Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34214 del 20/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 20/12/2019, (ud. 22/10/2019, dep. 20/12/2019), n.34214

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10859/2015 R.G. proposto da:

C.A. e CO.MA., entrambi rappresentati e difesi,

per procure speciali in atti, dall’Avv. Vincenzo D’Ambrosio, con

domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Battipaglia,

via Istria, n. 19/H;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale della

Campania-sezione staccata di Salerno, n. 8961/02/14, depositata in

data 22 ottobre 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 ottobre

2019 dal Consigliere Dott. Cataldi Michele.

Fatto

RILEVATO

che:

1. C.A. e Co.Ma. propongono ricorso, affidato a nove motivi, per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria regionale della Campania-sezione staccata di Salerno, n. 8961/02/14, depositata in data 22 ottobre 2014, che ha parzialmente accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Napoli che, dopo averli riuniti, aveva accolto I ricorsi dei predetti contribuenti contro gli avvisi con i quali l’Ufficio, relativamente all’anno d’imposta 2004, in materia di Irpef, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 38, all’esito di indagini bancarie, aveva accertato in maniera sintetica, in capo ad C.A. un reddito imponibile di Euro 2.777.000,00, ed in capo a Co.Ma. un reddito imponibile di Euro 738.606,00, rideterminando pertanto, per ciascuno dei contribuenti, la conseguente maggior imposta, con interessi e sanzioni.

2. L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1.Deve premettersi che nel ricorso, accanto alla formulazione di ciascun motivo, non viene indicato a quale delle censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1 il ricorrente intenda ricondurlo. Tale omissione, di per sè sola, non determina l’inammissibilità dei motivi, nei limiti in cui ciascuno di essi sia comunque riconducibile, in maniera immediata ed inequivocabile, ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (cfr. Cass., Sez. U., 24/07/2013, n. 17931; Cass. 07/05/2018, n. 1086).

2.Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano l’inesistenza della notifica dell’appello dell’Agenzia, perchè notificata, a mezzo posta, agli appellati contribuenti, presso il loro difensore tecnico nel primo grado di merito, in unica copia e senza apposizione della relata di notifica sulla copia dell’atto consegnata ai destinatari.

Il motivo – che dalla sua complessiva formulazione risulta riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – come eccepito dalla controricorrente, è inammissibile, in quanto proposto per la prima volta in questa sede.

Infatti, dalla sentenza impugnata, non risulta la proposizione del medesimo motivo già nel giudizio d’appello, nel quale i contribuenti si erano costituiti. Nè, comunque, nel proporre in questa sede il relativo motivo, i ricorrenti hanno dedotto di avere sollevato identica eccezione nel giudizio a quo.

3.Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano l’inammissibilità dell’appello dell’Agenzia, perchè tardivo, atteso che la notifica a mezzo posta dell’impugnazione sarebbe stata spedita in data 22 novembre 2011, “come risulta dalla visura sul sito Internet di “Poste Italiane””, e non il 21 novembre 2011, come rilevato nella motivazione della sentenza della CTR, mentre il termine semestrale di cui all’art. 327 c.p.c. sarebbe comunque scaduto, secondo i ricorrenti, il 19 novembre 2011.

Il motivo- che dalla sua complessiva formulazione risulta riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – è inammissibile. Infatti, il termine semestrale di decadenza dall’impugnazione, a far data dalla sentenza della CTP del 4 aprile 2011, scadeva, tenuto conto della sospensione feriale, sabato 19 novembre 2011, ed era quindi prorogato al successivo lunedì 21 novembre 2011, data nella quale la CTR colloca la spedizione della notifica a mezzo posta dell’appello.

Per contrastare tale conclusione, i ricorrenti invocano la diversa risultanza tratta “dalla visura sul sito internet di “Poste Italiane””, senza indicare, come era loro onere, se, ed in quale fase e grado, abbiano prodotto in giudizio tale documentazione.

