Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34093 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 19/12/2019, (ud. 22/10/2019, dep. 19/12/2019), n.34093

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 204/15 R.G. proposto da:

G.T., rappresentata e difesa dall’avv. Sergio Bellotti,

giusta procura in calce al ricorso, con domicilio eletto presso il

suo studio, in Roma, Piazza Attilio Friggeri, n. 13;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, 12 è elettivamente

domiciliata;

– controricorrente –

e nei confronti di:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria dell’Emilia Romagna

n. 834/7/14 depositata in data 7 maggio 2014;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 ottobre

2019 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

Fatto

RILEVATO

che:

Con sentenza n. 834/7/2014 la Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna rigettava l’appello proposto da G.T. avverso la sentenza della Commissione provinciale di Bologna, che aveva respinto il ricorso dalla stessa proposto avverso gli avvisi di accertamento per gli anni 2005, 2006, 2007 e 2008, con i quali erano stati recuperati a tassazione i maggiori redditi accertati negli anni di riferimento in base a detenzione di capitali presso la HSBC Private Bank di Ginevra, e quindi in paese a fiscalità privilegiata, sulla base di informazioni acquisite presso l’Amministrazione fiscale francese attraverso canali di collaborazione informativa internazionale.

In particolare, per il periodo d’imposta 2005, l’Ufficio aveva contestato la detenzione di disponibilità finanziarie relative a redditi sottratti a tassazione in virtù della presunzione di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, come convertito, con modificazioni, dalla L. 3 agosto 2009, n. 102; per i periodi d’imposta 2006, 2007 e 2008 aveva accertato, in virtù della presunzione di cui al D.L. n. 167 del 1990, art. 6, il reddito di capitale effettivamente percepito, nonchè, con riguardo ai periodi d’imposta dal 2005 al 2007, la mancata presentazione del modulo RW della dichiarazione dei redditi.

I giudici di secondo grado motivavano che:

a) il D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, era applicabile retroattivamente, avendo natura di norma procedurale;

b) la presunta irretroattività avrebbe potuto spiegare efficacia solo in relazione all’avviso di accertamento emesso per l’anno d’imposta 2005, ma non per gli ulteriori atti impositivi impugnati emessi per gli anni successivi, in quanto questi ultimi erano basati sul D.L. n. 167 del 1990, art. 6, e traevano origine dalla fruttuosità della disponibilità finanziaria detenuta all’estero emergente dalla stessa documentazione prodotta dalla contribuente;

c) l’acquisizione degli elementi documentali provenienti dall’amministrazione fiscale francese attraverso i canali di collaborazione informativa internazionale prevista dalla direttiva n. 77/799/CE del Consiglio del 19 dicembre 1977 e dalla Convenzione Italia-Francia contro le doppie imposizioni stipulata in data 5 ottobre 1989, ratificata con L. 7 gennaio 1992, n. 20, era del tutto legittima e la riferibilità dei dati alla contribuente non era stata da quest’ultima negata;

d) la dedotta inutilizzabilità penale dei dati trasmessi dall’autorità fiscale francese non aveva efficacia nel processo tributario “stante le differenze strutturali, normative, interpretative, applicative” esistenti fra i due giudizi.

Per la cassazione della suddetta decisione ricorre G.T., con tre motivi.

L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Va dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

In tema di contenzioso tributario, a seguito del trasferimento alle agenzie fiscali, da parte del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 57, comma 1, di tutti i “rapporti giuridici”, i “poteri” e le “competenze” facenti capo al Ministero dell’Economia e delle Finanze, a partire dal primo gennaio 2001 (giorno di inizio di operatività delle Agenzie fiscali in forza del D.M. 28 dicembre 2000, art. 1), unico soggetto passivamente legittimato è l’Agenzia delle Entrate, sicchè è inammissibile il ricorso per cassazione promosso nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Cass. Sez. 5, n. 1550 del 28/01/2015; Cass. n. 22992 del 12/11/2010).

2. Con il primo motivo di censura la contribuente deduce violazione e falsa applicazione del D.L. n. 78 del 2009, art. 12, in relazione allo Statuto del contribuente, art. 3, ed all’art. 11 preleggi.

