Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34173 del 20/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 20/12/2019, (ud. 28/06/2019, dep. 20/12/2019), n.34173

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello – rel. Consigliere –

Dott. PERINU Renato – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 21729/2015 R.G. proposto da:

S.A. Des Eaux Minerales d’Evian, con gli avvocati Giuseppe Camosci e

Francesco Falcitelli, con domicilio eletto presso il loro studio in

Roma, alla via Giacomo Porro, n. 8;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, ed ivi domiciliata in via dei Portoghesi, n.

12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per

l’Abruzzo – Sezione staccata di Pescara, – Sez. 6 n. 158/06/15

depositata in data 12/02/2015 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 giugno

2019 dal Co: Marcello M. Fracanzani.

Fatto

RILEVATO

Con due istanze presentate il 3 aprile 2003 e il 25 febbraio 2004 la soc. Des Eaux Minerales d’Evian chiedeva il rimborso rispettivamente di Euro 925.761,72 e di Euro 386.295,11 -depurato dal 5% sul dividendo e sul credito di imposta- pari al credito di imposta spettante ad un non residente sui dividenti ricevuti dalla SIFIT spa sua controllata.

Il COP di Pescara -cui era stata diretta la domanda- ha risposto in senso negativo, per non aver subito Evian alcuna imposizione, nè in Francia, nè in Italia, per aver fruito in entrambi i Paesi dell’esenzione connessa alla direttiva “madre figlia”, alternativa al sistema del credito di imposta.

Impugnato il provvedimento di rifiuto espresso, i gradi di merito sono stati sfavorevoli alla contribuente, che ricorre con quattro motivi. Contro ricorre l’Avvocatura generale dello Stato.

Diritto

CONSIDERATO

1. Con il primo motivo si prospetta violazione del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 21 septies, L. n. 241 del 1990 (nullità del provvedimento) del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, in parametro all’art. 360, comma 1, n. 3 codice di rito civile. Nella sostanza si contesta la legittimazione ed addirittura la potestà impositiva del COP di Pescara (cui si è peraltro formalmente rivolta la stessa contribuente), sicchè l’atto di diniego che ne è scaturito sarebbe affetto da nullità per incompetenza assoluta (difetto di attribuzione).

E’ pur vero che questa Suprema Corte si è espressa nel senso per cui “In sede di contenzioso tributario, il Centro di servizio delle imposte dirette e indirette di Pescara, il quale procede alla revoca totale o parziale dei crediti d’imposta, dopo aver comunicato al contribuente l’avvio del relativo procedimento, ai sensi del D.M. n. 311 del 1998, art. 7, resta privo di legittimazione nel processo in relazione ad atti ad esso ascrivibili, spettando essa all’ufficio delle entrate: infatti, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, prevede che, in ipotesi di ricorso avverso il diniego di rimborso di somme erroneamente versate dal contribuente, ovvero il diniego di agevolazioni, è parte del processo, se l’ufficio è un Centro di servizio, l’Ufficio delle entrate del Ministero al quale spettano le attribuzioni sul rapporto controverso. (Sez. 5, Sentenza n. 3342 del 12/02/2013, Rv.r 625262 – 01)”. Non di meno, devesi ritenere corretta l’osservazione della C.T.R. secondo cui, trattandosi di istanza presentata da società non residente in Italia non esiste una articolazione territoriale (Direzione provinciale Agenzia delle Entrate) competente per territorio in relazione al domicilio fiscale del contribuente e pertanto è necessario riferirsi alla Agenzia delle Entrate Centro Operativo di Pescara.

Altresì, nello specifico, sono meritevoli di accoglimento le osservazioni della difesa erariale (pag. 8 controricorso), secondo cui la parte che ha dato causa all’ipotetica nullità non è legittimata a dedurla (art. 157 c.p.c., comma 3).

Va considerata altresì la mancanza di interesse a formulare un’eccezione che, se fondata, determinerebbe l’inammissibilità dello stesso ricorso perchè è proposto contro soggetto non legittimato a resistere in giudizio.

Il motivo è quindi infondato e va disatteso.