Infatti, nel processo tributario di cassazione il ricorrente, pur non essendo tenuto a produrre nuovamente i documenti, in ragione dell’indisponibilità del fascicolo di parte che resta acquisito, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 25, comma 2, al fascicolo d’ufficio del giudizio svoltosi dinanzi alla commissione tributaria – del quale è sufficiente la richiesta di trasmissione ex art. 369 c.p.c., comma 3, – deve rispettare, a pena d’inammissibilità del ricorso, il diverso onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass. 15/01/2019, n. 777).

Inoltre, il motivo è comunque infondato, atteso che la predetta visura sarebbe comunque inidonea a surrogare, o a contraddire, in ordine alla data della spedizione, le risultanze del timbro postale, che fa fede ai fini della regolarità della notificazione (cfr. Cass. 28/11/2014, n. 25285).

4.Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano l’inesistenza e l’illegittimità della notifica dell’avviso d’accertamento, in quanto effettuata direttamente a mezzo del servizio postale.

Nella sostanza, i ricorrenti contestano che l’accertamento è stato loro notificato mediante spedizione postale diretta in plico raccomandato, con conseguente mancanza di relata di notifica da parte dell’ufficiale giudiziario.

Il motivo – che dalla sua complessiva formulazione risulta riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – è infondato.

Infatti, in tema di notificazioni a mezzo posta, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, l’avviso di accertamento o liquidazione senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla legge citata attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c.. Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato nella impossibilità senza sua colpa di prenderne cognizione (Cass. 15/07/2016, n. 14501).

Inoltre, costituisce un principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità che la natura sostanziale e non processuale (nè assimilabile a quella processuale) dell’avviso di accertamento tributario – che costituisce un atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l’amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributaria – non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria. Pertanto, l’applicazione, per l’avviso di accertamento, in virtù del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, delle norme sulle notificazioni nel processo civile comporta, quale logica necessità, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato, con la conseguenza che la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto, ex art. 156 c.p.c., ove (circostanza non contestata, nel caso di specie) il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta – per l’esercizio del potere di accertamento (Cass. Sez. U, 05/10/2004, n. 19854; conforme, ex plurimis, Cass. 31/01/2011, n. 2272).

Altrettanto consolidato è l’ulteriore sviluppo dello stesso principio elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale l’effetto sanante derivante dal conseguimento dello scopo, avuto riguardo alla funzione della notifica dell’atto impositivo, si verifica anche quando quest’ultima sia inesistente.

E’ stato infatti chiarito che, in tema di atti d’imposizione tributaria, la notificazione non è un requisito di giuridica esistenza e perfezionamento, ma una condizione integrativa d’efficacia, sicchè la sua inesistenza o invalidità non determina in via automatica l’inesistenza dell’atto, quando ne risulti inequivocamente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso per l’esercizio dei potere all’Amministrazione finanziaria, su cui grava il relativo onere probatorio (Cass. 24/04/2015, n. 8374; conforme, ex plurimis, Cass. 24/08/2018, n. 21071 e, con ulteriore specifico riferimento all’ipotesi nella quale la notifica dell’accertamento sia inesistente, Cass. 30/01/2018, n. 2203).

Inoltre, con riferimento alla notifica degli atti processuali, è stato precisato (Cass. 20/07/2016, n. 14916) che l’inesistenza della notificazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, ex lege, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.

5.Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano l’illegittimità dell’avviso d’accertamento, in quanto tra la notifica (il 10 novembre 2009) dell’invito a comparire di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 2, ed il conseguente primo verbale di contraddittorio con l’Ufficio (il 19 novembre 2011) è intercorso un termine inferiore ai quindici giorni di cui alla predetta norma. Inoltre, secondo i ricorrenti, la motivazione dello stesso invito era generica in ordine all’oggetto della convocazione.

Il motivo – che dalla sua complessiva formulazione risulta riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – è inammissibile, in quanto i ricorrenti non indicano se, ed in quale fase e grado, abbiano prodotto in giudizio l’invito in questione e la documentazione relativa alla sua notifica.