Secondo la ricorrente, il citato art. 12, essendo entrato in vigore il 1^ luglio 2009, non è applicabile retroattivamente e dunque non è invocabile con riguardo agli avvisi di accertamento oggetto di impugnazione che sono stati emessi dall’Amministrazione finanziaria per periodi d’imposta precedenti (dal 2005 al 2008); ritenere, come affermato dalla Commissione regionale, che la norma abbia natura procedurale significherebbe porre a carico del contribuente l’onere di reperire prove che all’epoca dei fatti non avrebbe potuto precostituire, con conseguente alterazione del diritto di difesa.

2.1. Il motivo, seppure fondato, non può condurre alla cassazione della sentenza impugnata.

2.2. Il D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, stabilisce che “in deroga ad ogni vigente disposizione di legge, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato di cui al D.M. Finanze 4 maggio 1999, n. 107 e al D.M. Economia e Finanze 21 novembre 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 23 novembre 2001, n. 273, senza tener conto delle limitazioni ivi previste, in violazione degli obblighi di dichiarazione di cui al D.L. 28 giugno 1990, n. 167, art. 4, commi 1, 2 e 3, convertito dalla L. 4 agosto 1990, n. 227, ai soli fini fiscali, si presumono costituite, salva la prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione. In tal caso, le sanzioni previste dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 1, sono raddoppiate”.

La Commissione regionale ha ritenuto che la disposizione in oggetto abbia natura procedimentale e che, come tale, sarebbe soggetta al principio tempus regit actum, trovando applicazione anche riguardo alle somme detenute all’estero in violazione degli obblighi dichiarativi negli anni precedenti all’entrata in vigore dello stesso D.L. n. 78 del 2009.

2.3. L’interpretazione fornita dai giudici di appello, che aderisce alla tesi difensiva dell’Amministrazione finanziaria, si pone, in realtà, in evidente contrasto con la L. n. 212 del 2000, art. 3, il quale ha codificato nella materia fiscale il principio generale di irretroattività delle leggi stabilito dall’art. 11 preleggi, salvo che questa non sia espressamente prevista (Cass. n. 5015 del 2/4/2003; Cass. n. 25722 del 9/12/2009).

2.4. La esclusione dell’applicazione retroattiva della disposizione normativa trova, infatti, giustificazione nella esigenza di salvaguardare principi fondamentali del nostro ordinamento, quali la certezza del diritto, il principio del legittimo affidamento e quello di ragionevolezza, nonchè i principi contenuti nella Costituzione, quali il diritto alla difesa ed il principio di capacità contributiva. E per tale ragione al divieto di irretroattività fanno eccezione solo le norme dichiaratamente interpretative, che sono esplicitamente qualificate tali dal legislatore.

2.5. La presunta natura procedimentale della norma di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, che pone, in favore del fisco, una più favorevole presunzione legale relativa rispetto al quadro normativo previgente, collide, altresì, con il tradizionale criterio della sedes materiae, che vede abitualmente le norme in tema di presunzioni collocate nel codice civile e, dunque, di diritto sostanziale, e non già nel codice di rito, e pone il contribuente che, sulla base del quadro normativo previgente, non avrebbe avuto interesse alla conservazione di un certo tipo di documentazione, in condizione di sfavore, poichè pregiudica l’effettivo espletamento del diritto di difesa, in violazione dei principi di cui agli artt. 3 e 24 Cost. (Cass. n. 2662 del 2/2/2018).

2.6. In realtà, la disposizione di cui al D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, esplica effetti sostanziali in punto di determinazione del reddito e influisce direttamente sul rapporto tributario sostanziale.

La norma in oggetto fissa, infatti, un meccanismo presuntivo che incide in maniera decisiva sulla ripartizione dell’onere probatorio tra Amministrazione e contribuente e, di conseguenza, come tutte le disposizioni in materia di prova, non ha natura processuale, bensì sostanziale, poichè la sua applicazione comporta una decisione di merito, di accoglimento o di rigetto della domanda (Cass. 4225 del 23/2/2007; Cass. n. 717 del 18/1/2001).

Alla luce di tali considerazioni risulta condivisibile la censura sollevata dalla ricorrente, secondo cui la disposizione introdotta dal D.L. n. 78 del 2009 ha un effetto sostanziale, sicchè non può giustificarsi una applicazione retroattiva della norma ad attività di accertamento relative a periodi di imposta pregressi, dato che essa ha modificato l’efficacia che viene attribuita alla prova stessa.

