Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34134 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. VI, 19/12/2019, (ud. 19/06/2019, dep. 19/12/2019), n.34134

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14084-2018 proposto da:

S.M., rappresentato e difeso dall’avvocato CATERINA

PALUMBO e domiciliato presso la cancelleria della Corte di

Cassazione;

– ricorrente –

contro

L.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA n. 2,

presso lo studio dell’avvocato ALFREDO PLACIDI, rappresentata e

difeso dall’avvocato GIOVANNI CIGLIOLA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 375/2017 della CORTE D’APPELLO DI LECCE,

SEZIONE DISTACCATA DI TARANTO, depositata il 06/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

19/06/2019 dal Consigliere Dott. OLIVA STEFANO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 23.9.2014 S.M. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 1144/2014 emesso dal Tribunale di Taranto in favore di L.R., con il quale gli era stato ingiunto di consegnare all’ingiungente gli originali di tre assegni bancari. Nella narrativa dell’atto di citazione lo S. deduceva che la L. gli aveva consegnato i titoli per proporre l’azione esecutiva nei confronti della debitrice e traente dei medesimi e che la domanda di restituzione dei medesimi non avrebbe potuto essere proposta in via monitoria sussistendo la preclusione derivante dal bis in idem. Ad avviso dell’attore, infatti, tale domanda era stata implicitamente già respinta dal Tribunale di Taranto con l’ordinanza del 4.3.2015, con la quale quel giudice aveva definito il precedente giudizio introdotto dallo S. per la liquidazione dei propri compensi e la condanna della L. al relativo pagamento.

Si costituiva nell’opposizione la L. contestandone la fondatezza e concludendo per la conferma del decreto ingiuntivo opposto dallo S..

Con sentenza n. 1075/2015 il primo giudice rigettava l’opposizione, confermando il decreto opposto e condannando lo S. alle spese del grado.

Interponeva appello l’odierno ricorrente e si costituiva in seconde cure, per resistere al gravame, la L..

Con la sentenza oggi impugnata, n. 375/2017, la Corte di Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, rigettava l’appello confermando la decisione impugnata e condannando l’appellante alle spese del grado. Ad avviso della Corte territoriale, infatti, la domanda di restituzione degli assegni svolta in via monitoria dalla L. non poteva essere ritenuta preclusa dalla decisione precedentemente assunta dal Tribunale di Taranto in merito alla diversa controversia avente ad oggetto i compensi dovuti allo S. per l’attività professionale da quegli svolta in favore dell’appellata.

Propone ricorso per la cassazione di detta decisione S.M. affidandosi a quattro motivi.

Resiste con controricorso L.R..

A seguito della proposta del relatore ex art. 380-bis c.p.c. ambo le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione dei principi del ne bis in idem e del giusto processo, dell’art. 39 c.p.c. e dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 perchè la Corte di Appello avrebbe errato nel non ritenere che la domanda di restituzione degli assegni proposta dalla L. in via monitoria fosse coperta dal giudicato formatosi sul provvedimento che aveva concluso il precedente giudizio proposto dallo S. per la liquidazione dei propri compensi. In quella sede, invero, la L. aveva dedotto, tra gli altri motivi di opposizione alla pretesa di pagamento dello S., anche il fatto che questi non le avesse restituito i titoli di cui oggi è causa; secondo il ricorrente, il rigetto dell’opposizione proposta dalla L. in quella sede implicherebbe la formazione del giudicato esterno anche sulla restituzione dei titoli e precluderebbe quindi alla stessa qualsiasi possibilità di riproporre la relativa domanda.

La censura è infondata.

Giova invero ribadire che il giudicato si può formare soltanto su un capo autonomo della sentenza, con il quale il giudice esaurisce uno dei temi della causa rimessa alla sua cognizione. La questione è stata affrontata in particolare con riferimento al problema del cd. giudicato interno, in relazione al quale si è ritenuto che “Costituisce capo autonomo della sentenza – come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato interno – solo quello che risolva una questione controversa tra le parti, caratterizzata da una propria individualità e una propria autonomia, sì da integrare, in astratto, gli estremi di un decisum affatto indipendente, ma non anche quello relativo ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata” (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 2379 del 31/01/2018, Rv.647932; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 22863 del 30/10/2007, Rv. 599955). Infatti “La locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, con la conseguenza che la censura motivata anche in ordine ad uno solo di tali elementi riapre la cognizione sull’intera statuizione, perchè, impedendo la formazione del giudicato interno, impone al giudice di verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione” (Cass. Sez. L, Ordinanza n. 16853 del 26/06/2018, Rv.649361; conf. Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 12202 del 16/05/2017, Rv.644289 e Cass. Sez. L, Sentenza n. 2217 del 04/02/2016, Rv.638957).