Inoltre, il motivo è comunque infondato, atteso che (Cass.,29/01/2014, n. 1857, ex plurimis), in tema di accertamento delle imposte sul reddito, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, sancisce la mera facoltà, e non l’obbligo, per l’Ufficio, di invitare il contribuente a fornire dati e notizie in ordine agli accertamenti bancari, sicchè, come la sua omissione, anche l’esistenza di eventuali, lievi difformità dell’invito stesso rispetto al modello legale, soprattutto quando esso sia comunque idoneo a garantire al contribuente l’esercizio del diritto di difesa, non determina l’invalidità dell’accertamento induttivo sintetico operato dall’Amministrazione finanziaria ai sensi del citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. d-bis). (Nella specie, la S.C. confermando la sentenza impugnata, ha ritenuto legittimo un avviso di accertamento emesso, ai fini IRPEF, a seguito della notifica di un invito del suddetto D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 32 che, benchè carente dell’indicazione dell’oggetto dei chiarimenti da richiedere al contribuente e recante un termine per l’esibizione dei documenti inferiore a quindici giorni, conteneva pur sempre il chiaro invito al medesimo, rimasto peraltro inadempiuto anche nei diversi gradi del giudizio, a produrre la documentazione contabile ed amministrativa relativa all’anno di imposta oggetto di verifica).

6.Con il quinto ed il sesto motivo, da trattare congiuntamente, i ricorrenti lamentano la violazione della L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 24 e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, per non avere il giudice a quo ritenuto l’illegittimità dell’accertamento, in quanto non preceduto dalla redazione e dalla notifica al contribuente di un processo verbale di constatazione.

I motivi – che dalla loro complessiva formulazione risultano riconducibili all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – si risolvono, nella sostanza, nella denuncia del mancato contraddittorio endoprocedimentale, per violazione del termine dilatorio di sessanta giorni dal rilascio ai contribuenti della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni di cui al predetto L. 212 del 2000, art. 12, comma 7, con assunta violazione delle attività difensive, non meglio specificate, che in tale frazione temporale i ricorrenti avrebbero potuto esercitare.

I motivi sono infondati.

Infatti, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, non sussiste, in generale, per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti in materia di contributi non “armonizzati” – quale l’Irpef, della quale si discute nel caso di specie- ed assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. “a tavolino” (cfr. Cass., Sez. U., 09/12/2015, n. 24823).

Tanto premesso, con riferimento all’avviso d’accertamento sub iudice, la normativa nazionale non imponeva, a pena di nullità, il contraddittorio endoprocedimentale con il contribuente.

Infatti, l’invito al contraddittorio previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, costituisce uno dei poteri istruttori esercitabili dall’Ufficio in via generale, anche per richiedere spiegazioni in ordine ai dati desumibili dalla documentazione bancaria acquisita ai sensi dello stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 7, e, in quanto passaggio procedimentale facoltativo, non integra una ipotesi di contraddittorio preventivo obbligatorio con il contribuente destinatario degli accertamenti bancari, che sia specificamente previsto dalla legge a pena di illegittimità della successiva emissione dell’atto impositivo (Cass. 28/02/2017, n. 5135, in motivazione).

In tal senso questa Corte ha quindi stabilito che ia legittimità della ricostruzione della base imponibile, mediante l’utilizzo delle movimentazioni bancarie acquisite, non è subordinata al contraddittorio con il contribuente, anticipato alla fase amministrativa, in quanto l’invito a fornire dati, notizie e chiarimenti in ordine alle operazioni annotate nei conti bancari costituisce per l’Ufficio una mera facoltà, da esercitarsi in piena discrezionalità, e non un obbligo, sicchè dal mancato esercizio di tale facoltà non deriva alcuna illegittimità della rettifica operata in base ai relativi accertamenti (Cass. 05/12/2014, n. 25770).

Quanto poi all’accertamento sintetico D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, in virtù del comma 7 della stessa norma, nella formulazione introdotta dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 22, comma 1, convertito dalla L. n. 122 del 2010, applicabile, però, solo dal periodo d’imposta 2009, per cui gli accertamenti relativi alle precedenti annualità (come quello di cui si controverte, relativo all’anno d’imposta 2006) sono legittimi anche senza l’instaurazione del contraddittorio precedente alla loro emissione (Cass. 31/05/2016, n. 11283).