Infatti, l’obbligo di fornire una prova contraria per evitare l’imposizione verrebbe ad inficiare irrimediabilmente il diritto di difesa della contribuente che, prima della introduzione della disposizione normativa in esame, non poteva certamente essere tenuta a precostituirsi una prova in tal senso, dato che la legislazione all’epoca vigente non prevedeva ancora quest’onere.

2.7. Tuttavia, sebbene il citato D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, non sia suscettibile di applicazione retroattiva, tale circostanza non preclude all’Ufficio di provare l’esistenza di redditi non dichiarati dal contribuente, detenuti in paesi a fiscalità privilegiata, anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti.

Secondo consolidato indirizzo di questa Corte, in tema di presunzioni semplici, gli elementi assunti a fonte di prova non devono essere necessariamente più d’uno, potendo il giudice fondare il proprio convincimento su uno solo di essi, purchè grave e preciso (Cass. ord. n. 23153 del 26/9/2018); con specifico riferimento alla materia tributaria, il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di redditi maggiori di quelli dichiarati può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purchè grave e precisa (Cass. ord. n. 30803 del 22/12/2017; con riferimento alla “lista F.”, Cass. Sez. 6-5, ord. n. 3276 del 12/2/2018).

2.8. Nel caso di specie i giudici di merito, con apprezzamento di fatto non suscettibile di sindacato in sede di legittimità, hanno rilevato che la contribuente non ha disconosciuto, con riguardo all’anno 2005, che le disponibilità finanziarie emerse siano alla stessa riferibile, nè ha negato di avere omesso di indicare, nella propria dichiarazione dei redditi, le disponibilità finanziarie detenute all’estero, in tal modo incorrendo nella violazione del D.L. n. 167 del 1990, art. 4, ed hanno altresì sottolineato che la ricorrente non ha addotto elementi contrari idonei a superare la ricostruzione reddituale operata dall’Ufficio e, quindi, la presunzione di fruttuosità delle disponibilità finanziarie detenute all’estero, derivante dal D.L. n. 167 del 1990, art. 6.

Ne discende che sia in relazione all’anno 2005, sia in relazione agli anni d’imposta successivi (2006, 2007 e 2008) – in ordine ai quali, come accertato dai giudici regionali, l’Ufficio ha recuperato a tassazione i redditi di capitale effettivamente percepiti emergenti dalla stessa documentazione esibita dalla contribuente – la Commissione regionale ha correttamente ritenuto sussistenti presunzioni semplici, ma qualificate, in ordine al fatto che l’attività finanziaria fosse stata costituita con il provento di redditi sottratti a tassazione e allocati all’estero.

3. Con il secondo motivo la contribuente deduce “nullità della sentenza per inutilizzabilità degli atti posti a fondamento dell’accertamento – cd. lista F. – perchè di provenienza illecita” e sostiene che la inutilizzabilità trova conferma in alcune pronunce della giurisprudenza francese, oltre che in pronunce dei giudici di merito nazionali.

Deduce, in particolare, che la impossibilità di fondare un accertamento tributario su documentazione illecitamente acquisita contrasta con il principio della cd. “invalidità derivata”, in forza del quale l’invalidità a monte concernente lo svolgimento di un atto istruttorio travolge tutti gli atti successivi, compreso l’atto impositivo che chiude il procedimento amministrativo e con il quale si comunica al contribuente la pretesa fiscale, e risulta peraltro incompatibile con il principio di inutilizzabilità delle prove illecitamente acquisite.

3.1. La censura è infondata, dovendosi dare continuità ai principi di diritto enunciati da questa Corte con le ordinanze gemelle n. 8605 e 8606 del 28 aprile 2015, non sussistendo valide ragioni logico-giuridiche per discostarsene.

3.2. Va premesso, in linea generale, che il diritto interno, sia in materia di imposte dirette sia in materia di imposta sul valore aggiunto, consente l’acquisizione nel corso dell’accertamento fiscale e, successivamente, nel processo tributario, di elementi comunque acquisiti e, dunque, di prove atipiche, o di dati ottenuti in forme diverse da quelle regolamentate, secondo i canoni tipici della prova per presunzioni.

Gli elementi assunti a fonte di presunzioni non debbono, peraltro, essere plurimi, potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su un elemento unico, purchè preciso e grave, mentre la valutazione della sua rilevanza non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretta da motivazione adeguata e non contraddittoria (Cass. n. 656 del 15/1/2014).

