Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34189 del 20/12/2019

Cassazione civile sez. lav., 20/12/2019, (ud. 10/07/2019, dep. 20/12/2019), n.34189

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 26753/2016 proposto da:

I.N.I. – ISTITUTO NEUROTRAUMATOLOGICO ITALIANO S.P.A. (già I.N.I. –

ISTITUTO NEUROTRAUMATOLOGICO ITALIANO S.R.L.), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio degli avvocati MARCO MARAZZA e

DOMENICO DE FEO, che lo rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

I.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CARLO POMA

2, presso lo studio dell’avvocato MASSIMILIANO PUCCI, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3691/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/07/2016 R.G.N. 3782/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/07/2019 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato PAOLA PIGNATARO per delega Avvocato MARCO MARAZZA;

udito l’Avvocato MASSIMILIANO PUCCI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso al Tribunale di Roma I.C. conveniva in giudizio INI Istituto NEurotraumatologico s.p.a. (INI s.p.a.) ed esponeva di aver lavorato come fisioterapista presso la struttura “(OMISSIS)” del Gruppo INI s.r.l. tra il giugno 2007 ed il gennaio 2012 in virtù di contratti di opera professionale. Deduceva che in realtà la sua attività si era svolta in regime di subordinazione e pertanto chiedeva che venisse accertata e dichiarata la nullità dei contratti a progetto del 1 gennaio 2008, del 2 gennaio 2009 e del 2 gennaio 2011 e/o la conversione in contratto a tempo indeterminato a decorrere dal 18 giugno 2007 o da altra data da accertare, dichiarando l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato con la stessa decorrenza e con tutte le conseguenze di legge ordinandone alla convenuta il ripristino e condannandola al pagamento delle retribuzioni dal 3 settembre 2012 e fino al ripristino. Chiedeva inoltre che si accertasse e dichiarasse ai sensi dell’art. 2103 c.c., il suo diritto ad essere inquadrata al livello D1 del c.c.n.l. delle case di cura -AIOP fin dal 18 giugno 2007 con condanna della convenuta al pagamento della somma di Euro 77.089,78 oltre interessi e rivalutazione monetaria.

2. Si costituiva INI s.p.a. ed eccepiva, preliminarmente, l’intervenuta decadenza ai sensi della L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32; insisteva nella natura autonoma dei contratti intercorsi tra le parti, stipulati ai sensi degli artt. 2222 e 2229 c.c., stante l’assenza di etero direzione da parte della società; deduceva

l’inconferenza del richiamo operato al D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, artt. 61 e segg.; contestava l’inquadramento rivendicato e le conseguenti pretese economiche e, in ultimo, insisteva per l’applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, per il caso di conversione del rapporto.

3. Il Tribunale di Roma, con sentenza non definitiva, accertava la natura subordinata del rapporto intercorso tra le parti e condannava la società a ripristinarlo ed a risarcire alla I. il danno pari alle retribuzioni maturate dal 20 settembre 2012 alla sentenza oltre agli accessori dovuti per legge. Respingeva la domanda di condanna al pagamento del trattamento di fine rapporto e delle ex festività non godute. Disponeva la prosecuzione del giudizio per la definizione delle altre domande.