Infatti, il D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, ha disposto, con specifica norma di diritto transitorio, che le modifiche operano in relazione agli “accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto” e quindi la norma ha effetto dal periodo d’imposta 2009 (cfr. Cass. 06/10/2014, n. 21041; Cass. 06/11/2015, n. 22746). In particolare, poi, il termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, non opera nell’ipotesi di accertamenti cd. “a tavolino”, salvo che riguardino tributi “armonizzati” (Cass. 29/10/2018, n. 27420), ma esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita (attività imprenditoriale o professionale del contribuente (Cass. 19/10/2017, n. 24636).

Deve pertanto escludersi, con riferimento all’accertamento controverso, ogni possibile rilevanza della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, che disciplina gli “accessi, ispezioni e verifiche fiscali nei locali”, fattispecie che neppure il ricorrente ha dedotto sussistere nel caso di specie.

7. Con il settimo motivo, i ricorrenti lamentano l’illegittimità della motivazione dell’avviso d’accertamento, relativamente alla rideterminazione, da parte dell’ufficio, del reddito imponibile, “ridefinito sinteticamente in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 38 e dell’art. 53 Cost.”.

Il motivo – che dalla sua complessiva formulazione risulta riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 11, n. 3, – si articola in una complessa serie di censure.

7.1. Con la prima censura, invero piuttosto generica, i ricorrenti

sembrano negare la rilevanza presuntiva degli esiti delle indagini bancarie di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in particolare nei confronti di contribuenti non obbligati alla tenuta delle scritture contabili.

Al riguardo, questa Corte, con orientamento cui si intende dare continuità, ha già chiarito che, in tema d’imposte sui redditi, la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari giusta il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2; tuttavia, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti (Cass.16/11/2018, n. 29572. Nello stesso senso, ex plurimis, Cass. 20/01/2017, n. 1519; Cass. 28/02/2017, n. 5152 e n. 5153; Cass. 09/08/2017, n. 19806; Cass. 09/08/2016, n. 16697).

Peraltro, nella fattispecie sub iudice, la CTR, in conformità all’interpretazione che poi ha trovato conferma nella pronuncia (Corte Cost., sent. n. 228 del 6/10/ 2014), di illegittimità costituzionale parziale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2, ha escluso, dalla ricostruzione sintetica dei redditi, i prelevamenti, non essendo i ricorrenti imprenditori.

7.2. Con la seconda censura, i ricorrenti lamentano che l’Ufficio, ed il giudice a quo, avrebbero errato nel ritenere legittimo l’accertamento nei confronti del contribuente, benchè la verifica sulla movimentazione dei conti correnti, rivolta nei confronti della A.M. Immobiliare s.r.l., sia stata loro estesa, in quanto soci, senza allegare e provare che l’intestazione del conto corrente fosse fittizia e che il rapporto bancario fosse comunque riconducibile alla predetta società. La censura è inammissibile, atteso che l’argomentazione relativa alla riconducibilità del conto indagato, e delle sue risultanze, alla s.r.l., non trova corrispondenza nella ratio decidendi della sentenza impugnata, nella cui motivazione viene precisato che gli accertamenti non riguardano redditi non dichiarati dalla predetta società, ma “evasi dai soci quali persone fisiche”. Nè comunque il ricorrente trascrive, o comunque individua, sul punto una diversa argomentazione che sia stata spesa dall’Ufficio nella motivazione dell’avviso controverso.

7.3. Con la terza censura, i ricorrenti lamentano che l’Ufficio, ed

il giudice a quo, avrebbero errato nel ritenere legittimo l’accertamento, benchè la determinazione sintetica del reddito sia stata preceduta, e non seguita, dalle indagini finanziarie di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32. Assumono infatti i ricorrenti che l’Ufficio avrebbe dovuto prima determinare la pretesa tributarla con l’accertamento sintetico previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, e solo successivamente avrebbe dovuto valutare l’opportunità di esperire anche le indagini finanziarie nei confronti del contribuente, come strumento di completamento del precedente accertamento.