La prova per presunzioni può, pertanto, essere costituita anche da acquisizioni provenienti da una autorità straniera nell’ambito di direttive comunitarie o di accordi bilaterali.

3.3. Nel caso di specie, la fonte è costituita dalla direttiva 77/799/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1977, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte.

Come è stato chiarito dalla Corte di giustizia – Corte Giust., Grande Sezione, 22 ottobre 2013, causa C-276/12, la direttiva 77/799 non tratta del diritto del contribuente di contestare l’esattezza dell’informazione trasmessa e non impone alcun obbligo particolare quanto al contenuto di quest’ultima, dato che spetta solo agli ordinamenti nazionali fissare le relative norme; ne discende che il contribuente può contestare le informazioni che lo riguardano trasmesse all’amministrazione fiscale dello Stato membro richiedente secondo le norme e le procedure applicabili nello Stato membro interessato e spetta al giudice nazionale stabilire il valore probatorio che deve essere riconosciuto, nel caso specifico, all’informazione comunicata da uno Stato membro in base alla direttiva 77/799.

Occorre rammentare che la direttiva 77/799/CEE (art. 8) non impone l’obbligo di trasmettere informazioni quando la legislazione o la pratica amministrativa non autorizza l’autorità competente dello Stato che dovrebbe fornire le informazioni a raccogliere o utilizzare dette informazioni o quando porterebbe a divulgare un segreto commerciale, industriale o professionale o un’informazione la cui divulgazione contrasti con l’ordine pubblico.

Conseguentemente la cooperazione informativa non incontra un limite nel cd. segreto bancario, come chiarisce la direttiva 2011/16/UE, all’art. 18 (“…non può in nessun caso essere interpretato nel senso di autorizzare l’autorità interpellata di uno Stato membro a rifiutare di fornire informazioni solamente perchè tali informazioni sono detenute da una banca, da un altro istituto finanziario, da una persona designata o che agisce in qualità di agente o fiduciario o perchè si riferiscono agli interessi proprietari di una persona”); e ciò è del tutto coerente con il diritto interno, stante la disciplina in materia di accesso ai dati bancari introdotta dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 18, non costituendo il segreto bancario, anche nel regime anteriore, un principio inderogabile (Cass. 21580 del 7/11/2005).

3.4. Anche se i dati costituenti il frutto di cooperazione informativa intracomunitaria restano contestabili dal contribuente, il quale può, dunque, mettere in discussione, nell’ambito di un procedimento tributario nazionale, la correttezza delle informazioni fornite da altri Stati membri ai sensi dell’art. 2 della direttiva 77/799 e pur dovendo negarsi che la mera acquisizione di informazioni mediante lo strumento di cooperazione comunitaria abbia la capacità di “purgare” gli elementi acquisiti da eventuali illegittimità o vizi per la sola derivazione da autorità estere, deve parimenti escludersi la inutilizzabilità degli elementi trasmessi dall’autorità fiscale francese in ragione della loro provenienza illecita – ossia dal trafugamento dei dati bancari da parte di un ex dipendente della banca svizzera HSBC, F.H..

La cooperazione informativa in tema di disponibilità bancarie presso istituti esteri non trova, infatti, ostacolo nel fatto che i dati sensibili siano forniti alle autorità italiane dalle autorità di un Paese membro dell’UE che le riceva da un dipendente di una banca che li abbia illecitamente sottratti dai relativi archivi informatici.

La Corte Europea, esaminando il profilo relativo alla legittimità, ai sensi dell’art. 6 CEDU, dell’utilizzo all’interno del processo della prova così acquisita, ha affermato che l’utilizzazione processuale di prove illegalmente acquisite non costituisce di per se stessa violazione convenzionale dovendosi valutare se la procedura nel suo insieme abbia rispettato i canoni del giusto processo ed i diritti della difesa (caso Heglas c. Repubblica Ceca); analoghe soluzioni sono state adottate nei casi P.G. e J.H. c. Regno Unito e Khan c. Regno Unito.

Nella giurisprudenza nazionale, la Cassazione penale (Cass. n. 34294 del 21/8/2008, Cassano) afferma che vi è lesione di diritti fondamentali solo nel caso di acquisizione e utilizzo di prove che siano in contrasto con il principio basilare del divieto di influire sulla libertà di autodeterminazione e che pregiudichino la libertà morale.