4. La Corte di appello di Roma, investita del gravame da parte dell’INI s.p.a., ha respinto la richiesta di riunione all’appello proposto avverso la sentenza definitiva successivamente intervenuta e, per quanto qui interessa, ha rigettato l’eccezione di decadenza ai sensi della L. n. 183 del 2010, art. 32, osservando che la disposizione invocata si riferisce al recesso del committente e al licenziamento intimato nel rapporto di lavoro subordinato. In ogni caso ha rilevato che la lavoratrice con la lettera del 16 febbraio 2012 non aveva inteso dimettersi ma aveva solo comunicato che fino al 1 settembre 2012 il rapporto sarebbe rimasto sospeso durante il suo congedo per maternità. Pertanto ha ritenuto che il rapporto non fosse cessato alla data di scadenza del contratto d’opera nè per effetto della ricordata lettera del 16 febbraio 2012 ed anzi fosse proseguito fino a quando la società, alla quale era stata offerta la prestazione, non ha rifiutato di riammettere in servizio la I. e, conclusivamente, ha escluso che il termine di decadenza potesse comunque essere decorso. Quanto alla disciplina applicabile al rapporto intercorso tra le parti, la Corte di merito ha ritenuto che fosse applicabile la disciplina sul lavoro a progetto, ed in particolare il D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69. Ad avviso del giudice del gravame, infatti, il richiamo, nel testo del contratto, all’art. 2222 c.c., era riferito al contenuto della prestazione laddove invece dalle clausole contrattuali risultava evidente l’esistenza dei requisiti del coordinamento e della continuatività della prestazione che giustificavano l’applicazione della richiamata disciplina sul lavoro a progetto. Pertanto non essendo stata impugnata la statuizione della sentenza di primo grado che aveva accertato l’inesistenza del progetto, la Corte di merito ha confermato la natura a tempo indeterminato del rapporto per effetto della sanzione prevista dall’art. 69 ricordato. Ha poi escluso l’applicabilità della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, alla fattispecie in esame osservando che nel caso in esame non si controverte di conversione di contratto a termine, atteso che il rapporto convertito ex art. 69 D.Lgs. citato è continuato di fatto dopo la scadenza del termine fino al rifiuto della prestazione da parte della società successivamente al periodo di interdizione per gravidanza (quanto meno fino alla data di offerta della prestazione il 17/20.9.2012). Conseguentemente, al pari del primo giudice, ha applicato la disciplina comune del risarcimento del danno parametrandolo alle retribuzioni spettanti per il periodo dal 20.9.2012 al 18.2.2014, con riguardo alla qualifica D1 che ha confermato, da cui la Corte ha detratto, in parziale accoglimento del gravame, la somma di Euro 6.432,00 altrimenti percepita dalla lavoratrice nel periodo in considerazione.

5. INI s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a tre motivi. I.C. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c., in occasione dell’adunanza camerale del 20 febbraio 2012 nel corso della quale la controversia è stata rinviata a nuovo ruolo per la fissazione in pubblica udienza. Ini s.p.a. ha poi depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

6.1. Sostiene la ricorrente che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che alla fattispecie in esame non si applicasse la disciplina della decadenza prevista dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, senza considerare che una interpretazione del comma 3, lett. b) della citata norma che escluda dalla applicazione della decadenza i rapporti ex art. 2222 c.c. e le altre forme di collaborazione autonoma quali ad esempio le associazioni in partecipazione che si concludono spesso per cause diverse dal recesso del committente – quali lo spirare del termine o il recesso del collaboratore – determina una irragionevole disparità di trattamento tra la posizione del prestatore che veda risolto il rapporto per recesso del committente, obbligato a impugnare nel termine di sessanta giorni, e quella del collaboratore il cui rapporto si risolva per effetto dello spirare del termine o per sue dimissioni che potrebbe rivendicare la natura subordinata del rapporto e chiedere la riammissione senza alcun termine. Allo stesso modo una tale interpretazione determinerebbe una disparità rispetto al regime previsto per i licenziamenti nel lavoro subordinato a tempo indeterminato e per le dimissioni, assoggettati i primi al termine di decadenza di sessanta giorni e le seconde al ristretto termine di sette giorni per la revoca. Sostiene allora che una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in esame richieda che al termine di decadenza previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, nel testo novellato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, siano assoggettati tutti i casi di risoluzione dei rapporti di lavoro autonomo e non solo quelli conseguenti al recesso del committente esplicitamentee previsto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 3, lett. b).

6.2. Sotto altro profilo, poi, osserva che il termine di decadenza doveva decorrere dalla data in cui il rapporto si era interrotto e non, come ritenuto dalla sentenza impugnata, dal momento in cui la lavoratrice, dopo la gravidanza e la maternità aveva chiesto di riprendere il servizio.

7. La censura è infondata e deve essere rigettata.

7.1. Si controverte in primo luogo dell’applicazione della L. 4 novembre 2010, art. 32, comma 3, lett. b), che estende le modifiche apportate alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 6, al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto, di cui all’art. 409 c.p.c., n. 3), al caso in cui il rapporto di collaborazione si risolva per effetto di un fatto diverso dall’iniziativa del committente quale lo spirare di un termine o il recesso dello stesso collaboratore.

