in cui è stato implicitamente respinto il motivo di gravame con il quale si contestava la fondatezza del recupero a tassazione per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, comma 2, e art. 101, comma 1.

Nel sottolineare che nel giudizio di merito aveva lamentato la nullità dell’avviso di accertamento in quanto l’Ufficio aveva tenuto conto del “valore normale” dell’immobile oggetto di cessione e non del corrispettivo pattuito dalle parti ai fini della determinazione della minusvalenza patrimoniale derivante dalla compravendita dell’immobile, sostiene che i giudici di appello hanno erroneamente motivato il rigetto del motivo di appello facendo riferimento esclusivamente alle ragioni di fatto che avrebbero condotto l’Ufficio a qualificare come antieconomica l’operazione di cessione dell’immobile posta in essere, non tenendo conto che la difesa si fondava sul presupposto che il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, comma 2, richiamato dal successivo D.P.R. n. 917 del 1986, art. 101, comma 1,, prevede che “la plusvalenza è costituita dalla differenza tra il corrispettivo o l’indennizzo conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, e il costo non ammortizzato”.

3. Con il terzo motivo la società contribuente denuncia che la sentenza gravata è viziata per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d).

Ribadisce, al riguardo, che l’esistenza di uno scostamento tra il prezzo dichiarato dalle parti nel contratto di compravendita ed il valore normale del bene ceduto non costituisce una presunzione idonea a provare l’occultamento di una parte del corrispettivo stesso del bene ceduto, trattandosi di presunzione non dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza imposti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e non consente, di conseguenza, di assumere come provato il carattere simulato dell’operazione di cessione e, quindi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non dichiarato.

In particolare, evidenzia che con la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 265, è stato precisato che per i trasferimenti immobiliari attuati in epoca anteriore all’entrata in vigore della modifica normativa introdotta dal D.L. n. 223 del 2006, art. 35 (che ha inserito nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1 un ultimo periodo, in forza del quale “Per le cessioni aventi ad oggetto i beni immobili (…) la prova di cui al precedente periodo s’intende integrata anche se l’infedeltà dei relativi ricavi viene desunta sulla base del valore normale dei predetti beni”) la corrispondenza tra prezzo pattuito e valore normale del bene ceduto continua ad avere valore di “mera presunzione semplice”, ossia di mero indizio, insufficiente da sola a integrare presunzione grave, precisa e concordante dell’esistenza di corrispettivi non dichiarati.

Poichè la cessione in esame è stata posta in essere nel 2005, lo scostamento in oggetto non può che assumere mero valore indiziario, da combinare con altri, concordanti, elementi dotati del medesimo valore, di cui, però, nell’avviso di accertamento non si fa menzione.

4. Il secondo ed il terzo motivo, strettamente connessi, possono essere trattati unitariatamente e sono infondati.

Le censure rivolte alla sentenza impugnata non si confrontano con la ratio decidendi, se si tiene conto che i giudici regionali hanno confermato la ripresa a tassazione affermando che l’Amministrazione ha dato prova dell’antieconomicità dell’operazione di cessione dell’immobile posta in essere, perchè effettuata con una perdita di Euro 1.667.341,00, e che, a fronte di tale comportamento, sintomatico di possibili violazioni tributarie, la contribuente non ha offerto prova contraria idonea a superare le presunzioni gravi, precise e concordanti emergenti dall’avviso di accertamento, essendosi limitata a dedurre che, a causa di problemi burocratici, era risultata incerta la possibilità di completare i lavori già programmati e che, avendo nel frattempo ricevuto una nota di credito per la riduzione del prezzo, aveva proceduto alla rivendita dell’immobile ancora in costruzione ad un prezzo inferiore al valore contabile iscritto in bilancio.

Hanno, inoltre, sottolineato che l’Ufficio ha tenuto conto della nota di credito, iscritta nel conto economico, e che la società non ha neppure fornito prova del valore venale del bene.