I richiamati principi possono essere applicati anche al giudicato esterno, non potendosi collegare alcun effetto preclusivo alla semplice deduzione di un fatto nell’ambito di un giudizio, ove manchi su di esso una statuizione di accoglimento o di rigetto di una correlativa pretesa. Nel caso di specie, in particolare, la decisione impugnata dà atto (cfr. pag.4) che “In ogni caso, dal tenore espresso ed inequivocabile dell’ordinanza collegiale del Tribunale emerge con chiarezza che lo stesso si è dichiarato competente a conoscere e a decidere solo ed esclusivamente in relazione alla determinazione del compenso nei limiti delle tariffe esistenti al momento della conclusione degli incarichi, escludendo, pertanto, l’esame nel merito e l’istruttoria di ogni altra domanda con specifico riferimento, peraltro, solo a quella di risarcimento danni avanzata dalla L., la quale, come innanzi rilevato, è l’unica ad essere stata proposta in via riconvenzionale in quel procedimento”. Manca pertanto, nel precedente giudizio al quale fa riferimento la parte ricorrente, qualsiasi pronuncia in relazione alle contestazioni ed alle opposizioni della L., come pure alla domanda riconvenzionale dalla stessa svolta: ergo, non v’è spazio per ipotizzare alcun giudicato, nemmeno implicito, sulla domanda di restituzione degli assegni di cui oggi è causa.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 101,24 e 111 Cost. e del principio del contraddittorio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, perchè la Corte di Appello avrebbe omesso di fissare l’udienza per la discussione orale della causa, privandolo in tal modo di una significativa facoltà difensiva.

La doglianza è inammissibile sotto un duplice profilo.

Da un lato, il ricorrente non indica in quale momento del processo di merito avrebbe formulato la richiesta di discussione orale: richiesta che, da quanto emerge dalla lettura della sentenza impugnata (cfr. pag.3), non risulta esser mai stata ritualmente proposta dallo S.. Trattandosi di un vizio di carattere processuale, il ricorrente aveva l’onere di precisare il momento e le modalità con cui la sua richiesta di discussione orale della causa, asseritamente non considerata dal giudice di merito, era stata formulata.

Dall’altro lato, il ricorrente non indica quali sarebbero gli specifici aspetti che la discussione avrebbe consentito di evidenziare o approfondire, colmando lacune e integrando gli argomenti ed i rilievi già contenuti nei precedenti atti difensivi: avendo la discussione della causa nel giudizio d’appello una funzione di solito meramente illustrativa delle posizioni già assunte e delle tesi già svolte nei precedenti atti difensivi e non sostitutiva delle difese scritte, per configurare una lesione del diritto di difesa non basta affermare, genericamente, che la mancata discussione ha impedito al ricorrente di esporre meglio la propria linea difensiva, essendo al contrario necessario indicare quali siano gli specifici aspetti che la discussione avrebbe consentito di evidenziare o approfondire, colmando lacune e integrando gli argomenti ed i rilievi già contenuti nei precedenti atti difensivi. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28229 del 27/11/2017, Rv.646319; cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18618 del 05/12/2003, Rv. 568667).

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 161 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, perchè la Corte di Appello sarebbe priva della sottoscrizione digitale del Presidente e del relatore.

La doglianza è infondata.

La copia della decisione impugnata estratta dal sistema informatico della Corte territoriale e depositata agli atti del presente giudizio reca infatti, in calce, la firma del Presidente Dott. Ettore Scisci e del relatore Dott.ssa Maria Cavallera.

Trattandosi di documento analogico acquisito al fascicolo telematico presso la Corte di Appello mediante scansione dell’originale cartaceo, la firma digitale dei due sottoscrittori non è necessaria, essendo sufficiente la sottoscrizione digitale del soggetto che materialmente ha curato l’acquisizione informatica del documento (sottoscrizione che, per inciso, si rinviene sul margine destro del documento).

La violazione denunciata, pertanto, non sussiste.

Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la nullità della sentenza e la violazione del principio dell’onere della prova in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 perchè la Corte di Appello avrebbe dovuto rilevare che la L. aveva l’onere di dimostare la propria tesi difensiva, cosa che – ad avviso del ricorrente – la stessa non poteva più fare per effetto del provvedimento di rigetto delle istanze istruttorie da lei a suo tempo proposte nel precedente giudizio proposto dallo S. per il pagamento delle sue competenze professionali.

La doglianza è infondata per due distinti) ma concorrenti motivi. Innanzitutto, essa è formulata in termini assolutamente generici, posto che il ricorrente non indica sotto quale profilo specifico la Corte territoriale avrebbe violato i principi in materia di onere della prova. In secondo luogo, il provvedimento con cui il giudice decide se ammettere o meno i mezzi istruttori richiesti dalle parti ha natura ordinatoria, e non decisoria, e quindi non è suscettibile di passare in giudicato.

Se ne ricava che la censura è, alternativamente, inammissibile laddove si ritenga che essa sia volta avverso la valutazione delle prove compiuta dal giudice del merito, ovvero infondata nel diverso caso in cui si volesse ritenere che il ricorrente abbia inteso far derivare un effetto di giudicato dai provvedimento ordinatorio con cui il giudice della prima causa aveva respinto le istanze istruttorie formulate in quella sede dalla L..

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

Poichè il ricorso per cassazione è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, va dichiarata la sussistenza, ai sensi del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dei presupposti per l’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.700 di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali nella misura del 15%, iva e cassa avvocati come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma degli artt. 1-bis e 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta sezione civile, il 19 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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