7.2. Sembra utile rammentare che con la L. 183 del 2010, art. 32, è stata, tra l’altro, modificata la disciplina dettata dalla L. n. 604 del 1966, art. 6 e si è previsto, accanto al termine di decadenza di sessanta giorni per l’impugnazione stragiudiziale del licenziamento, termine che decorre “(…) dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’ essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale” anche un ulteriore termine entro il quale, pena l’inefficacia dell’impugnazione stragiudiziale proposta e la conseguente decadenza dall’azione, il lavoratore è tenuto a depositare il ricorso introduttivo della lite ovvero a comunicare alla controparte la richiesta di tentativo di conciliazione o di arbitrato. In tale ultimo caso, poi – ove sia rifiutata la conciliazione o l’arbitrato ovvero non sia raggiunto l’accordo – il lavoratore deve, a pena di decadenza depositare il ricorso nel termine di sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

7.3. Si tratta di disciplina che, introducendo termini rigorosi a pena di decadenza dall’esercizio del diritto, ha inteso eliminare prolungate situazioni di assoluta incertezza per le parti assicurando una più sollecita definizione degli assetti giuridici tra le parti in una rosa di casi minuziosamente indicati dalla L. n. 183 del 2010, art. 32.

7.4. L’entrata in vigore dell’assetto più rigoroso introdotto con la novella alla L. n. 604 del 1966, art. 6 – la cui applicazione è stata estesa ai sensi dell’art. 32, commi 3 e 4, più volte ricordato anche ad altre ipotesi diverse dal licenziamento – è stata differita al 31 dicembre 2011 (D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, art. 2, comma 54, convertito con modificazioni nella L. 26 febbraio 2011, n. 10) con riguardo a tutti gli ambiti di novità della disposizione novellata (cfr. Cass. 23/04/2014 n. 9203, 07/07/2014 n. 15434) ed a tutti gli incombenti introdotti, sia nelle fattispecie già soggette all’onere di impugnazione stragiudiziale (cfr. Cass. 10/07/2015 n. 14406 e 23/11/2016n. 23865), sia negli ulteriori casi introdotti con della L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 3 e 4.

7.5. Pur dopo qualche iniziale incertezza (cfr. Cass. 27/10/2015 n. 21916 e 08/02/2016n. 2462) si è consolidato l’orientamento che applica anche ai contratti esauritisi prima dell’entrata in vigore della L. n. 183 del 2010, i termini di impugnazione introdotti dalle norme citate, sempre fatto salvo il ricordato differimento (cfr. Cass. 08/02/2016 n. 2420 e 27/03/2017n. 7788). Si è osservato infatti che “la ratio del differimento dell’applicabilità del nuovo regime decadenziale risiede nell’esigenza di evitare che l’immediata decorrenza di un termine decadenziale, prima non previsto, potesse pregiudicare chi, intenzionato a contestare la cessazione del rapporto di lavoro o le altre tipologie di atti datoriali indicati nell’art. 32 cit., si trovasse ad incorrere inconsapevolemente nella decadenza” (cfr. Cass. sez. U. 14/03/2016 n. 4913 in motivazione ma già Cass. 10/02/2015 n. 2494 ed altre successive v. Cass. 14/12/2015 n. 25103). Peranto, in una lettura costituzionalmente orientata della disposizione, la si è estesa, in funzione di garanzia, anche a casi diversi da quelli espressamente indicati nella norma che ha disposto il differimento (riferita alla sola impugnativa del licenziamento).

7.6. La preoccupazione di interpretare le disposizioni in esame nel rispetto del principio di eguaglianza – che non avrebbe potuto tollerare una differenziazione che limitasse il differimento alla sola ipotesi dell’impugnativa del licenziamento ed escludesse le altre – è sintomatica della consapevolezza che le modificazioni introdotte al libero esercizio dell’azione, con l’introduzione di una procedimentalizzazione sanzionata con la decadenza, aveva carattere eccezionale.

7.7. Ed allora questa Corte, nell’interpretare le disposizioni introdotte con la L. n. 183 del 2010, art. 32, ne ha con attenzione, nel tempo, tratteggiato l’ambito di applicazione proponendone una lettura rigorosa.