Con il secondo motivo si prospetta violazione dell’art. 10, par. 4, lett. b) della convenzione Italia – Francia sulle doppie imposizioni, in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Come questa Corte ha già chiarito “la direttiva 90/435 (c.d. madre-figlia) – recepita nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. n. 136 del 1993, e l’introduzione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27 bis, ancorchè adottata successivamente alla ratifica della menzionata convenzione italo-francese, non comporta, contrariamente a quanto richiederebbe l’ordinaria regola dell’effetto abrogativo prodotto dalla legge posteriore su quella previgente (lex posterior derogat priori), il superamento della convenzione bilaterale; essa opera invece nel senso di determinare, con quest’ultima, una disciplina complessiva e complementare di contrasto della doppia imposizione secondo un regime opzionale di alternatività. Pur perseguendo lo stesso obiettivo, la convenzione e la direttiva non sono perfettamente sovrapponibili, atteso che esse muovono da presupposti soggettivi e soglie rilevanti di partecipazione diversi; e prevedono diverse modalità e strumenti di eliminazione, o quantomeno attenuazione, della doppia imposizione in senso giuridico ed economico. Nel primo caso si vuol evitare che uno stesso soggetto subisca – in più Stati più prelievi fiscali in relazione al medesimo presupposto impositivo, e con riguardo (v. art. 2 della Convenzione) sia alle imposte sul reddito sia a quelle sul patrimonio; mentre nel secondo caso (v. art. 2, lett. c) Dir., relativo alla sola imposizione del reddito delle persone giuridiche), si vuol evitare che uno stesso reddito venga assoggettato a doppia imposizione in Stati UE diversi, anche quando il trasferimento di ricchezza passi da un soggetto all’altro in maniera soltanto formale, cioè in assenza di un reale incrementa imponibile (come appunto si verifica nell’imposizione dei dividendi infragruppo).

Le due fonti normative si trovano a convivere nell’ordinamento UE ed in quello nazionale, senza quello svuotamento di senso e di utilità pratica (della convenzione) che la società ricorrente vi vorrebbe intravvedere. Anche la convenzione mantiene infatti, pur dopo l’adozione della direttiva, la propria piena efficacia di consolidamento del contrasto del medesimo fenomeno (v.Cass.19152/04); cooperando anch’essa – nell’ambito di un rapporto bilaterale improntato a reciprocità – nell’attuare il divieto di doppia imposizione sancito, nella legislazione nazionale, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67 e dall’art. 163 Tuir, in forza del quale “La stessa imposta non può essere applicata più volte in dipendenza dello stesso presupposto, neppure nei confronti di soggetti diversi”. Il che, d’altra parte, è reso esplicito dalla stessa direttiva che, nell’art. 7, comma 2, lascia “impregiudicata l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali intese a sopprimere o ad attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi, in particolare delle disposizioni relative al pagamento di crediti d’imposta ai beneficiari dei dividendi”. Si tratta, quest’ultima, di previsione che non intende superare la competizione di efficacia normativa tra diverse fonti dell’ordinamento secondo il criterio generale di gerarchia; e che, soprattutto, esclude – in linea di principio, e fatta ovviamente salva la valutazione caso per caso – che la sola compresenza nell’ordinamento di direttiva e di convenzione bilaterale implichi un’automatica incompatibilità tale da determinare l’applicazione della prima ad esclusione della seconda.”(Cass. 28.12.2016 n. 27111)

