Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34169 del 20/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 20/12/2019, (ud. 22/10/2019, dep. 20/12/2019), n.34169

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

ricorso 21152-2015 proposto da:

M.P., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI GRACCHI

209, presso lo studio dell’avvocato CESARE CARDONI, rappresentato e

difeso dall’avvocato ROBERTO CUTIGNI, giusta procura in calce;

– ricorrente –

contro

AGEZIA DELLE, EVIRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI VITERBO, in persona

del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata ROMA VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende, giusta procura in calce;

– resistente con atto di costituzione –

avverso la sentenza n. 1278/2015 della COMM.TRIB.REG. di ROMA,

deposita ta il 03/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/10/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

UMBERTO DE AUGUSTINIS che ha concluso per il ricetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato TITALI per delega dell’Avvocato

CUTIGNI che si riporta al ricorso;

udito per controricorrente l’Avvocato TIDORE che ha chiesto il

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

M.P. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 1278/38/2015, depositata dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio il 3.03.2015, con la quale, in riforma della decisione del giudice provinciale, era rigettato il ricorso introduttivo del contribuente avverso la cartella di pagamento con la quale, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 ter, relativamente all’anno d’imposta 2004, erano recuperati a tassazione spese mediche e contributi previdenziali dichiarati e dedotti.

Ha riferito che a seguito di controllo formale sul Modello Unico presentato nel 2005 l’Amministrazione finanziaria aveva richiesto il versamento della somma di Euro 15.247,22 riconoscendo solo in parte le deduzioni riportate dal M. in dichiarazione e relative a contributi previdenziali corrisposti per conto di terzi, nonchè a spese mediche presso strutture convenzionate. Nello specifico trattavasi dei contributi erogati a favore del collaboratore della impresa familiare, una farmacia, nella quale il titolare odierno ricorrente era partecipe nella misura del 51% e il coniuge collaboratore nella misura del 49%, e di spese sostenute per trattamenti sanitari di chiroprassi.

La cartella era stata impugnata dal ricorrente dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Viterbo, che con sentenza n. 117/01/2012 aveva accolto le ragioni del contribuente. La Commissione Tributaria Regionale del Lazio, adita dalla Amministrazione Finanziaria, aveva accolto invece l’appello con la pronuncia ora al vaglio della Corte.

Il ricorrente censura la sentenza con tre motivi:

con il primo per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti della agenzia di Riscossione Equitalia Sud s.p.a.;

con il secondo per violazione del D.P.R. n. 597 del 1973, art. 10 (sic) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente escluso la deducibilità delle spese sanitarie pur previste dall’art. 10, comma 1 cit., lett. f);

con il terzo per violazione del D.P.R. n. 597 del 1973, art. 10 (sic) e della L. n. 114 del 1977, art. 20, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, perchè erroneamente il giudice d’appello non aveva riconosciuto la deducibilità dei contributi previdenziali dei collaboratori di una impresa familiare, per i quali il titolare non aveva agito in rivalsa sul collaboratore medesimo.

Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza con ogni consequenziale provvedimento.

L’Agenzia si è costituita al solo fine della eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

Alla pubblica udienza del 22 ottobre 2019 il P.G. e le parti, dopo la discussione, hanno concluso. La causa è stata riservata per la decisione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo, con il quale si denuncia la nullità della sentenza per mancata integrazione del contraddittorio, in particolare perchè l’Agenzia delle Entrate avrebbe proposto l’appello senza notificarlo alla società di riscossione, presente in primo grado, è infondato.

Questa Corte ha affermato che non è configurabile litisconsorzio necessario tra l’Agenzia delle Entrate ed il soggetto incaricato del servizio di riscossione delle imposte, mero destinatario del pagamento, sicchè non sussiste obbligo di integrazione del contraddittorio nella fase dell’impugnazione, che sorge soltanto quando la sentenza di primo grado sia stata pronunciata nei confronti di tutte le parti tra le quali esiste litisconsorzio necessario sostanziale e l’impugnazione non sia stata proposta nei confronti di tutte, oltre che nel caso di litisconsorzio necessario processuale, quando l’impugnazione non risulti proposta nei confronti di tutti i partecipanti al giudizio di primo grado, pur non legati tra loro da un rapporto di litisconsorzio necessario, ma sempre che si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti (Cass., ord. 16813/2014; 26433/2017). Nel caso di specie, soprattutto considerando la tipologia di accertamento -il controllo formale della dichiarazione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 ter, con successiva immediata emissione e notificazione della cartella di pagamento-, legittimato passivo della controversia era l’Agenzia delle Entrate, senza che possa riscontrarsi la presenza di cause inscindibili o tra loro dipendenti con l’agente della riscossione, mero destinatario del pagamento.