7.8. Si è ad esempio valorizzata la previsione della necessità di una comunicazione scritta, dalla quale far decorrere il termine di decadenza, per escludere dall’ambito di applicazione della decadenza il caso del licenziamento che sia stato intimato oralmente proprio a cagione della mancanza di tale atto scritto (cfr. Cass. 11/01/2019 n. 523 e già 09/11/2015n. 22825). L’esistenza di una comunicazione scritta è uno degli elementi che caratterizzano l’applicazione della norma e, non a caso, con riguardo all’ipotesi del tutto estranea alla cessazione del rapporto di lavoro, del trasferimento ai sensi dell’art. 2103 c.c. – per il quale pure è prevista la necessità di impugnare stragiudizialmente il provvedimento a pena di decadenza e di depositare il ricorso nel termine dettato anche per i licenziamenti. La L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 3, lett. c), prevede espressamente che il termine decorra dalla data di ricezione della sua comunicazione.

7.9. Nel caso di cessione del contratto ai sensi dell’art. 2112 c.c., è invece dalla data del trasferimento che decorre il termine di decadenza e tuttavia questa Corte ha chiarito che l’ambito di applicazione della disposizione è limitato alla contestazione della legittimità e validità dei provvedimenti datoriali di risoluzione del rapporto (cfr. Cass. 21/05/2019 n. 13648). Si è evidenziato che l’espressione impugnare utilizzata dal legislatore nella L. n. 604 del 1966, art. 6 “equivale a contestare o confutare” e “l’estensione attuata dal citato art. 32, deve intendersi come diretta ad attrarre nella disciplina, prima limitata al solo licenziamento, una serie ulteriore di provvedimenti datoriali che il lavoratore intenda, appunto, impugnare, nel senso di contestarne la legittimità o la validità” (Cass. 13648 del 2019 cit.). Ne consegue che, condivisibilmente, vanno ritenute al di fuori del perimetro del citato art. 32 tutte le ipotesi in cui non vi siano provvedimenti datoriali da impugnare, per denunciarne la nullità o l’illegittimità. Nella previsione dell’art. 32, comma 4, lett. c), riferita ai casi di trasferimento d’azienda ciò che si presuppone non è il semplice avvicendamento nella gestione, ma, piuttosto, “l’opposizione del lavoratore ad atti posti in essere dal datore di lavoro dei quali si invochi l’illegittimità o l’invalidità con azioni dirette a richiedere il ripristino del rapporto nei termini precedenti, anche in capo al soggetto che si sostituisce al precedente datore, o ancora, (n.d.r. per il caso di cui all’art. 32, comma 4, lett. d), la domanda di accertamento del rapporto in capo al reale datore, fondata sulla natura fraudolenta del contratto formale” (cfr. Cass. 25/05/2017 n. 13179). Ancora una volta il profilo impugnatorio diventa decisivo discrimine dell’applicazione della disciplina sulla decadenza.

8. E’ questo il criterio da adottare nel verificare se il regime di decadenza dettato dal citato art. 32, sia o meno applicabile al di fuori dell’ipotesi prevista dal comma 3, lett. b) della citata disposizione che ne delimita l’estensione al solo caso del “recesso del committente”.

8.1. Quando un rapporto di collaborazione autonoma si risolva per effetto della manifestazione di volontà del collaboratore di voler recedere dal rapporto manca del tutto un atto che il lavoratore abbia interesse a “contestare o confutare”. Va ricordato che il legislatore, anche quando ha esteso l’obbligo di impugnazione stragiudiziale all’accertamento della natura del rapporto intercorso tra le parti, ai sensi dell’art. 32 citato, comma 3, lett. a), ha pur sempre precisato che per applicarsi il rigido regime di decadenza dall’azione la domanda si deve inserire nel contesto di una risoluzione del rapporto per volontà datoriale. Ed infatti la disposizione si applica ai “licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla legittimità del termine” così come nel caso di collaborazione autonoma, anche a progetto, è il recesso del committente a condizionare l’esercizio dell’azione alla preventiva impugnazione stragiudiziale dell’atto risolutorio realizzando la dimensione impugnatoria disciplinata dalla disposizione. L’atto di risoluzione del rapporto segna il discrimine da cui far decorrere il termine entro il quale comunicare la decisione di voler contestare la legittimità della scelta così come la data del trasferimento del contratto è quella dalla quale la cessione avvenuta ai sensi dell’art. 2112 c.c., deve essere impugnata (v. dell’art. 32, comma 4 lett. c)).