La Commissione regionale, con apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, ha dunque posto a fondamento del decisum il criterio dell’antieconomicità, attribuendo valore presuntivo dotato dei requisiti richiesti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) agli elementi di fatto evidenziati dall’Agenzia delle Entrate e negando valore di prova contraria idonea a superare la presunzione alle deduzioni difensive svolte dalla società contribuente, senza fare riferimento ad un presunto scostamento tra “valore normale” del bene oggetto di cessione e corrispettivo pattuito dalle parti nell’atto di compravendita.

Non sussistono, pertanto, i profili di violazione di legge denunciati in relazione al metodo di accertamento impiegato, dato che la decisione impugnata si è esplicitamente conformata all’orientamento di questa Corte secondo cui il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) consente l’accertamento induttivo del reddito, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente ed essenzialmente inattendibile, in quanto confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza, potendo il giudizio di non affidabilità della documentazione fiscale essere determinato dall’abnormità dell’espressione finale.

Infatti, una volta contestata dall’erario l’antieconomicità di un’operazione posta in essere dal contribuente che sia imprenditore commerciale, diviene onere del contribuente stesso dimostrare la liceità fiscale della suddetta operazione e il giudice tributario non può limitarsi a constatarne la regolarità cartacea (Cass. 18 maggio 2007, n. 11599).

Conseguentemente, qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto contrastante con i criteri di ragionevolezza, riguardo all’antieconomicità del comportamento del contribuente, è consentito al fisco dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere minori costi o maggiori ricavi utilizzando presunzioni semplici e obiettivi parametri di riferimento, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (Cass. 16 gennaio 2009, n. 951; Cass. 14 giugno 2013, n. 14941).

Dunque, a fronte della specifica indicazione degli indici che depongono per l’inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste e della contestazione della loro astratta idoneità a rappresentare una diversa capacità contributiva, il fisco non deve fornire ulteriori prove, se non quanto emerge dal procedimento logico fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, soprattutto in relazione alla contestata antieconomicità della stessa, non potendosi ovviamente invocare l’apparente regolarità contrattuale e contabile, proprio perchè una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni di valore di gran lunga eccedente quello effettivo (Cass. 16 gennaio 2009, n. 951 cit.).

In riferimento al caso concreto, dinanzi ad un avviso di accertamento il quale evidenziava che la società aveva venduto l’immobile nel 2005 ad un prezzo notevolmente inferiore a quello dell’acquisto, avvenuto circa due anni prima (nel 2003), e contabilizzato in bilancio, nonostante fossero state sostenute spese per opere di ristrutturazione e lavori di migliorie, risulta del tutto legittima la contestazione della veridicità delle registrazioni riportate in contabilità, in assenza di prova della ragionevolezza economica dell’operazione oggetto di contestazione, e, quindi, del tutto corretta la valutazione operata dai giudici di merito.

5. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia nullità della sentenza per omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., con riferimento al motivo subordinato di appello relativo al mancato scomputo, dal maggior reddito accertato per l’anno 2005, delle perdite maturate dalla stessa contribuente negli esercizi precedenti (anni 2003 e 2004), riportate nel Modello unico 2006 e nelle dichiarazioni relative agli anni successivi.

5.1. La doglianza non merita accoglimento.

5.2. Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., Sez. 1-, ordinanza n. 24155 del 13/10/2017; Cass. n. 29191 del 6/12/2017; Cass. n. 20718 del 13/8/2018).

La Commissione regionale, rigettando integralmente l’appello della contribuente, ha implicitamente ritenuto legittimo l’accertamento effettuato ed infondata la doglianza fatta valere dalla contribuente con il motivo di gravame formulato in via subordinata.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Nulla deve disporsi in merito alle spese di lite, in difetto di attività difensiva dell’Agenzia delle Entrate.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 ottobre 2019.

Depositato in cancelleria il 20 dicembre 2019

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