Non è fondato il secondo motivo. Il ricorrente si duole della decisione del giudice regionale che ha ritenuto corretta la contestazione da parte della Amministrazione finanziaria della deducibilità delle spese mediche (per le quali si invoca il D.P.R. n. 597 del 1973, art. 10, lett. f, in realtà trovando collocazione tali spese nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, lett. b, anche con riguardo all’anno di imposta oggetto di controllo formale). Il motivo non coglie nel segno perchè il giudice non ha negato la deducibilità delle spese mediche tout court, bensì di quelle sostenute dal ricorrente per prestazioni rese da un chiropratico, a tal fine evidenziando che tali spese necessitano della prescrizione medica, assente nel caso di specie, per essere state prodotte le sole fatture. D’altronde questa Corte, in materia di Iva, ha affermato che le prestazioni dei chiropratici non possono essere comprese tra quelle sanitarie che beneficiano dell’esenzione dal tributo, atteso che la L. n. 244 del 2007, art. 2, comma 335, pur avendo inquadrato il chiropratico tra i professionisti sanitari di primo grado, rinvia ad un regolamento di attuazione, mai adottato ed indispensabile per individuare la tipologia delle prestazioni svolte e per disciplinare i profili della professione, secondo le linee indicate dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, nn. 18 e 13, sesta direttiva CEE, come modificata dall’art. 132, par. 1, lett. c), della direttiva 112/2006/CEE (Cass. Sent. n. 22812/2014; 8145/2019).

Tenendo conto dunque della peculiarità delle cure chiropratiche, non rientranti nella medicina ufficiale, e comunque tenendo conto della assenza di prescrizioni mediche che ne autorizzassero la fruizione, la motivazione del giudice regionale è corretta.

Non trova infine accoglimento neppure il terzo motivo, con il quale il ricorrente si duole dell’errore di diritto nella applicazione della disciplina relativa alla deducibilità dei contributi previdenziali per collaboratori di impresa familiare.

Nel caso di specie il M. ha premesso di aver versato i contributi obbligatori alla moglie, partecipe dell’impresa familiare nella misura del 49%; la coniuge non ha dichiarato i contributi nella propria dichiarazione, nè essi sono stati oggetto di rivalsa da parte del titolare dell’impresa. Su queste premesse sostiene la legittima deduzione di quei versamenti, portata nella propria dichiarazione dei redditi.

Al contrario l’Agenzia ha ribadito nel corso del processo la propria posizione in merito, come si evince dalla sentenza impugnata, ossia che i contributi previdenziali possono essere portati in deduzione solo da parte del soggetto nel cui interesse siano stati versati e che il titolare dell’impresa può solo agire in rivalsa nei confronti del beneficiario collaboratore, a condizione che questi li abbia dichiarati e portati in deduzione. In ogni caso non spetta a lui dichiararli e dedurli dal proprio reddito.

Queste le rispettive posizioni, premesso che la fattispecie afferisce al controllo formale ex art. 36 ter cit., relativo all’anno d’imposta 2003, la disciplina fiscale dei contributi previdenziali, compresi quelli corrisposti ai collaboratori di imprese familiari, si rinviene nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 10, comma 1, lett. e), e comma 2, (che da oltre trent’anni ha sostituito il D.P.R. n. 597 del 1973).

In particolare l’art. 10, tra gli oneri deducibili, nel comma 1, lett. e), comprende “i contributi previdenziali e assistenziali versati in ottemperanza a disposizioni di legge, nonchè quelli versati facoltativamente alla gestione della forma pensionistica obbligatoria di appartenenza, ivi compresi quelli per la ricongiunzione di periodi assicurativi…”. Il comma 2 afferma che “Le spese di cui alla lett. b) del comma 1 sono deducibili anche se sono state sostenute per le persone indicate nell’art. 433 c.c.. Tale disposizione si applica altresì per gli oneri di cui alla lett. e) del comma 1 relativamente alle persone indicate nel medesimo art. 433 c.c., se fiscalmente a carico.”.

Deve anche menzionarsi la L. n. 233 del 1990, art. 2, il quale dispone che “il titolare dell’impresa artigiana o commerciale è tenuto al pagamento dei contributi di cui all’art. 1, per sè e per i coadiuvanti e coadiutori, salvo diritto di rivalsa.”. In considerazione della materia disciplinata dalla legge -i trattamenti pensionistici dei lavoratori autonomi- è pacifico che i contributi richiamati dall’art. 2, siano quelli previdenziali. Trattasi peraltro di norma senz’altro riferibile anche ai collaboratori delle imprese familiari di cui all’art. 230 bis c.c., la cui collocazione nel TUIR trova sede tra le imprese in forma associata previste dall’art. 5, comma 4.