La censura è inammissibile, atteso che non chiarisce specificamente (se non citando un ridotto estratto da una circolare amministrativa, che comunque non potrebbe condizionare l’interpretazione del dato normativo esplicito sui punto) le ragioni di una tesi in palese contrasto con il chiaro dato testuale del ridetto art. 32, comma 1, n. 2, secondo il quale ” (…) I dati ed elementi attinenti ai rapporti ed alle operazioni acquisiti e rilevati rispettivamente a norma del numero 7) e dell’art. 33, commi 2 e 3, o acquisiti ai sensi del D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504, art. 18, comma 3, lett. b), sono posti a base delle rettifiche e degli accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41(…) “. Il richiamo agli esiti delle indagini finanziarie di cui al comma 7, quali possibili basi dell’accertamento sintetico di cui all’art. 38, evidenzia quindi la relazione funzionale che può intercorrere tra i due istituti, nei termini negati invece dai ricorrenti.

8.L’ottavo motivo – che dalla sua complessiva formulazione risulta riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – è composto da più censure.

8.1. Con la prima censura, i ricorrenti lamentano l’illegittimità della motivazione dell’avviso d’accertamento, relativamente alla mancata indicazione dei presupposti che avrebbero giustificato il ricorso ai metodo sintetico, in correlazione alla mancata qualificazione della natura del reddito accertato sinteticamente in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42.

La censura è inammissibile.

Infatti, i ricorrenti, che ne erano onerati a pena d’inammissibilità (Cass. 19/04/2013, n. 9536, ex plurimis), non hanno trascritto, nel motivo, la motivazione dell’accertamento impugnato, quanto meno nell’intera parte relativa ai risultati delle indagini finanziarie, ma si è limitato ad estratti, della medesima motivazione, che danno atto, in generale ed in conformità a quanto già argomentato sul punto, dell’idoneità dell’esito delle indagini finanziarie a costituire la base dell’accertamento sintetico, e che concludono in ordine agli importi non giustificati dal contribuente. Tale parziale riproduzione di parti distinte del dettato motivazionale non è quindi idonea ad evidenziarne l’intero contenuto rilevante rispetto alle omissioni che il ricorrente pretende di imputare all’atto impositivo.

E comunque, quanto alla pretesa mancata individuazione della specie del maggior reddito accertato, il motivo è inammissibile perchè ignora la ratio decidendi ricavabile, sul punto, dalla motivazione della sentenza impugnata, laddove si esclude, per quanto rileva ai fini della controversia, che ai contribuenti sia stato imputato reddito derivante da impresa o da lavoro autonomo.

Inoltre, il motivo è altresì infondato, atteso che con il metodo sintetico il reddito viene determinato, sulla base di elementi indicativi idonei a fondare la presunzione – fino a prova contraria- di capacità contributiva maggiore di quella dichiarata, prescindendo dall’individuazione della specifica fonte produttiva.

Ed infatti, sul presupposto della non necessaria individuazione della specie del reddito accertato sinteticamente, lo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 7, ultimo periodo, sia pur agli effetti dell’imposta locale sui redditi, dispone la presunzione legale reiativa secondo cui ” ii maggior reddito accertato sinteticamente è considerato reddito di capitale”, facendo tuttavia ” salva la facoltà del contribuente di provarne l’appartenenza ad altre categorie di redditi”, ipotesi non verificatasi nel caso di specie, neppure quale mera allegazione dei ricorrenti.

8.2. Con la seconda censura, i ricorrenti lamentano l’illegittimità

dell’avviso d’accertamento, per non avere la ricostruzione sintetica tenuto conto dei costi necessari per produrre il maggior reddito relativamente alla mancata indicazione dei presupposti che avrebbero giustificato il ricorso al metodo sintetico, in correlazione alla mancata qualificazione della natura del reddito accertato sinteticamente in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42.