8.2. Nè è ravvisabile una disparità di trattamento irragionevole per il fatto che il lavoratore, in un rapporto sostanzialmente autonomo qual’è la collaborazione a progetto, che scelga di risolvere il rapporto, sia libero di esercitare l’azione nei termini di prescrizione mentre nel caso di recesso del committente abbia solo sessanta giorni dalla comunicazione del provvedimenti di recesso per opporvisi. Se, come si è detto, è la dimensione impugnatoria a qualificare le fattispecie per le quali il legislatore ha inteso prevedere un procedimento extragiudiziario di opposizione, l’assenza di un atto da impugnare rende le situazioni diverse e tra loro non confrontabili.

8.3. A maggior conferma di quanto appena detto si osserva che, infatti, laddove si è voluto prescindere dall’esistenza di uno specifico atto da impugnare, nel caso dell’azione di nullità del termine e nel caso di azione di costituzione o accertamento di un rapporto di lavoro in capo ad un soggetto diverso dal titolare del contratto (anche D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 27), ci si è preoccupati di indicarne specificatamente la fattispecie (art. 32, comma 3, lett. d) e comma 4, lett.d)).

9. Orbene, nel caso in esame, il giudice di merito ha accertato che la I. lavorò ininterrottamente, ed in virtù di una serie di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, dal 2007 al 16 febbraio 2012 quando comunicò alla odierna ricorrente che, in relazione al suo stato di gravidanza, si sarebbe assentata dal lavoro. Del pari,nel giudizio di merito, è stato accertato che il rapporto sarebbe dovuto cessare il 31 dicembre 2011 ma, in realtà, era di fatto proseguito, ininterrottamente, successivamente a tale data con le medesime modalità. Fu solo quando la I., al termine della maternità, chiese di riprendere il servizio che la società oppose il rifiuto a ripristinare il rapporto. E’ di tale comportamento che si è doluta la lavoratrice chiedendo al giudice di essere reintegrata. Prima di allora non vi era mai stato un atto di recesso ed è stato positivamente accertato che il rapporto, per le sue caratteristiche, era una collaborazione carente di progetto che perciò era divenuto a tempo indeterminato e se ne è ripristinata la funzionalità escludendo che l’attrice fosse decaduta dall’azione proposta non essendo tenuta, nel tempo antecedente la effettiva risoluzione del rapporto di lavoro così ricostruito ed in assenza di un atto di recesso del committente, ad attivare nei termini fissati dall’art. 32, la procedura stragiudiziale prevista dalla norma.

9.1. Si tratta di ricostruzione del tutto aderente al dettato normativo sopra ricostruito e, perciò, le conclusioni alle quali perviene la sentenza sono dal Collegio condivise e devono essere confermate.

10. Con il secondo motivo di ricorso la società si duole dell’avvenuta violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, per avere la Corte di merito qualificato il rapporto come collaborazione coordinata e continuativa sebbene nel ricorso introduttivo del giudizio la I. non avesse mai chiesto che si accertasse la sussistenza di un rapporto di lavoro così delineato. Ad avviso della società ricorrente, pertanto, la Corte di merito qualificando la collaborazione come contratto a progetto avrebbe alterato petitum e causa petendi e sarebbe incorsa nella denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c..