Circoscritto l’alveo normativo di riferimento, la disciplina dei trattamenti pensionistici prevede che il titolare dell’impresa, quanto ai contributi versati per il suo collaboratore, ha solo “diritto di rivalsa” sul beneficiato.

Il tenore letterale del secondo periodo dell’art. 10, comma 2 del TUIR, peraltro, con espresso riferimento ai contributi previdenziali di cui al comma 1 lett. e), prevede che l’imprenditore che ne sopporta l’onere possa dedurli nella sola specifica ipotesi in cui il collaboratore per il quale è stato eseguito il versamento sia uno dei soggetti indicati nell’art. 433 c.c., e solo a condizione che si tratti di familiare comunque a suo carico. Se ne deduce che quando il familiare collaboratore non sia a carico del titolare dell’impresa, la deducibilità è preclusa a quest’ultimo.

Salvo dunque che per l’ipotesi prevista dalla seconda parte dell’art. 10 cit., comma 2, per i familiari a carico, per tutte le altre ipotesi la deducibilità dei contributi previdenziali spetta a coloro per conto dei quali l’imprenditore abbia versato i contributi, mentre all’imprenditore medesimo spetta solo il diritto di rivalsa.

Nessun rilievo ha l’invocazione della L. n. 114 del 1977, art. 20, laddove al comma 3, è previsto che “Gli oneri previsti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, art. 10, risultanti dai documenti allegati alla dichiarazione presentata nell’anno 1976, nonchè quelli previsti dall’art. 85 del decreto cit., sono deducibili dal reddito complessivo del coniuge che li ha sostenuti…”. A parte che trattasi di una disciplina integrativa del precedente D.P.R., sulle imposte delle persone fisiche, per intero sostituita dal TUIR del 1986, anche con riferimento alla normativa abrogata questa Corte aveva in ogni caso chiarito che ai fini del regime di tassazione separata dei redditi dei coniugi introdotto dalla L. n. 114 del 1977, gli oneri di cui al D.P.R. n. 597 del 1973, art. 10, dei quali la L. n. 114 cit., art. 20, prevede la deducibilità dal reddito complessivo del coniuge che li ha sostenuti, sono soltanto quelli che lo stesso era giuridicamente tenuto a sostenere, non assumendo alcun rilievo l’individuazione del coniuge che ne abbia materialmente eseguito il pagamento, in quanto, in un sistema in cui è escluso il cumulo dei redditi dei coniugi, non può essere ammessa neppure la deducibilità indifferenziata degli oneri sostenuti, che restano quindi deducibili soltanto “pro quota” dai redditi di ciascuno (Cass., sent. n. 15850/2006). Il che esclude del tutto il principio di deducibilità in capo a chi abbia sopportato il costo, vigendo invece un diritto alla deducibilità solo per quelle ipotesi nelle quali il coniuge sia giuridicamente tenuto a sostenerne il peso per la sua stessa qualità di coniuge, fattispecie in tutto estranea alla disciplina dell’impresa familiare, nella quale rileva non la posizione di coniuge, ma quella di titolare dell’impresa da un lato, e di collaboratore dell’impresa, indistintamente sia esso coniuge o altro familiare, dall’altro.

Può allora concludersi affermando il seguente principio di diritto “in tema di deducibilità dei contributi previdenziali versati dal titolare dell’impresa familiare nell’interesse dei collaboratori, l’imprenditore ha solo diritto di rivalsa nei confronti del beneficiato, potendo invece dedurne l’importo dal proprio reddito nella sola ipotesi in cui si tratti di familiare compreso nell’art. 433 c.c., e a condizione che sia a suo carico.”.

Per mera completezza, deve anche dedursi che il diritto alla deduzione può essere esercitato dai collaboratori a condizione che il titolare dell’impresa familiare abbia esercitato il diritto di rivalsa, perchè diversamente dovrebbe riconoscersi che il coadiutore goda di un doppio beneficio, il versamento dei contributi a suo beneficio da parte dell’imprenditore e la deduzione ai fini fiscali dei medesimi contributi dal proprio reddito.

Ebbene, il giudice regionale ha correttamente interpretato la normativa, rilevando che: il titolare dell’impresa non ha diritto alla deduzione dei contributi versati per i propri collaboratori, ancorchè familiari; ha il diritto di rivalsa; non risulta che la collaboratrice, coniuge del titolare dell’impresa, fosse a carico dell’imprenditore, sicchè non era possibile applicare l’unica ipotesi, eccezionale, in cui all’imprenditore è riconosciuta la diretta deducibilità dei contributi.

In conclusione il ricorso è infondato e va rigettato.

La assenza di consolidata giurisprudenza sul punto giustifica la compensazione delle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Compensa le spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13 cit., comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2019

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