La censura è inammissibile per violazione del requisito di specificità del motivo di ricorso per cassazione, di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3,4 e 6, atteso che il ricorrente non allega quali sarebbero i costi in questione, nè su quali documenti (con la necessaria indicazione del grado e della fase nei quali siano stati prodotti nel giudizio di merito) dovrebbe fondarsi il loro riscontro istruttorio.

Infatti, nel processo tributario di cassazione il ricorrente, pur non essendo tenuto a produrre nuovamente i documenti, in ragione dell’indisponibilità del fascicolo di parte che resta acquisito, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 25, comma 2, al fascicolo d’ufficio del giudizio svoltosi dinanzi alla commissione tributaria – del quale è sufficiente la richiesta di trasmissione ex art. 369 c.p.c., comma 3 – deve rispettare, a pena d’inammissibilità del ricorso, il diverso onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass. 15/01/2019, n. 777).

Inoltre, come anche recentemente ribadito (Cass. 12/05/2017, n. 11879, in motivazione), secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, soltanto in caso di accertamento induttivo puro, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2, il Fisco deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfetaria dei costi di produzione, mentre in ipotesi di accertamento analitico o analitico presuntivo (come le indagini bancarie), è il contribuente che deve dimostrare, con onere probatorio a suo carico, l’esistenza dei presupposti per la deducibilità di costi afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa o debba procedere al riconoscimento forfetario di componenti negativi (Cass.28/11/2014, n. 25317; Cass. 01/10/2014, n. 20679).

9.Con il nono motivo, i ricorrenti lamentano l’illegittimità degli avvisi d’accertamento per “violazione e falsa applicazione dell’art. 38 TUIR, comma 4, dello Statuto dei diritti del contribuente, art. 12 e della L. n. 241 del 1990, art. 3 “.

Assumono infatti i ricorrenti che l’accertamento sarebbe illegittimo, in conseguenza della mancata allegazione ad esso del provvedimento di autorizzazione alle indagini finanziarie, che peraltro avrebbero avuto l’iniziale finalità ispettiva nei confronti della s.r.l. della quale i due contribuenti erano soci, sebbene poi i loro esiti siano stati utilizzati per accertamenti nei confronti di questi ultimi.

Il motivo – che dalla sua complessiva formulazione risulta riconducibile all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – è infondato.

Infatti, in tema di accertamento delle imposte, l’autorizzazione alle indagini finanziarie nonostante il nomen iuris adottato, esplica una funzione organizzativa, incidente esclusivamente nei rapporti tra uffici e non richiede motivazione (Cass. 03/08/2012, n. 14026), sicchè la sua mancata allegazione ed esibizione all’interessato non comporta l’illegittimità dell’avviso di accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie acquisite, che può derivare solo dalla sua materiale assenza e sempre che ne sia derivato un concreto pregiudizio per il contribuente (Cass. 10/02/2017, n. 3628, ex plurimis), circostanze non allegate dai ricorrente.

Inoltre, la stessa mancanza – e quindi, tanto più, i vizi – del relativo provvedimento di autorizzazione, in conformità alla concezione sostanzialistica dell’interesse del privato alla legittimità del provvedimento amministrativo, espressa, in via generale, dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21-octies rende le indagini illegittime ove si sia tradotta in un concreto pregiudizio per il contribuente (Cass. 18/04/2018, n. 9480) e non implica, in assenza di previsioni specifiche, l’inutilizzabilità dei dati acquisiti, salvo che ne sia derivato un concreto pregiudizio al contribuente ovvero venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale dello stesso, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio, in quanto detta autorizzazione attiene solo ai rapporti interni ed in materia tributaria non vige il principio, invece sancito dai c.p.p., dell’inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita (Cass. 28/05/2018, n. 13353).

Nel caso di specie, i ricorrenti non hanno allegato uno specifico pregiudizio, o la lesione di diritti fondamentali di rango costituzionale, che sarebbero loro derivati dalle pretese anomalie del procedimento autorizzatorio.

10. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido a rifondere alla controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 7.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 ottobre 2019.

Depositato in cancelleria il 20 dicembre 2019

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