11. Con il terzo motivo di ricorso la INI s.p.a. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2222,2229 e 2967 c.c. e del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, oltre che degli artt. 112,115,116 e 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Sostiene la società che la Corte ha errato nel qualificare i rapporti intercorsi tra le parti come collaborazioni coordinate soggette alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. 61 e segg., sebbene la lavoratrice avesse ammesso in giudizio di aver stipulato dei contratti ai sensi dell’art. 2222 c.c. e non avesse mai chiesto al giudice di accertare che il rapporto d’opera intercorso tra le parti celasse una collaborazione coordinata e continuativa. Si trattava di rapporto che era formalmente sorto come collaborazione autonoma di una lavoratrice titolare di partita IVA le cui prestazioni erano pagate sulla base delle fatture dalla stessa rilasciate. Osserva che la presunzione dettata dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 69 bis, introdotta dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 26, non trova applicazione al rapporto intercorso tra le parti trattandosi di contratti antecedenti alla sua entrata in vigore ed, in definitiva, ritiene che la domanda era volta all’accertamento della natura subordinata del rapporto ed era onere della lavoratrice, che non vi ha adempiuto, provarne i presupposti.

12. Le censure, che possono essere esaminate congiuntamente in quanto investono sotto vari profili la ricostruzione della Corte di merito in termini di collaborazione coordinata e continuativa del rapporto intercorso tra le parti, sono in parte inammissibili ed in parte infondate.

12.1. In disparte la circostanza che la pronuncia d’ufficio da parte del giudice del merito su una domanda o un’eccezione che può essere fatta valere esclusivamente dalla parte interessata integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con la conseguenza che è inammissibile il motivo di ricorso con il quale siffatta censura sia proposta sotto il profilo della violazione di norme di diritto (riconducibile al n. 3 del citato art. 360) ovvero come vizio della motivazione, incasellabile nel n. 5) dello stesso art. 360 (cfr. Cass. 27/10/2014 n. 22759) rileva comunque il Collegio che la Corte di merito non è incorsa nella denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c., atteso che proprio per decidere sulla domanda avanzata dalla I. – con la quale si chiedeva, tra l’altro, di accertare che i contratti a progetto intercorsi tra le parti nel 2008, 2009 e 2011 erano nulli e si pretendeva che si accertasse perciò l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ordinandone il ripristino – era necessario accertare, anche al di là degli accordi sottoscritti dalle parti, l’esatta natura del rapporto.

12.2. Si tratta di un’ interpretazione della domanda che, demandata al giudice di merito, non incorre nel vizio denunciato e si basa su accertamenti in fatto che del pari non incorrono nelle violazioni di legge denunciate.

12.3. Va in primo luogo chiarito che la ricorrente nel denunciare il vizio di motivazione della sentenza non si confronta con il testo novellato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che limita il sindacato di legittimità sulla motivazione al “minimo costituzionale” di tal che è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, poichè attinente all’esistenza della motivazione in sè. Quanto all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza emerga dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), va ribadito che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (cfr. per tutte Cass. S.U. 07/04/2014 n. 8053).

12.4. Nel caso in esame la ricorrente si duole di una gestione non condivisibile del materiale probatorio ma non chiarisce quale sia il fatto decisivo pretermesso. Osservando che sarebbero state date per assodate circostanze tutt’altro che pacifiche quali, tra le altre, l’inserimento nell’organizzazione aziendale e l’esclusivo utilizzo di mezzi della società, nella sostanza, deduce una insufficienza o contraddittorietà della motivazione che esula dai confini del vizio oggi denunciabile.

12.5. Quanto alla denunciata violazione dell’art. 2222 c.c. e del D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61, la censura si risolve nella deduzione di una diversa interpretazione delle clausole contrattuali che hanno regolato il rapporto tra le parti dalle quali il giudice di primo grado, con ricostruzione confermata da quello di appello, ha desunto che l’attività di collaborazione si era svolta continuativamente sotto il coordinamento della società ritenendola perciò, condivisibilmente, assoggettabile alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 61.

12.6. Tuttavia non vengono esplicitati i criteri interpretativi che si assumono violati, con la conseguenza che non è possibile verificarne la fondatezza, nè viene riprodotta la sentenza di primo grado nella parte che la Corte di merito fa propria sicchè, per tale aspetto, la censura è generica.

13. In conclusione, per tutte le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato.

13.1. Tenuto conto della complessità della questione trattata e della sua novità si ravvisano i motivi previsti dall’art. 92 c.p.c., nel testo ratione temporis applicabile al procedimento per compensare tra le parti le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis del citato D.P.R..

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso.

Compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto, per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2019

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