Peraltro, come chiarito da questa Corte con la ordinanza n. 8605/15, “la giurisprudenza di questa Corte è orientata a mantenere una netta differenziazione fra processo penale e processo tributario, secondo un principio, sancito non soltanto dalle norme sui reati tributari (D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 12, successivamente confermato dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20), ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale” (Cass. nn. 22984, 22985 e 22986 del 12/11/2010; Cass. n. 13121 del 25/7/2012).

Alla luce delle considerazioni che precedono, deve ritenersi che, in materia tributaria, la irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento non comporta, di per sè e in assenza di specifica previsione, la loro inutilizzabilità, salva solo l’ipotesi in cui venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (Cass. 4066 del 2015; Cass. 27149 del 2011); di contro, alla base della riservatezza dei rapporti tra banche e clienti non ci sono valori della persona umana da tutelare, ma ci sono solo interessi patrimoniali ed istituzioni economiche.

3.5. Neppure può farsi discendere l’inutilizzabilità degli elementi desunti dalla cd. “lista F.” dalla condotta illecita a monte dell’azione dell’Ufficio fiscale francese, essendo essa riferibile personalmente al solo F.H..

Sul punto questa Corte con le ordinanze gemelle nn. 8605 e 8606 del 28 aprile 2015 ha precisato che “…l’eventuale responsabilità penale dell’autore materiale della lista – questione che esula dalla vicenda processuale odierna, non risultando la condotta nemmeno posta in essere in Italia (v. art. 7 c.p. rispetto alle ipotesi delittuose per le quali è astrattamente profilabile una competenza del giudice italiano in relazione a condotte commesse all’estero) – e comunque, l’illiceità della di lui condotta nei confronti dell’istituto bancario presso il quale operava non è in grado di determinare l’inutilizzabilità della documentazione anzidetta nel procedimento fiscale a carico del contribuente utilizzata dal Fisco italiano al quale è stata trasmessa dalle autorità francesi (si veda sul punto, la pronunzia della Cassazione penale francese del novembre 2013 (Cour de Cassation criminelle, 27.11.2014, ric. 13-85042) che ha espressamente riconosciuto l’utilizzazione – addirittura in ambito penale – della lista F. sul presupposto che al confezionamento eventualmente illecito delle prove non aveva cooperato l’autorità pubblica”.

3.6. Va, pertanto, ribadito il principio di diritto già espresso da questa Corte con la sentenza n. 16951 del 19 agosto 2015, secondo cui “L’amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento con valore indiziario, anche unico, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere stati acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Sono perciò utilizzabili nell’accertamento e nel contenzioso con il contribuente i dati bancari acquisiti dal dipendente di una banca residente all’estero e ottenuti dal fisco italiano mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria, senza che assuma rilievo l’eventuale illecito commesso dal dipendente stesso e la violazione dei doveri di fedeltà verso l’istituto datore di lavoro e di riservatezza dei dati bancari, che non godono di copertura costituzionale e di tutela legale nei confronti del fisco medesimo. Spetta al giudice di merito, in caso di rilievi avanzati dall’Amministrazione, valutare se i dati in questione siano attendibili, anche attraverso il riscontro delle contestazioni mosse dal contribuente”.

La Commissione regionale, ritenendo legittimamente acquisiti i dati e le informazioni trasmesse dall’autorità fiscale francese, si è uniformata ai principi di diritto sopra richiamati.

4. Con il terzo motivo la contribuente censura la decisione impugnata per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia e lamenta che i giudici di appello non hanno neppure marginalmente affrontato la questione di diritto afferente alla irretroattività del D.L. n. 78 del 2009, art. 12, oggetto di specifico motivo di gravame, nè hanno fatto cenno alla questione relativa alla carenza di motivazione in cui era incorso il giudice di primo grado, pure dedotto nel giudizio d’appello.

4.1. Il motivo è inammissibile.

4.2. In seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia” (Cass., Sez. 3 -, n. 23940 del 12/10/2017).

Nella specie, la ricorrente si duole del fatto che la Commissione regionale avrebbe omesso di prendere in esame la questione afferente alla irretroattività del D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, che è stata invece affrontata nella decisione impugnata, e non ha dedotto il “fatto storico” di cui il giudice d’appello avrebbe pretermesso la valutazione, sicchè la censura, così come formulata, non risponde ai criteri imposti dal testo novellato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze; rigetta il ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia delle Entrate. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6.500,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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