La possibilità che lo stesso obiettivo venga perseguito facendo ricorso agli strumenti previsti sia dalla convenzione, sia dalla direttiva è incompatibile con l’ordinamento ed è già stato più volte escluso da questa Corte poichè, l’eliminazione della doppia imposizione non può mai determinare in concreto la distorsione rappresentata da un indebito duplice beneficio, ovvero una duplice doppia non-imposizione. (Cass. 17.7.2018 n. 188431 e 28.12.2016 n. 27111). Fine che può essere perseguito proprio attraverso il regime di alternatività, o di opzione tra le disposizioni ritenute più favorevoli per il contribuente e previste, rispettivamente, dalla convenzione bilaterale – che prevede il riconoscimento del credito d’imposta – e dalla direttiva – che riconosce l’esenzione dalla ritenuta. Per questo la direttiva madre-figlia non preclude che la società-madre, ricorrendone i presupposti, possa optare per il regime convenzionale del credito d’imposta in luogo di quello della piena detassazione, mentre, invece, è precluso che essa si avvalga sia del credito d’imposta previsto dalla convenzione, sia del rimborso della ritenuta sui dividendi o dell’esenzione diretta D.P.R. n. 600 del 1973 cit., ex art. 27 bis, in quanto estraneo ed eccentrico rispetto alla finalità di evitare la doppia imposizione.

La disposizione di non imponibilità degli utili di cui all’art. 5, n. 1 della Direttiva,” quindi, non si applica qualora già la normativa convenzionale invocata contenga, come nella fattispecie, norme che realizzano, per altra via, la finalità di sopprimere o attenuare la doppia imposizione economica. E, dunque, all’esito del coordinamento tra disciplina convenzionale e direttiva, alla società-madre francese non potrà riconoscersi il cumulo del riconoscimento del credito d’imposta e della esenzione della ritenuta sull’utile percepito. In questo senso è orientato l’indirizzo di questa Corte, secondo cui: “in tema di imposte sui dividendi azionari corrisposti da una società figlia residente in Italia ad una società madre residente in Francia, cui sia stato riconosciuto il credito di imposta, va applicata la ritenuta del 5%, in applicazione degli artt. 10 e 24 della Convenzione tra Italia e Francia sulle doppie imposizioni, recepita con L. 7 gennaio 1992, n. 20, in quanto il contenuto di essa non contrasta con la Direttiva del Consiglio CEE, 23 luglio 1990, n. 90/435/CEE, prevalendo tale disciplina, prescelta dal contribuente, sul dettato del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 27-bis, che consente alla società di optare per l’esenzione della ritenuta sui dividendi, ma senza credito di imposta, con la conseguenza che l’opzione della società madre per il riconoscimento del credito di imposta esclude l’applicazione del diverso regime di cui al del D.P.R. n. 600 cit., art. 27, che non prevede e non consente il cumulo dei due benefici” (Cass. n. 8621/11; nello stesso senso: Cass. 5943/09; da ultimo cfr. Cass. n. 16004/2019).

Il motivo è quindi infondato e va disatteso.

Con il terzo motivo si prospetta violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omissione di pronuncia: non sarebbe stata data risposta alla censura per cui il comportamento del COP viola il principio di libertà di circolazione e stabilimento di cui agli artt. n. 56 e 43 Trattato UE.

Con il quarto ed ultimo motivo si lamenta violazione degli artt. n. 56 e 43 Trattato UE, in parametro all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: si tratta sostanzialmente del motivo che precede, ora rappresentato come violazione di legge, per cui il provvedimento del COP che rigetta l’istanza di rimborso produrrebbe violazione delle disposizioni comunitarie in tema di libertà di stabilimento.

I due motivi possono essere trattati congiuntamente in ragione della sostanziale identità di doglianza, rappresentata sotto diversi motivi di gravame, ora come error in procedendo, ora come error in iudicando.

Devesi rilevare che a pag. 5 la CTR prende posizione espressamente (quindi, si pronuncia) ed argomenta sulla conformità del meccanismo previsto dalla direttiva comunitaria “madre figlia” con il Trattato UE (sono l’una la specificazione dell’altro), cui chiude in modo ancillare la disciplina convenzionale bilaterale. Tale posizione è coerente con l’orientamento ormai pacificamente assunto da questa Corte in materia (cfr., da ultimo, Cass. n. 27111/2016; n. 18431/2018; n. 16004/2019).

I motivi sono quindi infondati e vanno disattesi.

In definitiva, il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a, quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condanna la ricorrente alla rifusione delle spese di lite a favore dell’Agenzia delle entrate che liquida in Euro ottomilacinquecento/00, oltre a spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 28 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2019

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